venerdì 20 agosto 2010

Berlusconi 2020: l'Ubu Re dei nostri bassifondi onirici


In un certo senso, Berlusconi non esiste. O meglio, esiste un corpo sociale, un dispositivo psicologico che lo ha partorito. Esiste una domanda collettiva di incoscienza e incolumità. Esiste la garanzia che nessuno ci punisca se si tocca il culo alle donne o o si fa cucù a un capo di Stato (Angela Merkel). Esiste, in poche parole, l’Italia. E l’Italia non muore. Quindi non muore neanche Berlusconi. Può estinguersi il Pdl, può cadere il governo, possono nascere altre alleanze, ma il potere simbolico di B. è destinato a resistere al tempo. Ne può uscire ammaccato, con qualche graffiatura, con un sorriso meno smagliante, leggermente più cereo, un po’ invecchiato, ma il fantoccio del signor B. ormai è ben piantato nel nostro immaginario, perché non l’abbiamo subito ma creato, gonfiandolo a dismisura, ebbri di felicità.
Nessuno ci ha impedito di fabbricarci il nostro Ubu Re, il padrone-servo dei nostri bassifondi onirici. Non ce lo ha impedito la Sinistra, che si è limitata ad alzare la bacchetta dei maestri saccenti tutte le volte che gli scolari svogliati diventati presidi (è chiaro che tutto il berlusconismo ha significato la rivincita degli ultimi della classe) si prendevano eccessive libertà. Non ce l’ha impedito l’Europa e neanche l’America né il mondo tutto, che ha sfilato col G8 all’Aquila, partecipando al più nefasto banchetto della storia italiana, pascendosi dei resti dei cittadini abruzzesi massacrati da troppi terremoti. Non ce l’ha impedito il nostro oscuro senso del pudore che è sintomo di una doppia morale ben radicata nei nostri animi.
In un certo senso, mentre lo impalano e lo additano come esempio di vergogna sociale, tutti ci invidiano un po’ Berlusconi. Perché nessuno si è spinto “fino a questo punto” senza farsi mai male. Tutto ciò è stato possibile perché, semplicemente, Berlusconi, non porta con sé un corpo reale, capace di soffrire e di provare dolore o vergogna, ma un corpo-monstre. In questo senso, è una incarnazione perfetta delle più sofisticate (e ancora tutte da studiare) forme del potere, dove il simulacro ha completamente preso il posto del reale. Con tutta la buona volontà, è difficile pensare che Silvio Berlusconi sia un equivalente di Nicolas Sarkozy o di Angela Merkel, perché Sarkozy e Merkel appartengono ancora ad un universo tangibile di segni. In questo senso, l’Italia è all’avanguardia. In fondo, lo è sempre stata. Se pensiamo alla marionetta di Totò o ai tanti personaggi “simpatici”, refrattari alle regole, della commedia all’italiana,, capiamo che esiste un’anomalia italiana. Nel suo bellissimo libro su Sordi, Goffredo Fofi parlava proprio della maschera di Sordi come incarnazione di uno spirito nazionale capace di lavorare su un diffuso senso di incolumità e su un puro istinto sopravvivenza, aggirando le tentazioni del tragico.
Ora, rispetto ai modelli classici della commedia all’italiana (fenomeno cinematografico che è esistito solo in Italia), il signor B. è una evoluzione, un capolavoro di estetica avanguardista. Una sintesi che poteva prendere piede solo nel laboratorio-Italia: un Ubu Re passato dalla fabbrica di Dino Risi.
Nella parabola tragico-comica inventata da Alfred Jarry, Ubu Re è una creatura demente che diventa “non si sa come re” di Polonia e di Aragona, arrivando a buttare nella botola i magistrati, cancellando tutti i diritti, “decervellando” i sudditi e auto-proclamandosi “padrone unico delle finanze”. Nonostante l’imbecillità catastrofica, nessuno riuscirà a fermarlo. Perché la sua forza non è nell’ “io” ma nel corpo collettivo. Quando, nell’”Ubu incatenato”, il re stolto tenterà di capovolgere la situazione facendosi schiavo degli uomini liberi, accadrà una cosa inaudita: incapaci di godersi la propria libertà senza una proiezione simbolica, un fantoccio da venerare, gli uomini liberi decideranno di chiudersi in prigione assieme a Padre Ubu, per incoronarlo nuovamente Re.
La favola “patafisica” di Jarry ci dice una verità semplice: dietro il pupazzo di un tiranno, può non esserci un uomo in carne ed ossa, ma un istinto collettivo di schiavitù camuffato da anelito di libertà. Insomma, sono gli altri a tenere in vita il fantoccio.
Questo è Ubu Re. Questo è Jarry. Ma il signor B. non è, ovviamente, portatore di una demenza marionettistica. Al contrario, ha dimostrato astuzia politica e doti strategiche. Tutto questo però sembra essere avvenuto a sua insaputa, per doti miracolose. Il potere che Berlusconi si è costruito nel tempo è, evidentemente, il frutto di uno spropositato, fluviale, inarrestabile, conferimento di potere. Come Ubu incatenato, Berlusconi è vittima dei suoi stessi sudditi, di quei vassalli che non riescono a liberarsi di lui e lo issano sul trono per mostrare come vorrebbero essere e non riescono ad essere.
Qui entra in campo il discorso della sessualità. I ripetuti scandali di palazzo Grazioli hanno fatto il giro del mondo. Come è possibile che tutto ciò non abbia subito un freno? A quale istinto profondo del Paese dobbiamo fare riferimento per arrivare a capire di che cosa veramente si parla quando si parla del sesso del signor B? In ogni casa, ogni santa sera che Dio ha mandato in terra, non si è fatto altro che ficcarsi nel letto di B. e delle sue escort. Ora, una cosa è pretendere che un capo di governo non menta al paese, che non usi il suo potere per abusare del corpo femminile, altra è cadere nell’ossessione di un Berlusconi sempre attivo e sempre funzionante. E’ evidente che il potere sessuale (e quindi il potere-potere) del signor B. viene amplificato all’ennesima potenza ad ogni dibattito pubblico o privato. Tutti abbiamo contribuito a farla funzionare, questa immagine di un capo di governo priapesco e famelico, attraverso una coazione linguistica che rivela, alla fine, una povertà d’immaginario. Come in una interminabile seduta da bar, ci siamo seduti davanti alla tv e ci siamo fatte grasse risate, non sapendo che anche il sarcasmo o l’indignazione costituivano, alla fine, una variazione comportamentale del compiacimento. Il fantoccio del signor B. gonfiato in maniera sproporzionata e folle non ci abbandonerà più. Come Padre Ubu, che teneva la propria Coscienza in valigia e le permetteva di uscire solo ogni tanto per farsi dare qualche consiglio che poi regolarmente non seguiva (“Coscienza mia, dove siete? Controventraglia, mi davate dei buoni consigli. Faremo penitenza e restituiremo fra le nostre mani qualche briciola di ciò che abbiamo preso. Non decervelleremo più”), il signor B può permettersi di vivere una vita senza psiche, e quindi senza vero corpo (perché la psiche, a differenza dell’anima, il corpo ce lo deve avere per forza). In questo senso, ci appare come una stupefacente macchina avanguardistica che, anche quando lui, Silvio Berlusconi, non ci sarà più, continuerà ad esistere, ossigenata e spolverata da una schiera di adepti riuniti nei sottoscala del nostro immaginario, là dove convivono allegramente Pierino e la maestra tettona, i mostri e i nuovi mostri di Risi, la maschera di Sordi, il bestiale senso degli affari, una politica alternativa senza sangue e un salutare imperituro impudico irriverente e, per certi versi, catartico bisogno di prendere la vita come fosse un gioco.

(pubblicato su "Gli Altri" nl numero monografico del 13 agosto 2010 dedicato al post-berlusconismo)

Hamlice: il potere accecante del bianco


"In principio era il bianco. Fu Dio a crearlo, primo fra tutti i colori, e questo restò un segreto finché Sir Isaac Newton si mise a sedere in una camera oscura alla fine del diciassettesimo secolo:la bianchezza e le tonalità grigie tra il bianco e il nero sono forse composte di tutti i colori, come la bianchezza della luce del sole è composta di tutti i colori primari.... Da un buchetto tondo in una persiana chiusa il sole splende in una camera buia, la sua luce essendo ritratta da un Prisma che proietta il suo Spettro colorato sul muro opposto: io tenevo in mano un foglio bianco rivolto a questa immagine in modo che da laggiù vi si riflettesse la luce colorata…". Derek Jarman dice cosa è il bianco in “Chroma”, il suo trattato autobiografico sui colori. Il bianco, il primo colore creato dal nulla, il bianco che riflette tutti gli altri e rimane un mistero. Ci ritorna in mente, la storia raccontata da Jarman, un pomeriggio di luce assoluta, dentro il carcere di Volterra. Nel tempo altrettanto assoluto dell’attesa. Il passaporto viene ritirato all’ingresso, come tutto il resto, soldi telefono borsa, tracce di una identità univoca. Ora in esigui gruppi siamo stati gettati nel cortile, al di qua del cancello, più fuori che dentro. Si parla in maniera sommessa. Si guarda, soprattutto. Si ascoltano i fruscii, le presenze. Si sta in attesa. E’ un tempo spesso: è il tempo della preparazione al rituale. Teoricamente, dopo potrebbe accadere qualsiasi cosa: una passeggiata agli inferi, una scena di condanna a morte, un volo d’angelo. L’atmosfera è carica di una elettricità pulviscolare, attonita, che si riflette nei volti. Quando i guardiani aprono i cancelli, ci disponiamo silenziosi in fila. Saliamo, uno dopo l’altro, senza far rumore, uomini liberi che possono soltanto simulare di essere stati condannati. Eccoci dentro, a camminare con un leggero spavento per un corridoio lungo e stretto, a spiare dagli spioncini e da piccole fratture nei muri stanze disadorne, carte e tavoli che sembrano stati abbandonati secoli fa e invece sono ancora abitati da sorveglianti. Poi il corridoio cambia luce. Si trasforma. Siamo invasi di nuovo dal bianco. Il bianco della vernice bianca sulle pareti. Sulla vernice sono stati scritti a mano i versi dell’Amleto La mente è completamente occupata dal bianco e dall’inchiostro. Prima epifania.l’inchiostro nero sulla vernice bianca.
Sparpagliati, entriamo nelle stanze-celle. In una stanza c’è il tavolo in cui Alice prende il the. Ma Alice non c’è. Ci sono solo le grandi tazze di polistirolo accanto a tazzine di porcellana. In un’altra stanza c’è un letto di detenzione e una catena fissata al letto. In un’altra ,il teatro ancora vuoto, con gli oggetti catapultati dal mondo di Lewis Carroll, messi in un modo apparentemente caotico. In fondo al corridoio, una gabbia con gli uccellini.
Seconda epifania: la tempesta di suoni. Lo spazio viene all’improvviso “fonetizzato”. Ad ogni angolo appaiono gli attori della Compagnia della Fortezza, annunciati dalle loro voci. Ciascuno di loro indossa un costume reinventato (dal genio visionario di Emanuela Dall’Aglio), personaggi in bilico tra Alice e Amleto. Tutti portano tacchi altissimi, coturni immaginifici. Nel mondo duramente maschile di un luogo di detenzione fa irruzione un segno transgender. Terza epifania: la visione di un mondo capovolto e luccicante che ti avvolge nel colore, e nella follia.
Shakespeare, Laforgue, Genet, Carroll, Deleuze, Scaldati, Ruccello, Marinetti, Fassbinder, Heiner Muller si scatenano come tuoni nel carcere, parlati dai corpi di questi sconvolgenti attori-prigionieri. Anche Armando Punzo, il regista di Hamlice, saggio sulla fine della civiltà, l’orchestratore-demiurgo della compagnia della Fortezza, è tra loro, costume nero, gesto furioso, liberatorio, straziato nello sguardo, in corsa allarmata. E’ l’Amleto che denuncia la follia di un mondo dove si sorveglia e si punisce con vecchi sistemi di tortura.
Finché si esce nel cortile esterno. La luce del fuori esalta le forme degli occhi, i colori accesi dei costumi, e gli stessi vestiti degli spettatori. E’ come una vernice fresca che scrive sul corpo. Quarta epifania: la luce di fuori inonda la luce di dentro e la fa uscire fuori.
Si ritorna dentro. Per ascoltare altri monologhi, assecondare altri flussi, ennesime metamorfosi. Eccola Alice, che corre da una parte all’altra e non dice una parola. Guarda, Alice, come noi spettatori, attoniti, travolti, impressionati. E corre.
Poi tutto si scioglie, pian piano, così come si è acceso, e si torna di nuovo fuori, la luce adesso è meno forte. Al centro del cortile, c’è una montagna di lettere di polistirolo. Tutte le lettere dell’alfabeto. E’ un vecchio a lanciare per aria la prima. Poi arrivano gli altri, gli attori e gli spettatori, Tutti lanciamo le A le B e le S nel cielo, mentre Armando Punzo legge i versi di un poeta sulle parole che possono dare la libertà. Si ride, e ci si emoziona, a immaginare un mondo diverso. Quinta epifania: la rivoluzione delle parole. La catarsi.
Riprendiamo il passaporto la borsa i soldi il telefono. Ora siamo fuori dal carcere Noi siamo “fuori”. Gli attori della Fortezza a questo punto si staranno sfilando le scarpe alte e luminescenti. Si staranno struccando. Staranno riprendendo possesso dei loro corpi tatuati. Di certo si stanno sorridendo tra di loro. Parleranno ad alta voce e si diranno: come è andata? è stato bello no? si è stato bello. Poi si farà sera e si avvicineranno ai loro letti e cadranno nel sonno. Chi sognerà Alice, chi Amleto. Tutti sceglieranno la loro parola di libertà. Uno di loro sognerà il mondo nel quale ci troviamo noi adesso, il mondo di fuori dove si cammina si ama e si pensa che ci sarà un domani diverso dall’oggi. Qualcun altro spegnerà la luce senza dire niente, non ha mai detto niente perché non c’è niente da dire, e pregherà di non sognare niente.


(Pubblicato su "Gli Altri" il 20 agosto 2010)

Massimo Bordin, la mia vita a Radio Radicale

Un baracchino colorato, di quelli che stanno vicino alle fiere, accanto alle chiese, nelle piazze segnalate dalle guide. C’è scritto “L’isola della frutta”. Il venditore ambulante se ne sta piantato proprio di fronte al numero 2 di via Principe Amedeo, a pochi passi dalla stazione e dal mercato di piazza Vittorio, nel ventre metamorfico della città, là dove i suoni di lingue incomprensibili di depositano su facce diseguali. Al numero due ci sono l’Hotel Principe e l’Hotel Touring. I turisti entrano ed escono, a gruppi spessi. In un primo momento, pensiamo di aver sbagliato. E invece la redazione di Radio Radicale è proprio qui. Mimetizzata. Complice. Aperta. Trafficata. Come il pezzo di scenografia naturale dentro cui ha trovato, tanti anni fa, la sua forma. Per diciannove anni Massimo Bordin ha messo la sveglia alle cinque e ha attraversato l’alba per arrivare a via Principe Amedeo, sintonizzarsi con il flusso sanguigno della città, raggiungere la sua scrivania leggere i giornali e poi parlare-informare-parlare. Finche in una conversazione domenicale con Pannella qualcosa è andato storto, sono volati via gli insulti. Bordin ha presentato le dimissioni da direttore. Mentre lo attendiamo, arrivano soffuse le voci della radio più affabulante d’Italia - Berlusconi Fini la guerra la pace - senza soluzione di continuità, senza musica. Per chi ascolta da fuori, non c’è musica. Ma per chi ascolta da dentro, alle registrazioni in studio si affianca il nastro sonoro della strada. Quando Bordin arriva nella sua stanza, tutti lo salutano con un “Buongiorno direttore”.

Bordin, è convinto di aver fatto la cosa giusta? Diciannove anni sono diciannove anni....

Diciannove anni sono un anno in meno di venti. Anche per motivi scaramantici, è meglio evitare il ventennio. Mi rendevo conto che più il tempo passava, più subentrava un istinto di routine. Il fatto che io dal 1 agosto non sia più il direttore di Radio Radicale (al mio posto ci sarà Paolo Martini, il caporedattore) non può che giovare alla redazione e a me.


Quale è stata la ragione vera del “divorzio”?

Sono stato accusato di aver avuto un’eccessiva attenzione nei confronti dell’area politica rappresentata da D’Alema. Avevo collaborato con red Tv, la tv satellitare vicina alle sue posizioni. In più, insieme ad un collaboratore della radio che si occupa di Medio Oriente, avevo stabilito un rapporto con la Fondazione dei Progressisti Europei. Ma la verità è un’altra. Ancora prima dei sospetti su questa mia presunta relazione politica con D’Alema (con il quale, peraltro, ho un rapporto che si limita al “buongiorno, buonasera”), Pannella si lamentava della linea editoriale della radio, che secondo lui si disallineava dalla sua linea politica. Cosa che contesto. Chiaramente siamo due persone diverse, ma le mie posizioni non erano così divergenti.

Il padre che divora il figlio. per questa storia, è stato tirato fuori il vecchio mito di Crono.

Fra i luoghi comuni di cui i giornalisti hanno abusato, c’è questa storia di Crono che divora i figli- Tutto nasce dall’intervista che Pannella aveva rilasciato all’Adnkronos. Alla domanda che gli hanno fatto (perché Bordin fa così?) lui ha risposto: forse perché non vuole più essere mangiato dal padre Crono. Al che io mi sono permesso di rispondere indirettamente: tanto non mi mangia.! Manon è questa la storia.

Siete state amici?

Non esattamente. Pannella è il leader del partito al quale sono iscritto ed è il mio editore.

Lui sostiene di non comportarsi come editore.

In parte è vero. In alcuni stati è stato vero. Fondamentalmente, il ruolo di editore di Pannella è stata una garanzia per la radio. Tutte le volte che il partito ha cercato di intervenire sulle scelte della radio, lui ha posto un freno.

E adesso non vi parlate più?

Non si può non parlare con Pannella. Non così tanto come vorrebbe lui, ma bisogna parlarci.

Quali meriti gli riconosce?


La capacità di aver costruito uno strumento politico nel quale molti possono riconoscersi, mantenendone la guida. Dentro il Partito Radicale è passato veramente di tutto.

Nell’attuale scenario politico, quale è il compito del Partito Radicale?

In questo momento della storia, il compito è quello della rivoluzione liberale.

Non è un obiettivo molto diverso da prima...

L’obiettivo resta lo stesso perché l’Italia è una democrazia incompiuta. Detto con parole mie, che Pannella sconfesserebbe, abbiamo il compito di rendere l’Italia un paese sempre più simile ai paesi di democrazia avanzata, in particolare mi riferisco ai paesi anglosassoni e scandinavi. Se siamo in questa condizione retrograda, non è colpa di Berlusconi. Berlusconi è un sintomo. La malattia è precedente.


Cosa farà d’ora in poi?

Resterò qui ad occuparmi della rassegna stampa- E in particolare dello speciale giustizia, che è una cosa che facevo tanti fa.


Quindi continuerà ad alzarsi presto la mattina.

Già.

A che ora si è alzato in tutti questi anni?

La prima sveglia suona alle cinque e un quarto. Ma questo solo nei giorni feriali.

Quante ore dorme ogni notte?

Quattro, cinque. Non riesco mai ad andare a letto presto. La vita politica italiana non ha ritmi europei, ma libanesi. Per cui bisogna sempre dare un’occhiata ai talk show serali.

Come strumento, la radio permette interventi di libertà e denuncia che la tv non può permettersi. Tutte le volte che la ascolto, ho l’impressione di fare qualcosa di vietato....

In quanto ascoltatore, hai la libertà di dare un’immagine alla voce. In questo senso c’è meno controllo. E’ la superiorità dello scritto sull’immagine. E’ il motivo per cui i libri sono sempre più belli dei film ispirati a quei libri.

Da ragazzo, lei ha aderito all’Internazionale Socialista ed è stato trotzkista.

Sono nato politicamente come giovane comunista. Quando è arrivato il Movimento studentesco, ci sono finito dentro. Poi sono entrato al “manifesto”. Nel ’73 ho aderito alla IV Internazionale, perché mi affascinava tutto il dibattito sulla forma-partito.

Quale è stato il senso dell’essere trotzkista?

In poche parole, il trotzkismo è la ripulsa dello stalinismo dentro i binari del comunismo rivoluzionario.

Ma oggi può ancora significare qualcosa?

Besancenot, il “postino” francese che ha avuto un successo stepitoso nell’ultima campagna elettorale francese, era trotzkista, anche se poi il suo partito ha cambiato nome scegliendo di chiamarsi “anticapitalista”, ma le radici sono quelle. Mi rendo conto che dentro quelle formazioni politiche il dibattito politico è veramente criptico, non fanno che cambiare nome, ma non sono fenomeni da sottovalutare.

Si definisce marxista?

Io sono uno di quelli che pensa che il marxismo non vada buttato tutto. Mi sono fatto quest’idea: di Marx va tenuta la sua apologia (che arriva quasi a livelli poetici) del capitalismo. Marx ha studiato la legge del valore in tutte le sue possibili varianti e, preconizzandone la fine, ne è diventato una sorta di apologeta. Come politico, era un disastro (l’unica cosa buona che ha creato è l’Internazionale Socialista). Quello che ci ha lasciato di profondo è la riflessione sul funzionamento della macchina non come manualità ma come intelligenza. Marx ha interpretato il mondo attraverso le macchine e il denaro, e non c’è un modo migliore di interpretare la storia.


Che libri ci sono oggi sul suo comodino?

Libri sul fondamentalismo religioso e sul Medio Oriente. E poi testi di cronaca giudiziaria: la mafia, la trattativa, Ciancimino...

Nessun romanzo?

Sono figlio di una generazione che stoltamente ha privilegiato la saggistica rispetto alla narrativa. Sto cercando di recuperare, ma sono molto indietro. Ho letto tutto Sciascia, Parise e Manganelli. Mi piace molto Hemingway. E ho un’autentica passione per Lo scrivano Bartebly di Melville: lo trovo un libro politico.

“I would prefer not to”, “Preferirei di noi”...(è la frase storica di Bartebly). Può essere letto, in effetti, come un libro sulla disubbidienza.

Si, è un libro sulla disubbidienza e sulla condizione umana. Sostanzialmente, Bartebly è un martire.

Il film di questa stagione che le è piaciuto di più?

Il concerto: riesce a lavorare insieme sulla corda della commozione e dell’ironia. Comunque al cinema in genere non ci vado spontanemente, mi ci porta la mia compagna.

Figli?

Un figlio nato dal precedente matrimonio. Ha 21 anni.

Mi dica che non fa il giornalista

Non ci pensa proprio, Fa lo stewart per la Ryan Air.

Meno male.

Si di figli di giornalisti ce ne sono fin troppi.

Tra tutte le interviste-conversazioni fatte in questi diciannove anni, quale è sta quella che l’ha più sorpresa?

Mi ha sorpreso Gioacchino Genchi, il grande “intercettatore”: soggetto molto diverso da come uno se lo può immaginare. Non la penso come lui, ma ne ho apprezzato l’intelligenza.

In 59 anni, lei non si è mai spostato da Roma. mai nessuna intenzione di vivere altrove?

E’ un posto dove non si vive male. Ho sempre pensato però che la città che si avvicina di più al modello europei sia Milano e non Roma. Spesso vado a Palermo (la mia compagna è d’origine palermitana) e la trovo meravigliosa. Non so se ci vivrei, ma è una città che ti consente di avere un ritmo di vita contemplativo anche se non sei contemplativo di natura.

Ama quindi le città d’acqua.

Sì, anche se poi una cosa è vivere un posto, altro è ricordarlo, o raccontarlo. Il primo film di Martone su Caccioppoli, Morte di un matematico napoletano, era geniale proprio perché non faceva mai vedere il mare di Napoli.

(Pubblicato su "Gli Altri")

Chiara Moroni, tutto in nome del padre


Ha un fisico esile, delicato. Veste di nero, e al collo porta una collana semplice con su scritto il suo nome: Chiara. Chiara Moroni ha soli trentasei anni e da dieci fa politica. Figlia di Sergio, il parlamentare socialista morto suicida nel 1992 in seguito alle inchieste di Mani Pulite, autore di una drammatica lettera testamento indirizzata all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano. Chiara ha voluto presto tutelare la memoria del padre lavorando dentro le fila del Pdl. Lo sguardo della giovane deputata è acceso, la parlata velocissima, come il flusso dei pensieri che l’anticipa. La parola che ripete più spesso è “testa”. Le interessa il lavoro della testa. Specialmente quando serve a controllare il corpo. Tra gli innumerevoli sport che pratica, predilige la maratona proprio perché delle due cose è la perfetta combinazione: “Dopo trentacinque chilometri, il corpo ti ha già abbandonato. Arrivi alla fine solo con la testa”. Di presenza, è molto più bella che in foto. Sarà perchè ultimamente i fotografi l’hanno colta sempre arrabbiata, pensosa, preoccupata. Le immagini pubblicate sui giornali raccontano il travaglio che ha preceduto il suo discorso alla Camera, un discorso coerente e doloroso con il quale ha ricordato suo padre Sergio e, per protesta sull’affaire Calendo, ha salutato Silvio Berlusconi, per andarsene con Fini a costruire Futuro e Libertà: “Non posso tollerare che la battaglia garantista venga confusa con la giustificazione. Non posso tollerare, altrettanto, alcun giustizialismo...La mia è una storia profondamente garantista, Negli anni di Tangentopoli, mio padre ritenne di doversi togliere la vita...”

Chiara, quanto le è costato quel discorso, l’addio al Pdl?

E’ nato da un sentimento che è venuto a maturazione progressivamente ma ha trovato un’occasione specifica per esprimersi. In realtà il mio discorso era più ampio rispetto al fatto specifico.

Perché, secondo lei, non si può in nessun modo parlare di giustizialismo in riferimento alle vicende umane e giudiziarie che riguardano il sottosegretario Caliendo?

Il sottosegretario Caliendo è perfettamente tutelato dalla garanzie democratiche che invece non ebbe mio padre nel ’92. Per questo ho deciso di non partecipare al voto. Quando mio padre sentì di dover fare quel gesto estremo per poter gridare la propria innocenza (ndr. aveva ricevuto due avvisi di garanzia per tangenti sull’ospedale di Lecco), c’era un’emergenza garantista: una piazza forcaiola, una classe politica ostaggio della piazza...Oggi non è così. Nel caso di Caliendo, non è una questione di garantismo o giustizialismo, è un problema di opportunità politica, è una questione etica e di responsabilità personale e pubblica.

2 settembre 1992. Lei dove era quel giorno in cui suo padre si chiuse in casa e si sparò un colpo di fucile?

Ero con mia madre nella casa al lago. Mio padre aveva tentato più volte di togliersi la vita. Eravamo molto preoccupate e lo seguivamo dappertutto. Quel giorno ci imbrogliò dicendoci che doveva andare dall’avvocato. Sparì per un giorno intero. Fu la mia tata storica a scoprire il corpo: si era chiuso nella cantina della nostra casa di Brescia e si era sparato con il fucile un colpo in bocca.

Lei lo vide?

Nè io né mia madre. Ce lo impedirono. Io avevo solo 17 anni.

Chi era suo padre?

Mio padre...Mio padre era una persona in cui l’uomo e il politico coincidevano perfettamente. Aveva cominciato a fare politica a sedici anni. Era un uomo di vasta cultura, di belle letture che mi ha trasmesso. Anch’io sono una lettrice famelica.

Quali autori le ha fatto amare?

Hemingway, Proust, Lenin, Pasolini., Miller, Verga....Il capitale di Marx e Le lettere dal carcere di Gramsci.

Parlavate molto?

Quando è morto, avevamo appena cominciato a costruire il nostro rapporto. Però sì, parlavamo molto, specialmente a cena. Da piccola, avevo un rapporto molto stretto con mia madre, da adolescente mi sono avvicinata a mio padre. Lo ammiravo. Mi sono iscritta presto alla Federazione Giovanile Socialista. Mi ha passato sicuramente la passione per la politica concepita come mediazione dei conflitti sociali. Mio padre aveva un’idea altamente morale della politica, come si capisce dal testo della lettera che aveva indirizzato a Napolitano.

Riconosceva però anche la propria responsabilità nell’aver accettato il gioco della politica.

Si, mentre denunciava l’ondata giustizialista, il clima da pogrom, ammetteva la propria colpa nell’aver accettato il sistema, cioè nell’aver fatto un compromesso di troppo rispetto alla propria coscienza, alla propria integrità morale.

La portava spesso con sé?

Si ero una bambina quando mi portava alla Camera. Percepivo allora un rispetto del luogo e dell’Istituzione molto diverso da oggi.

Non ha mai provato un sentimento di rabbia nei confronti di suo padre? Il suicidio sarà anche un atto politico, ma è anche un gesto terribile nei confronti di chi resta, delle persone che ti amano.

Si, a tratti provo rabbia. Per mio padre era insopportabile l’idea di essere accomunato nella generica definizione di ladro. Quelle accuse avevano creato una frattura profonda nel sistema della sua identità. Questa è la vicenda intellettuale, che io ho compreso. Poi c’è la vicenda intima, e su quella sono ancora molto arrabbiata. Il suo gesto tragico ha cambiato tutta la nostra vita, ed è stato molto difficile, per me e per mia madre.

Cosa fa oggi sua madre?

Ha una farmacia a Brescia. E’ una donna sportiva ed energica. Siamo profondamente legate.

Della sua vicenda, mi ha sempre colpito una cosa: il fatto che invece di chiudersi in un muto e orgoglioso riserbo, chiudendo le porte al mondo e trincerandosi nel suo dramma privato, lei ha pensato di fare politica. E’ un gesto paradossale. Non egoistico.

Mi fa piacere che lei dica una cosa del genere, perché in alcuni casi sono stata accusata di approfittare della mia tragedia personale per inventarmi un mestiere. In realtà, la tentazione di chiudermi assieme a mia madre nel dramma privato, c’è stata., almeno all’inizio, ma poi ho capito che il gesto di mio padre non era privato ma pubblico. E’ l’ultimo gesto politico della sua vita da socialista. In questo senso, sperava nel valore esemplare del suo suicidio: al fine di potere evitare agli altri quella sofferenza che aveva patito durante tutti quei mesi. Per questo ho deciso di scendere in politica: per mantenere vivo il valore morale e pubblico del suo atto.

Lei che è così attenta alla questione morale, non ha mai avuto nessun momento di imbarazzo tutte le volte che il presidente del Consiglio, capo del suo partito, è stato al centro di pesanti vicende giudiziarie?

Io ho un profondo sentimento di gratitudine nei confronti di Silvio Berlusconi. Ho un rapporto personale con lui e credo di conoscere il suo animo. Ognuno di noi può fare degli errori ma credo nella bontà dell’uomo. Sono anche convinta che in questo Paese ci sia stata stato un uso politico della giustizia contro Berlusconi.. Comunque, le vicende che lo riguardano sono altra cosa rispetto alla stima che ne ho.

Quindi verso di lei Berlusconi ha avuto un atteggiamento paterno.

Assolutamente sì. Ha sempre avuto un atteggiamento protettivo. Anche in questi ultimi giorni in cui ho dovuto comunicargli il mio dissenso e il mio disagio rispetto al progetto politico del momento, lui si è mostrato comprensivo. Dentro Forza Italia mi sono sempre sentita libera di esprimere le mie posizioni. Ma il Pdl di oggi non somiglia più a quello che era Forza Italia. Comunque continuo a pensare che Berlusconi sia un uomo libero e liberale.

Come donna, non ha mai sofferto delle sue esternazioni maschiliste e degli estenuanti riferimenti alla sessualità (la battuta su Bocchino è solo l’ultimo esempio)?

Perché, che cosa ha detto?

Ha detto che si era molto dispiaciuto quando ha saputo che Bocchino corrispondeva al nome di un deputato e non ad un punto del programma politico.

Fa parte di quello è l’uomo. Bisogna anche dire che la gente lo vuole proprio così, proprio per queste cose che dice. Ma in realtà è un uomo geniale.

Cosa si aspetta da Fini e da Futuro e Libertà?

E’ un progetto innovativo nel quale mi piacerà lavorare. Fra l’altro parte da un uomo politico come Fini che ha avuto il coraggio di creare una forte discontinuità nei confronti del proprio passato.

Le donne che ha incontrato in politica agiscono e pensano diversamente dagli uomini?

Ho notato un maggior rigore, un forte senso del dovere e della partecipazione. In genere, siamo più preparate degli uomini, forse perché abbiamo dovuto sempre lottare per farci notare. E siamo più allenate a tenere vivi i rapporti con il mondo esterno.

Che sentimenti prova nei confronti di Antonio Di Pietro?

Le sue posizioni, prima come magistrato, ora come politico, sono sideralmente lontane dalle mie. Per me rappresenta il peggio del populismo. Non provo però un sentimento di rancore per quello che è accaduto a mio padre.

Se in uno scenario fantapolitico, un giorno lei dovesse trovarsi nella stessa coalizione che accoglie anche l’Italia dei Valori, come si comporterebbe?

Mi sembra improbabile.

Ma non impossibile.

Già, la politica è sempre così in continua evoluzione che è difficile fare delle previsioni...Anche Bobo Craxi ad un certo punto si è trovato in una colazione di cui faceva parte l’Idv..,I giochi della politica a volta ti portano a fare dei compromessi. Detto questo, cercherò sempre di stare da un’altra parte.

Cosa fa, quando non lavora come parlamentare?

Leggo, cucino, faccio sport. Amo lo sci e la barca a vela. Sono iper-cinetica. Adesso mi sto appassionando alla maratona. Mi piace perché ha un aspetto di testa rilevante. E’ una continua sfida contro se stessi.

Lei ha una laurea in farmacia....

Si, avevo anche cominciato a lavorare nella farmacia di mia madre, ma mi sono dedicata presto alla politica. Quello che mi manca di più è il lavoro di laboratorio all’Università. Io sono proprio un tipo da laboratorio.

E’ un’attitudine che ha portato anche in politica?

Penso di sì. Io non so se mi manca il laboratorio in sé oppure se lo ricordo con nostalgia perché semplicemente mi somigliava, mi restituiva il mio alto senso di precisione... Io sono ordinata a livelli psicopatici: i maglioni nell’armadio sono sistemati a seconda della gradazione di colore.

Segno zodiacale?

Bilancia.

Quando deve prendere una decisione importate oppure si sente in grave difficoltà, cosa fa: si chiude in se stessa, chiama sua madre, si mette a correre, cucina?

Un po’ tutte queste cose insieme. Lo sport è un grande sfogo. Anche la cucina però. C’è stato un giorno in cui ero particolarmente provata, ero alla Camera e sentivo che sarei uscita dalla situazione solo facendo qualcosa di manuale. Allora sono andata a casa a preparare una sacher torta. Non mi bastava cucinare: dovevo fare una cosa complicata, che mi impegnasse fisicamente ma che richiedesse anche una grande dose di concentrazione e attenzione. Poi ho un’amica, Laura, che è più di una sorella. A lei dico tutto, più che a me stessa. Gli uomini passano, lei resta.

E’ stata sposata...

Sì, e ho anche divorziato subito. Ho fatto tutto in fretta.

Ha amici nel mondo della politica?

Bobo Craxi. Non siamo sempre d’accordo sulla politica, ovviamente, ma ci lega una vera amicizia.

Giornalisti e testate di riferimento?

Le dirò un solo nome, che per me è sopra tutti: Massimo Bordin. Quando ho saputo che si era dimesso da direttore di Radio Radicale e che c’era il rischio che lasciasse la rassegna stampa, ero sconvolta. Per fortuna ho visto che continua a farla. I commenti di Bordin sono meravigliosi. E devo dire che anche le liti in diretta con Pannella lo erano. Mi augurano che in futuro ne facciano altre.

Kilowatt, più festa che festival


Già nel titolo, fa promessa di elettricità: “Kilowatt” come energia della scena. Nella babele dei festival estivi, è una continua corsa alla visibilità. E Kilowatt non corre meno degli altri. Corre però a modo suo, in una forma circolare e sorprendente. Non si affanna, per esempio, a portare in scena dei debutti assoluti. Qui non siamo al supermarket delle primizie che poi, se vai a scartare non sono mai troppo fresche. Che altro? Se ne frega dei generi, e in fondo, anche delle mode. Infine, fa un salto che sulla carta può suonare artificiale e anche occludente: chiede a quindici critici di tutta Italia (chiamati “fiancheggiatori”) di discutere assieme alle compagnie e agli spettatori - che quegli spettacoli hanno scelto - di poetiche. Senza altro scopo che quello della discussione. Altro fatto da registrare attentamente. Insomma, chi è stato a Sansepolcro (Arezzo) nei giorni scorsi non ha consumato prodotti appena confezionati e sigillati in asettiche buste di plastica. Al contrario, ha fatto esperienza dello spreco creativo, di quella indispensabile “perdita” di cui scriveva Bataille (La part maudit), quando individuava nella “festa” un orizzonte di senso non solo estetico ma politico, una capacità di aggregare e rigenerare le “energie” accumulate e avvilite dalla società capitalistica.
Non un “festival”, ma una “festa” dunque, Kilowatt 10. Una festa per i preparativi, e per l’andamento. I preparativi: la kermesse estiva di Sansepolcro deve tutto al lavoro dei “visionari”, una ventina di spettatori accorti che hanno guardato 250 video di teatro per arrivare a selezionare nove spettacoli. L’idea è nata a Luca Ricci, direttore artistico della manifestazione, e rivela la necessità di cambiare le regole del gioco, le modalità della percezione e alla fine anche l’ordine del discorso interpretativo, che diventa processo dialettico e interrogazione collettiva in una mescolanza salutare dei ruoli. Chi è lo spettatore e chi il critico? Che senso ha la critica? A chi parla l’artista? Queste sono le domande che emergono dal corpo vitale di Kilowatt e ci portano a mettere in discussione la pratica molle della scrittura “competente”, quella che si trincera dentro una folle categoria del giudizio.
Una recensione secca (due righe per titolo, con i nomi degli esseri umani tranciati di brutto perché nelle due righe non ci stanno) è equivalente alla messa in vetrina delle opere ridotte a merci da offrire a compratori. In questo, serve solo a legittimare l’esistente, il processo automatico della circuitazione sempre più affaticata, degli spettacoli.
La vera merce rara è invece il dialogo, la parola piena da cui cade il cartellino con su scritto il prezzo. In questo senso, Kilowatt si è dimostrata una occasione importante per mettere in scacco certi automatismi e percorrere strade che non siano sbarramenti corporativi.
Per questo non diremo cosa ci è piaciuto e cosa no, ma ci limiteremo a nominare gli artisti e le compagnie che hanno partecipato a Kilowatt, tra produzioni del festival, selezioni dei Visionari e ospitalità: David Batignani (Assolutamente solo), Capotrave (Virus), quotidiana.com (Sembra ma non soffro), Città di Ebla (Metamorfosi, terza mutazione), Macellerie Pasolini (Love Car), Carrozzeria Orfeo (Sul confine), Collettivo Cinetico/Francesca Pennini (Monoscritture retiniche sull’oscenità dei denti), Francesca Foscarini (Kalsh), Dionisi (Serate bastarde), Massimo Zenga (Variazioni), Ariolfo/Varriale (Who man), OHT Office for an Human Theatre (Bios Unlimited), Lucia Franchi (Messaggi in bottiglia), Teodoro Bonci del Bene (Big Action Kilowatt: secondo studio).
Complessivamente, il disegno della scena contemporanea che è emerso dentro le stanze di Kilowatt si affida quasi interamente alle possibilità espressive del corpo, penalizzando fortemente la parola. Una costante che nasce dal limite del medium usato per selezionare gli spettacoli. Se è vero che i visionari hanno dimostrato di sapere trasmutare in un segno caldo la materia fredda del video, è altrettanto indiscutibile che uno spettacolo dal vivo tradisce sempre qualcosa d’altro, un “punctum” che sfugge alla sua documentazione visiva.
Dal punto di vista estetico, i risultati spettacolari ci sono parsi disuguali. Ma l’energia di questa festa non arriva tanto dalle opere, quanto dal movimento delle idee e delle visioni che sono nate in presa diretta. E di cui Renzo Francabandera, critico-disegnatore in mostra a Sansepolcro con la sua scena elettro-grafica, ha registrato i movimenti interiori, restituendo in tempo reale un’espressione malinconica, un volto privo di faccia, un grido sordo. E’ questo forse il simbolo più lampante di Kilowatt, festa che confonde e scambia continuamente i ruoli e gli attori del processo comunicativo: il gesto di una mano che, senza saperlo, ci restituisce la parola.


(Pubblicato su "Gli Altri")

