venerdì 20 agosto 2010
Hamlice: il potere accecante del bianco
"In principio era il bianco. Fu Dio a crearlo, primo fra tutti i colori, e questo restò un segreto finché Sir Isaac Newton si mise a sedere in una camera oscura alla fine del diciassettesimo secolo:la bianchezza e le tonalità grigie tra il bianco e il nero sono forse composte di tutti i colori, come la bianchezza della luce del sole è composta di tutti i colori primari.... Da un buchetto tondo in una persiana chiusa il sole splende in una camera buia, la sua luce essendo ritratta da un Prisma che proietta il suo Spettro colorato sul muro opposto: io tenevo in mano un foglio bianco rivolto a questa immagine in modo che da laggiù vi si riflettesse la luce colorata…". Derek Jarman dice cosa è il bianco in “Chroma”, il suo trattato autobiografico sui colori. Il bianco, il primo colore creato dal nulla, il bianco che riflette tutti gli altri e rimane un mistero. Ci ritorna in mente, la storia raccontata da Jarman, un pomeriggio di luce assoluta, dentro il carcere di Volterra. Nel tempo altrettanto assoluto dell’attesa. Il passaporto viene ritirato all’ingresso, come tutto il resto, soldi telefono borsa, tracce di una identità univoca. Ora in esigui gruppi siamo stati gettati nel cortile, al di qua del cancello, più fuori che dentro. Si parla in maniera sommessa. Si guarda, soprattutto. Si ascoltano i fruscii, le presenze. Si sta in attesa. E’ un tempo spesso: è il tempo della preparazione al rituale. