venerdì 20 agosto 2010

Santarcangelo, ecco le cose che restano

Un’elettricità mite. Un fracasso intimo. Uno scoppio di gioia, che sale da dentro e si stende sulla piazza, come lava morbida. L’edizione numero 40 del Festival di Santarcangelo ha portato un fertile ossimoro. In questo, somiglia fatalmente ad Enrico Casagrande e Daniela Nicolò (Motus), individui di straordinaria delicatezza e riserbo, che assieme al giovane critico Rodolfo Sacchettini hanno creato per la cittadina romagnola una festa senza pareti, un’occasione di domande collettive e piccole grandi epifanie.
Ogni festival porta sempre in sé un senso di euforia, e insieme di lutto. All’energia dei giorni e delle notti continuamente accesi segue un silenzio spettrale, uno sguardo imbambolato, una rabbia quasi. Ed è da lì, dal lavoro della memoria, che bisognerebbe sempre iniziare per raccontare gli eventi. Sì, dalle cose che restano. Dunque, cosa resta di questa edizione firmata Motus? L’anno scorso Chiara Guidi aveva creato una sorta di teatro da camera moltiplicato all’infinito, uno strato sottile di suoni che si riverberavano di angolo in angolo, di volto in volto. Stavolta Enrico Casagrande e Daniela Nicolò hanno chiesto agli artisti di aprire la scatole e di mostrarne il funzionamento. Un po’ come facevano i formalisti russi quando procedevano alla messa a nudo del meccanismo. Quello che apparentemente sembra il tripudio della forma aperta, dell’improvvisazione, in verità nasce da una continua sorveglianza del dispositivo, compreso il dispositivo umano.
Quale segreto porta allora la scena di tanti corpi in piazza che ballano ciascuno per conto proprio ascoltano la musica in cuffia, quando ad un occhio che passa la scena sembra assurda perché non si sente un suono tutt’intorno? (Domini Public di Roger Bernat) E quale movimento interiore trattiene il tempo dell’attesa? Quali sono i pensieri, le paure, i desideri, che attraversano la forma fragile di un piccolo gruppo di spettatori ripresi “un attimo prima dell’evento”, salvo poi scoprire di essere essi stessi l’evento, nel video proiettato una volta che le porte sono state chiuse (Pura Coincidencia dello stesso Roger Bernat)? Chi parla e chi ascolta? E non è l’ascolto l’unico gesto attivo, senza il quale nulla avviene e nulla si trasforma?
Cosa accade quando lo “straordinario” fa irruzione nell’ “ordinario” fino al punto da deviare gesti mandati a memoria, obiettivi semplici come fare la spesa? Che espressione fa un consumatore di un centro commerciale nel momento in cui sulle scale mobili incontra ragazzi che parlano da soli, persi un una simmetrica sinfonia dell’amore continuamente perduto e ritrovato? E lo spettatore che in cuffia ascolta le parole di quella partitura amorosa cosa farà nel momento in cui, abbandonato il ruolo attivo di chi ascolta una storia, si troverà, corpo tra corpi, a sfiorare altri corpi facendo shopping in qualche altro centro commerciale? Guarderà diversamente, ricorderà che dietro ogni volto c’è un segreto terribile, che somiglia al nostro? (Magna Plaza degli olandesi Wunderbaum)
Come si proietta il tempo nello spazio? Ed è possibile scolpire la luce della morte nel chiasso della vita sociale?
Colpisce che una generazione di trentenni si occupi così seriamente della fine del mondo. Lo fanno i Babilonia Teatri che, dopo il folgorante debutto di Made in Italy, avevano preso una piega ripetitiva e un po’ esangue. Questa volta è diverso. This is The End My Only Friend The End è un lavoro che segna un punto preciso di svolta, un terremoto quasi. C’è chi lo ha scambiato per un intervento provocatorio. E invece a noi è sembrato di capire che non c’è altro modo di “dire” la morte” se non quello di esibirla, di farne sentire l’odore. Le due carcasse di maiale putrescente sganciate a terra – in mezzo tra lo spazio di chi guarda e lo spazio di chi urla, corre, si ferisce e piange (un corpo plurale, felicemnte difforme di attori scelti con provini su Youtube), non sono una metafora, ma la carcassa reale di questa nostra barbarica civiltà. Un corpo sociale che marcisce ogni giorno nei gesti tossici di una vita vissuta solo di striscio, scrivendo agli amici immaginari di facebook cose terribili a dirsi, consegnando ad illustri sconosciuti la nostra ultima lettera: la prova che un tempo siamo stati vivi e pieni di sogni, e mai avremmo potuto immaginare che saremmo finiti un giorno a mangiarci l’un l’altro.
C’è la parola fine anche nel Teatro Sotterraneo, che ha consegnato al festival di Santarcangelo un capolavoro di sintesi drammaturgica, Finale del Mondo, un pezzo di intelligenza visionaria che va ad allinearsi ai disegni esplosivi delle ultime loro opere sull’apocalisse.
Senza fingere di ignorare che il loro spettacolo sarebbe stato in simultanea con la finale dei campionati del mondo, i giovani artisti toscani hanno usato il campo di calcio di Santarcangelo per simulare una diretta da Johannesburg. Mentre nello spazio scenico due calciatori si facevano stancamente goal correndo senza convinzione da una metà all’altro del campo fantasticamente illuminato, mentre un unico fan compiva, a distanza, il rito antico dell’accensione di piccoli fuochi, mentre noi spettatori assistevamo eccitati e liberati alla nullificazione “in diretta” della messa calcistica, due commentatori radiofonici immaginavano di seguire, da Johannesbug, le mossa di un attentatore venuto a seminare il terrore nello stadio, per la finale del mondo. Alla fine del radiodramma, che ha coinciso esattamente con la finale della coppa del mondo (ed è stato trasmesso in diretta da Radio Tre), l’attentatore ha fatto irruzione nel campo di Santarcangelo, ha deposto la sua valigetta, e invece di far esplodere una bomba ha canto per tutti noi The Show Must Go On dei Queen.
Esibendo il cadavere della grande macchina dello spettacolo, Teatro Sotterraneo è contemporaneamente riuscito a creare un momento di rinascita rituale, usando i soli strumenti del teatro. Un esperimento straordinario, carico di densità drammatica, di intelligenza fulminante. Un “mistero eleusino” dei nostri giorni.
Queste sono alcune delle tracce che restano da Santarcangelo firmato Motus. Un filo robusto, diseguale ma vitale, che passerà poi nelle mani di Ermanna Montanari, la quale inventerà per la prossima estate un’altra opera ancora con cui piantare semi nel corpo di quel teatro necessario che è ventre e testa.

(Pubblicato su "Gli Altri")

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