Santarcangelo, ecco le cose che restano

Un’elettricità mite. Un fracasso intimo. Uno scoppio di gioia, che sale da dentro e si stende sulla piazza, come lava morbida. L’edizione numero 40 del Festival di Santarcangelo ha portato un fertile ossimoro. In questo, somiglia fatalmente ad Enrico Casagrande e Daniela Nicolò (Motus), individui di straordinaria delicatezza e riserbo, che assieme al giovane critico Rodolfo Sacchettini hanno creato per la cittadina romagnola una festa senza pareti, un’occasione di domande collettive e piccole grandi epifanie.
Ogni festival porta sempre in sé un senso di euforia, e insieme di lutto. All’energia dei giorni e delle notti continuamente accesi segue un silenzio spettrale, uno sguardo imbambolato, una rabbia quasi. Ed è da lì, dal lavoro della memoria, che bisognerebbe sempre iniziare per raccontare gli eventi. Sì, dalle cose che restano. Dunque, cosa resta di questa edizione firmata Motus? L’anno scorso Chiara Guidi aveva creato una sorta di teatro da camera moltiplicato all’infinito, uno strato sottile di suoni che si riverberavano di angolo in angolo, di volto in volto. Stavolta Enrico Casagrande e Daniela Nicolò hanno chiesto agli artisti di aprire la scatole e di mostrarne il funzionamento. Un po’ come facevano i formalisti russi quando procedevano alla messa a nudo del meccanismo. Quello che apparentemente sembra il tripudio della forma aperta, dell’improvvisazione, in verità nasce da una continua sorveglianza del dispositivo, compreso il dispositivo umano.
Quale segreto porta allora la scena di tanti corpi in piazza che ballano ciascuno per conto proprio ascoltano la musica in cuffia, quando ad un occhio che passa la scena sembra assurda perché non si sente un suono tutt’intorno? (Domini Public di Roger Bernat) E quale movimento interiore trattiene il tempo dell’attesa? Quali sono i pensieri, le paure, i desideri, che attraversano la forma fragile di un piccolo gruppo di spettatori ripresi “un attimo prima dell’evento”, salvo poi scoprire di essere essi stessi l’evento, nel video proiettato una volta che le porte sono state chiuse (Pura Coincidencia dello stesso Roger Bernat)? Chi parla e chi ascolta? E non è l’ascolto l’unico gesto attivo, senza il quale nulla avviene e nulla si trasforma?
Cosa accade quando lo “straordinario” fa irruzione nell’ “ordinario” fino al punto da deviare gesti mandati a memoria, obiettivi semplici come fare la spesa? Che espressione fa un consumatore di un centro commerciale nel momento in cui sulle scale mobili incontra ragazzi che parlano da soli, persi un una simmetrica sinfonia dell’amore continuamente perduto e ritrovato? E lo spettatore che in cuffia ascolta le parole di quella partitura amorosa cosa farà nel momento in cui, abbandonato il ruolo attivo di chi ascolta una storia, si troverà, corpo tra corpi, a sfiorare altri corpi facendo shopping in qualche altro centro commerciale? Guarderà diversamente, ricorderà che dietro ogni volto c’è un segreto terribile, che somiglia al nostro? (Magna Plaza degli olandesi Wunderbaum)
Come si proietta il tempo nello spazio? Ed è possibile scolpire la luce della morte nel chiasso della vita sociale?
Colpisce che una generazione di trentenni si occupi così seriamente della fine del mondo. Lo fanno i Babilonia Teatri che, dopo il folgorante debutto di Made in Italy, avevano preso una piega ripetitiva e un po’ esangue. Questa volta è diverso. This is The End My Only Friend The End è un lavoro che segna un punto preciso di svolta, un terremoto quasi. C’è chi lo ha scambiato per un intervento provocatorio. E invece a noi è sembrato di capire che non c’è altro modo di “dire” la morte” se non quello di esibirla, di farne sentire l’odore. Le due carcasse di maiale putrescente sganciate a terra – in mezzo tra lo spazio di chi guarda e lo spazio di chi urla, corre, si ferisce e piange (un corpo plurale, felicemnte difforme di attori scelti con provini su Youtube), non sono una metafora, ma la carcassa reale di questa nostra barbarica civiltà. Un corpo sociale che marcisce ogni giorno nei gesti tossici di una vita vissuta solo di striscio, scrivendo agli amici immaginari di facebook cose terribili a dirsi, consegnando ad illustri sconosciuti la nostra ultima lettera: la prova che un tempo siamo stati vivi e pieni di sogni, e mai avremmo potuto immaginare che saremmo finiti un giorno a mangiarci l’un l’altro.
C’è la parola fine anche nel Teatro Sotterraneo, che ha consegnato al festival di Santarcangelo un capolavoro di sintesi drammaturgica, Finale del Mondo, un pezzo di intelligenza visionaria che va ad allinearsi ai disegni esplosivi delle ultime loro opere sull’apocalisse.
Senza fingere di ignorare che il loro spettacolo sarebbe stato in simultanea con la finale dei campionati del mondo, i giovani artisti toscani hanno usato il campo di calcio di Santarcangelo per simulare una diretta da Johannesburg. Mentre nello spazio scenico due calciatori si facevano stancamente goal correndo senza convinzione da una metà all’altro del campo fantasticamente illuminato, mentre un unico fan compiva, a distanza, il rito antico dell’accensione di piccoli fuochi, mentre noi spettatori assistevamo eccitati e liberati alla nullificazione “in diretta” della messa calcistica, due commentatori radiofonici immaginavano di seguire, da Johannesbug, le mossa di un attentatore venuto a seminare il terrore nello stadio, per la finale del mondo. Alla fine del radiodramma, che ha coinciso esattamente con la finale della coppa del mondo (ed è stato trasmesso in diretta da Radio Tre), l’attentatore ha fatto irruzione nel campo di Santarcangelo, ha deposto la sua valigetta, e invece di far esplodere una bomba ha canto per tutti noi The Show Must Go On dei Queen.
Esibendo il cadavere della grande macchina dello spettacolo, Teatro Sotterraneo è contemporaneamente riuscito a creare un momento di rinascita rituale, usando i soli strumenti del teatro. Un esperimento straordinario, carico di densità drammatica, di intelligenza fulminante. Un “mistero eleusino” dei nostri giorni.
Queste sono alcune delle tracce che restano da Santarcangelo firmato Motus. Un filo robusto, diseguale ma vitale, che passerà poi nelle mani di Ermanna Montanari, la quale inventerà per la prossima estate un’altra opera ancora con cui piantare semi nel corpo di quel teatro necessario che è ventre e testa.

(Pubblicato su "Gli Altri")

Il viaggio in Grecia dei Motus: a Tebe per sapere la verità su un ragazzo ucciso dalla polizia

Dimentichiamo che si chiama teatro. Facciamo finta che si chiami vita. Una vita “con forma”. Un vita “activa” che (così come la intendeva Hannah Arendt) abbia intimamente a che fare con la condizione - e non con la natura - umana, cioè con il destino dei tanti e non dei singoli. Una vita di movimento, un movimento sentimentale e politico. In una parola, Motus. In quattro parole, Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande. La loro compagnia compie nel 2011 venti anni, ed è appena uscito un libro che raccoglie discorsi, riflessioni, appunti, sedimenti terrestri (Motus, 991-011, Nda Press) . Un po’ per costrizione (tuttora non hanno una sede in cui lavorare), un po’ per scelta. la marginalità li ha sempre messi in cammino: fisicamente e intellettualmente. Da Stato d’assedio (ispirato a Camus) del 1991, fino agli ultimi “contest” su Antigone, passando per lo sguardo di Orfeo e la musica di Nick Cave, interrogando le parole di Pasolini e gli adolescenti che si lasciano morire nei centri commerciali, gli artisti riminesi hanno creato, non prima di averle abitate, delle stanze (Rooms è il titolo di un loro storico spettacolo) molto speciali. Posti da cui vedere realtà impercettibili e riflettere sulla condition humaine. Per far questo, hanno sempre voluto muoversi. Come si fa a stare fermi, seduti, soddisfatti? Motus è flusso perenne, transito, erranza. C’è un’immagine che lo racconta bene: i due direttori artistici a Santarcangelo in bicicletta, a correre da una parte all’altra, per incontrare tutti e raccogliere da tutti domande e visioni. Sono queste le cose che mettono in valigia.
Dopo aver accostato la bici, si fermano sotto un albero e ce le mostrano, queste cose immateriali, una per una: utopia, azione, spettatore, bisogni, desiderio, rabbia, rivolta...E’ il kit immaginifico con cui partiranno, stavolta, in direzione della Grecia.

Perché la Grecia?

E.C. Staremo lì un mese, per fare delle ricerche su Alexis Grigoropoulos, il ragazzo ucciso due anni fa dalla polizia greca Per ora sappiamo solo il titolo dell’opera, Alexis una tragedia greca, che debutterà in autunno a Modena all’interno delle Vie dei festival. La intendiamo come una tragedia contemporanea dove la Grecia verrà usata come specchio di tante nostre realtà e come forma di resistenza culturale.

Avete già dei contatti?

D.N. Abbiamo dei contatti con dei gruppi anarchici greci. Incontreremo anche la madre di Alexis. L’intento è quello di usare fonti ufficiali assieme a racconti meno ufficiali. Oltre che ad Atene, andremo anche a Tebe.

Che impressione vi fa ripercorrere i passi di Edipo? Per noi occidentali imbevuti di cultura classica andare a Tebe non è un gesto qualunque.

E.C. Credo che sia un posto totalmente diverso da come ce lo siamo sempre immaginato.

Probabilmente vi farà lo stesso effetto “smitizzante” che fece la Palestina a Pasolini, che non trovò in Galilea nessuna traccia del sacro.

E.C. Sarà bello farsi sorprendere.

Cosa vi lascia il festival di Santarcangelo che avete appena diretto e concluso?

E.C. Abbiamo scoperto che ci hanno lavorato 790 persone, tra artisti e staff. In un certo senso, ha significato fare uno spettacolo con 790 attori, con un’intensità e una valenza umana assolutamente inediti. Era chiaro fin dall’inizio che per noi fare un festival non avrebbe significato fare una vetrina. Le vetrine le devo allestire gli stabili. Specialmente con gli artisti italiani, abbiamo sperimentano la bellezza del fare operazioni “fuori formato”, accostandoci a dimensioni che è difficile avvicinare in situazioni più convenzionali. Ci sono state delle vere e proprie “epifanie” come la partita di pallone di Teatro Sotterraneo.

Pensate che questo modello di amministrazione e partecipazione possa essere usato in larga scala, in un senso politico?

E.C. Magari lo fosse!

D’altro canto, in tempi di miseria materiale e culturale, non ci resta che pensare in grande.

D.N. La condizione minoritaria rappresenta sempre un punto di forza. Questo non significa che bisogna restare nella propria nichhia, al contrario questa nostra condizione ci obbliga al confronto, che è sempre possibile.

E.C. Noi non abbiamo grandi rapporti con la politica, perché tutte le volte che abbiamo avuto a che fare con i politici abbiamo registrato una paura nei confronti del cittadino, come se il cittadino rappresentasse una minaccia. Da questo punto di vista, gli artisti possono fare molto per cambiare le cose. Per esempio il progetto dei murales a Santarcangelo ha sfondato molti limiti e pregiudizi.


Anche riaprire un camping dopo tanti anni è un atto politico.

D.N. Assolutamente sì. Gli amministratori temevano che ci sarebbe stata la polizia tutte le sere a vigilare situazioni fuori controllo. E invece non è successo niente dentro il camping. E’ chiaro che chi fa teatro, arte, si deve porre anche il problema del come parlare e del dove parlare.

E.C. In Italia, si fanno tanti sprechi. Penso alla Notte Rosa a Rimini, oppure al concerto del 1° Maggio a Roma. In un momento storico così critico per i cittadini e i lavoratori, fare un concerto di quel tipo con il palco gigantesco, l’illuminazione da set televisivo e un esercito di ospiti, non serve a nessuno. Quanti lavoratori si sarebbero potuto sfamare con quei soldi? In realtà, basterebbe un piccolo palcoscenico con una sola lampadina. Così fai qualcosa per i lavoratori....C’è da dire che anche la classe politica di sinistra insegue quel modello, peggiorandolo. Meglio l’originale: almeno è l’orrore totale.

