venerdì 20 agosto 2010
Kilowatt, più festa che festival
Già nel titolo, fa promessa di elettricità: “Kilowatt” come energia della scena. Nella babele dei festival estivi, è una continua corsa alla visibilità. E Kilowatt non corre meno degli altri. Corre però a modo suo, in una forma circolare e sorprendente. Non si affanna, per esempio, a portare in scena dei debutti assoluti. Qui non siamo al supermarket delle primizie che poi, se vai a scartare non sono mai troppo fresche. Che altro? Se ne frega dei generi, e in fondo, anche delle mode. Infine, fa un salto che sulla carta può suonare artificiale e anche occludente: chiede a quindici critici di tutta Italia (chiamati “fiancheggiatori”) di discutere assieme alle compagnie e agli spettatori - che quegli spettacoli hanno scelto - di poetiche. Senza altro scopo che quello della discussione. Altro fatto da registrare attentamente. Insomma, chi è stato a Sansepolcro (Arezzo) nei giorni scorsi non ha consumato prodotti appena confezionati e sigillati in asettiche buste di plastica. Al contrario, ha fatto esperienza dello spreco creativo, di quella indispensabile “perdita” di cui scriveva Bataille (La part maudit), quando individuava nella “festa” un orizzonte di senso non solo estetico ma politico, una capacità di aggregare e rigenerare le “energie” accumulate e avvilite dalla società capitalistica.
Non un “festival”, ma una “festa” dunque, Kilowatt 10. Una festa per i preparativi, e per l’andamento. I preparativi: la kermesse estiva di Sansepolcro deve tutto al lavoro dei “visionari”, una ventina di spettatori accorti che hanno guardato 250 video di teatro per arrivare a selezionare nove spettacoli. L’idea è nata a Luca Ricci, direttore artistico della manifestazione, e rivela la necessità di cambiare le regole del gioco, le modalità della percezione e alla fine anche l’ordine del discorso interpretativo, che diventa processo dialettico e interrogazione collettiva in una mescolanza salutare dei ruoli. Chi è lo spettatore e chi il critico? Che senso ha la critica? A chi parla l’artista? Queste sono le domande che emergono dal corpo vitale di Kilowatt e ci portano a mettere in discussione la pratica molle della scrittura “competente”, quella che si trincera dentro una folle categoria del giudizio.
Una recensione secca (due righe per titolo, con i nomi degli esseri umani tranciati di brutto perché nelle due righe non ci stanno) è equivalente alla messa in vetrina delle opere ridotte a merci da offrire a compratori. In questo, serve solo a legittimare l’esistente, il processo automatico della circuitazione sempre più affaticata, degli spettacoli.
La vera merce rara è invece il dialogo, la parola piena da cui cade il cartellino con su scritto il prezzo. In questo senso, Kilowatt si è dimostrata una occasione importante per mettere in scacco certi automatismi e percorrere strade che non siano sbarramenti corporativi.
Per questo non diremo cosa ci è piaciuto e cosa no, ma ci limiteremo a nominare gli artisti e le compagnie che hanno partecipato a Kilowatt, tra produzioni del festival, selezioni dei Visionari e ospitalità: David Batignani (Assolutamente solo), Capotrave (Virus), quotidiana.com (Sembra ma non soffro), Città di Ebla (Metamorfosi, terza mutazione), Macellerie Pasolini (Love Car), Carrozzeria Orfeo (Sul confine), Collettivo Cinetico/Francesca Pennini (Monoscritture retiniche sull’oscenità dei denti), Francesca Foscarini (Kalsh), Dionisi (Serate bastarde), Massimo Zenga (Variazioni), Ariolfo/Varriale (Who man), OHT Office for an Human Theatre (Bios Unlimited), Lucia Franchi (Messaggi in bottiglia), Teodoro Bonci del Bene (Big Action Kilowatt: secondo studio).
Complessivamente, il disegno della scena contemporanea che è emerso dentro le stanze di Kilowatt si affida quasi interamente alle possibilità espressive del corpo, penalizzando fortemente la parola. Una costante che nasce dal limite del medium usato per selezionare gli spettacoli. Se è vero che i visionari hanno dimostrato di sapere trasmutare in un segno caldo la materia fredda del video, è altrettanto indiscutibile che uno spettacolo dal vivo tradisce sempre qualcosa d’altro, un “punctum” che sfugge alla sua documentazione visiva.
Dal punto di vista estetico, i risultati spettacolari ci sono parsi disuguali. Ma l’energia di questa festa non arriva tanto dalle opere, quanto dal movimento delle idee e delle visioni che sono nate in presa diretta. E di cui Renzo Francabandera, critico-disegnatore in mostra a Sansepolcro con la sua scena elettro-grafica, ha registrato i movimenti interiori, restituendo in tempo reale un’espressione malinconica, un volto privo di faccia, un grido sordo. E’ questo forse il simbolo più lampante di Kilowatt, festa che confonde e scambia continuamente i ruoli e gli attori del processo comunicativo: il gesto di una mano che, senza saperlo, ci restituisce la parola.
(Pubblicato su "Gli Altri")
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