Il tipo di “partecipazione” spettatoriale che ci e stata richiesta a Santarcangelo ha codificato un modello alternativo rispetto al reality show. E’ proprio un modo diverso di pensare e di esserci.

D.N. Molti spettacoli contengono i meccanismi della fiction, ma declinati in maniera sottile, ironica. E lì c’è tutta la differenza. Quello che è emerso è un terzo modello rispetto al modello standard (spettacolo televisivo) o al teatro di strada. E’ importante per chi assiste essere chiamati ad intervenire, poter sentire la propria voce. Tutto questo ha a che fare con un movimento più generale di partecipazione e di protesta che chiama in causa direttamente il popolo e che trova per esempio una forma di espressione e di condivisione nei blog.

Cosa significa essere in due, nella vita e nel teatro?

E.C. Credo che la nostra coppia funzioni perché non c’è competizione tra di noi. Ci siamo incontrati negli anni dell’Università, a Bologna, all’interno di un collettivo composto da venti registi. Lì ci siamo innamorati e riconosciuti. Dopo poco abbiamo fondato Motus, che all’inizio si chiamava Opera d’Ingegno.

Non litigate mai?

D.N. Molto poco. Naturalmente, ci sono delle discussioni, ma non veri e propri conflitti, Io tendo ad essere più ottimista, Enrico esercita la parte critica. Io mi occupo di più della scrittura di testi se c’è da scriverli, la regia è sempre di entrambi.

Avevate annunciato un film sul progetto “Ics, Racconti crudeli della giovinezza”...

D. N. Non so se il cinema lo faremo mai. Siamo troppo in trasformazione per poter fare un film, Diciamo che facciamo il cinema dentro il teatro.

Rispetto a vent’anni fa, tutto ciò che è “immagine” ha una maggiore ambiguità. Come si è andato configurando nel tempo il vostro rapporto con il mondo delle immagini?

L’ultimo contest su Antigone non ha neanche un faro, solo un attore e un’attrice. Questo perché abbiamo sentito una saturazione non dell’uso del video in sé, ma della sovrastruttura testuale che diventava più importante rispetto al lavoro diretto con gli attori.

Quindi anche Motus, come altri gruppi in Europa, recupera l’elemento della vulnerabilità umana.

Se la macchina è preponderante, si ha una disumanizzazione. Togliendo la macchina, abbiamo paradossalmente rafforzato la velocità del pensiero. Si mette direttamente in campo tutto quello che l’attore sta pensando.

D.N. Tutt’e tre i “Contest” sull’Antigone sono fortemente politici. Ci sono richiami alla situazione attuale, molti riferimenti alla Grecia.

Gli autori senza i quali non sareste quelli che siete oggi....

D.N. Ballard e Beckett. E Pasolini. A Santarcangelo abbiamo invitato Giorgio Vasta. Consideriamo Il tempo materiale un libro importantissimo, per la poeticità e l’estrema crudezza.

Avete interrogato a lungo l’età acerba. Pensate di occuparvi anche di un’altra età della vita, la vecchiaia per esempio?

E.C. Non ancora, però sarebbe interessante. Finora ci siamo rivolti ai più ùgiovani. Da quarantacinquenni riusciamo ad avere un rapporto orizzontale con i sedicenni, anche perché non ci trattano da padri.

E voi, li trattate da figli?

D.N. Il rapporto che abbiamo con questi giovani credo che somigli al rapporto che puoi avere con un figlio (noi non ne abbiamo). In realtà, però penso che loro ci amino perché noi non abbiamo nessuna voglia di istruire, di ammaestrare, di dire cosa si deve fare e cosa no.

(Pubblicato su "Gli Altri")

venerdì 6 agosto 2010

Riccardo Pacifici, un viaggio intorno all'ebraismo

Per parlare con RiccardoPacifici, si entra in Sinagoga, da una porta più piccola. Siamo nel cuore della Roma ebraica, luogo che i romani non ebrei guardano a volte con timore, come fosse un monolite sganciato dal passato. Ad un uomo che appare dalla penombra esibisco il passaporto, con tanto di timbro israeliano che lui registra con un sorriso enigmatico: “Sì, sono stata in Israele..più volte”. Tutti parlano a voce bassa, qui. Anche le scale sono piccole e strette. Come in un libro di Kafka, penso. Non il Castello, non il Processo, no. Come nei Diari. Le cose piccole e strette, di luminescenza chiaroscurale. Al piano di sopra, lo spazio si stende. La stanza in cui lavora Pacifici, 46 anni, presidente della Comunità Ebraica di Roma dal 2008, non è diversa da qualsiasi altra stanza di un moderno ufficio di una grande metropoli. Sopra la scrivania, c’è una foto di Giorgio Napolitano. Tiro un respiro di sollievo. Ci immaginavamo una parete piena della interminabile serie Pacifici-Alemanno, Alemanno-Pacifici....

Perché tutte queste foto con Alemanno? Sembra che i giornali romani che non ne abbiano altre da pubblicare...

Il paradosso è che io avevo votato Rutelli, cosa che Alemanno sa. E’ che nel tempo abbiamo costruito un ottimo rapporto. Ho parlato a lungo con Alemanno, e ha ammesso di essere cresciuto per tanto tempo con un’idea sbagliata in merito alla questione ebraica. Quando è andato ad Auschwitz, mi ha chiesto in lettura dei libri sulla questione ebraica e la persecuzione italiana durante la Shoah. Ha riconosciuto apertamente la responsabilità del fascismo nella persecuzione degli ebrei. Sono fatti importanti. Ho potuto apprezzare diverse volte in Alemanno una grande capacità di ascolto.

Quindi lei non è un uomo di destra, come si dice...

Lo chieda a Boccacci e ai suoi amici di Militia che mi vorrebbero fare la pelle. E’ paradossale ma trovo il mio nome anche come “nemico” sia nei centri sociali più radicali di sinistra che nei siti dell’estremismo islamico. E la cosa mi ha sorridere.

Come si è andata costruendo l’amicizia tra lei e il Sindaco di Roma?

Inizialmente, in campagna elettorale ho avuto un ruolo nell’impedire l’apparentamento con Storace. Se Alemanno (come poi è stato) voleva liberarsi dalla sua passata militanza e intraprendere la strada che stava indicando Fini, non poteva allearsi con una forza politica guidata in quel momento da Storace e dalla Santanché, che avevano dato risposte ambigue sull’antifascismo. Vede, io credo che il ruolo di noi ebrei sia quello di trasmettere dei valori, una certa idea dello Stato e dell’impegno sociale. E devo dire che il sindaco Alemanno ha creato con la nostra Comunità un rapporto reale, non retorico.

Quanto è cambiata la sua vita da quando è sotto scorta?
La scorta ce l’avevo anche prima di assumere l’incarico attuale, ma è stata confermata dopo le minacce da parte dell’estrema destra. Non è facile portare i bambini a scuola con la scorta e dover spiegare continuamente perché si debba vivere in questo modo. Per alcuni loro compagni, la scorta è uno status symbol, ma non per i miei bambini che vorrebbero vivere più liberi. Il problema è anche per gli uomini della scorta. Anche loro hanno mogli e figli. Anche loro sono padri di famiglia. Ed io cerco di averne rispetto.

Pacifici è un nome importante nella storia delle grandi famiglie ebree...

Mio nonno era rabbino capo a Genova ed è morto ad Auschwitz. Anche mia nonna, in seguito ad una delazione di italiani (si era rifugiata nel convento delle Suore del Carmine a Firenze e fu catturata da giovani militi fascisti) fu deportata nello stesso campo. Non sappiamo se si siano incontrati. Di sicuro sono stati uccisi tutt’e due ad Auschwitz. Una storia come questa mi chiama ad una responsabilità costante nei confronti della Memoria. E di certo rende impossibile che io possa mai fare sconti ai fascisti, anche quelli di oggi. In Italia, il fascismo non è stato, come molti sostengono, una dittatura all’acqua di rose che ha emulato malamente il nazismo, ma una dittatura terribile. I fascisti collaborarono attivamente alla deportazione degli ebrei e degli oppositori politici...I miei nonni lasciavano orfani due bambini, uno di dodici anni, l’altro di cinque. E qui comincia la storia di mio padre.

Che ebbe una deviazione tragica nel giorno dell’attentato alla Sinagoga...

Si, nell’attentato del 1982 a Roma è stato colpito da una bomba che gli è esplosa dentro lo stomaco. Mio padre tuttora vive senza massa muscolare nell’addome. Ha la gola totalmente squarciata. E’ pieno di schegge nel corpo. Ha subìto traumi anche agli occhi.

Che ricordi ha di quel momento?

Mio padre che sta tra la vita e la morte...non sono cose che si possono dimenticare...Allora facevo la quinta liceo. E ho dovuto mettermi a lavorare. La mattina studiavo, di pomeriggio lavoravo sostituendo come agente di commercio (nel settore dell’abbigliamento), cosa che continuo a fare.

I sui figli studiano alla scuola ebraica?

Certamente.

Scusi, perché certamente? Non possono andare alla scuola pubblica?

E’ stata una scelta mia e di mia moglie:, quella di dare ai nostri figli un’educazione ebraica. Inoltre, le scuole ebraiche sono equiparate alle scuole pubbliche e sono diverse dalle scuole confessionali.

Anche lei ha studiato alla scuola ebraica?

Ho studiato alla scuola ebraica fino alla terza media e poi ho frequentato la scuola pubblica.

Ricordo un episodio che accadde in quegli anni al Virgilio, il liceo che frequentavo io: buttarono una ragazza ebrea giù dalle scale. Scoppiò un finimondo.

Si, Paola Caviglia, che in quel periodo si misurava con la versione teatrale del “Diario di Anna Frank”...Me lo ricordo bene quel fatto. Allora frequentavo il Galileo Ferraris, e venni al Virgilio come rappresentante degli studenti ebrei. Io non ero un ragazzo di sinistra, ma i miei compagni di sinistra, “i capelloni”, in quegli anni mi proteggevano e mi scortavano fino a casa. Poi le cose sono cambiate. Io volevo abbandonare la scuola e l’ultimo anno di liceo l’ho fatto al Rosolino Pilo, a Monteverde: lì l’ambiente era di destra e i “compagni” di sinistra mi erano contro a causa dell’operazione “Pace in Galilea” dell’’82 e della strage di Chabra e Chatila.

Lei è stato per tanti anni anche il portavoce della Comunità Ebraica Romana, ruolo che si è inventato di sana pianta...

Sì, da 17 anni sono consigliere della Comunità e sono stato anche vicepresidente. Quello che è sempre mancato è proprio il ruolo di un portavoce, cioè di qualcuno che non tenesse i rapporti non solo con i media, ma anche con la società civile e con il Paese.

Lei è sionista, immagino.

Certo. Uno dei più grandi errori della sinistra è di pensare che il sionismo nasca nel 1948 quale “compensazione” dell’Occidente, o meglio dell’Europa, a favore del popolo ebraico e a danno del popolo palestinese. L’idea del sionismo, di cui anche mio nonno fu artefice, nasce ai primi del Novecento e fa parte della tradizione del culto ebraico, laddove ognuno prega tre volte al giorno rivolgendosi verso Sion, che è la collina dove è sorta Gerusalemme..

Però ci sono stati nella storia degli intellettuali alcuni ebrei come Hannah Arendt che, dopo averlo a lungo frequentato, dissero no al sionismo.

Anche Hannah Arendt ha recitato “L’anno prossimo a Gerusalemme”, la formula con cui si chiude la festa pasquale...Questo per dire che il sionismo è molto legato alla nostre tradizioni. Per noi i gesti tradizionali sono molto importanti. Anche l’ebreo più laico del mondo, quello che mangia il prosciutto, due cose le fa sempre: il digiuno del Kippur e la Cena Pasquale E voglio ricordare una cosa: il sionismo politico, paradossalmente, nasce tra gli ebrei non osservanti, tra gli ebrei socialisti...

Va spesso in Israele?

Si, anche perché ha una sorella che vive ad Afula, nel Nord. Ha sposato un ebreo marocchino.

Mi è capitato di andare spesso a Gerusalemme e non mi è sembrato un luogo di contemplazione spirituale: è una città militarizzata, con leggi molto terrene e trame vistosamente politiche. Lei come la vive?

Fuori dalla mura di Gerusalemme c’è di tutto. Mentre dentro Gerusalemme io provo ancora un incanto per la sua musicalità. Quando ci sono stato l’ultima volta con Renata Poverini e abbiamo visitato il museo di Yed Vashem, per rifare il percorso dei Giusti, anche lei era rimasta colpita dai suoni della città. Ti capita di stare dentro il Muro Occidentale (che non si chiama Muro del Pianto, come molti sbagliando dicono) e venire travolti dal canto dei muezzin.... E’ questa la cosa magnifica di Gerusalemme.

Ecco, Renata Polverini: avete mai parlato della foto con il braccio teso, scattata la sera della sua elezione a presidente della Regione Lazio? Lei ha sempre smentito che alludesse al saluto fascista, ma quell’immagine continua a girare per la rete in modo subliminale.

Certo che ne abbiamo parlato. Lei ha categoricamente smentito, anche perché mi ha raccontato che sua madre quando era bambina l’ha portata in visita in cinque diversi campi di concentramento, perché sapesse cosa era accaduto agli ebrei. E’ stata educata in questo modo.


Parliamo dell’altra metà di Israele. Ammetterà che esiste una “questione palestinese”....

Certo. Ma la cosa si può analizzare in due modi. Seguendo una traccia storica che è molto complessa rispetto a come la propaganda pro-Palestina vorrebbe farci credere. Oppure ragionando in termini di realpolitik.

Mi fermerei alla realpolitik.

Il problema più grande è quello dei campi profughi, ed in questo senso esiste anche una nostra responsabilità: dobbiamo contribuire a portare una soluzione. Non c’è nessun leader oggi sia del mondo ebraico della diaspora, sia israeliano – tranne qualche eccezione – che non parli della legittimità di uno Stato Palestinese accanto allo Stato d’Israele. Il problema è che c’è bisogno di due Stati, due Popoli, e anche di due Democrazie. Se Hamas dovesse arrivare a governare lo Stato Palestinese, si avrebbe un regime teocratico in cui le libertà e i diritti sarebbero negati, così come già sta avvenendo a Gaza.

Quale è la sua opinione sugli insediamenti?

Se dobbiamo ragionare per la pace, allora per la pace i settlers dovrebbero tutti tornare a casa, così com’è stato fatto con l’evacuazione di Gaza con Sharon. Però mi faccio una domanda: perché un cittadino di origine palestinese può vivere tranquillamente, per esempio, a Giaffa, godendo di pari diritto, mentre ad un cittadino israeliano verrebbe vietato di vivere in un futuro Stato Palestinese? Se io oggi andassi a Ramallah, non riuscirei a passare la notte. Forse sono le mie paure, le mie angosce, però dobbiamo farci anche queste domande. Io sono piuttosto aperto al dialogo, ma come è possibile che ancora oggi la tv di Abu Mazen continui a trasmettere programmi sui bambini che diventano martiri? Nonostante ciò, continuo a ripetere che, per ragioni di realpolitik, si debba arrivare alla creazione di uno Stato Palestinese.

Che rapporto ha con Bertinotti?

Mi ricordo di aver partecipato qualche anno fa ad una trasmissione televisiva alla quale eravamo stati invitati entrambi. Mostrarono un filmato che era stato mandato ad uno dei congressi di Rifondazione in cui di fatto venivano equiparati i campi palestinesi ai capi di sterminio nazista. Mi colpì la posizione di Bertinotti. Di fronte ala nostre proteste, ammise che non aveva visto prima il filmato. Introdusse un elemento di dubbio. Io gli dissi che il Partito avrebbe avuto la necessità di immaginare una sua Fiuggi, come aveva fatto Fini, e lui accettò la proposta, a patto che ritirassi il paragone con Fiuggi. Non tutta Rifondazione Comunista ha metabolizzato la linea bertinottiana, che però è diventata una parte della tesi, e quindi imprescindibile.

Non so se lei può spiegarmi questo strano fenomeno, ma è da anni che mi chiedo: perché così tanta gente arriva ad inventarsi un nonno o un lontano parente ebreo? Perché le conversioni (che non sono molte ma ci sono) dal cattolicesimo all’ebraismo? Senso di colpa? Reale convinzione? Desiderio di appartenere ad una comunità forte con le sue regole e i suoi poteri?

La ringrazio molto di avermi fatto questa domanda. In Europa e in Italia (che è un paese molto cattolico) si è diffusa la convinzione che gli ebrei siano delle povere vittime e che a noi alla fine tutto sia permesso. L’ebreo può vivere con un senso di “immunità” maggiore. Si ritiene che dichiarando di essere ebreo entri più facilmente nei salotti che contano.

E non è vero forse?

Si, è vero. Ed è anche vero che è questo è un fatto molto grave. Soprattutto può ribaltarsi in un boomerang micidiale per noi. L’ingresso nell’ebraismo deve essere frutto di una forte convinzione. Certo non deve servire per emergere ai danni degli altri.

Nell’immaginario collettivo, però la Comunità Ebraica è una comunità chiusa, in un certo modo impenetrabile.

Il compito che mi sono prefisso assieme a tutto l’esecutivo della nostra Comunità, consiste proprio in questo: la Comunità deve servire a costruire l’identità facendo capire ai nostri ragazzi che senza il dialogo e senza il confronto non si costruisce nulla.

(Pubblicato su "Gli Altri")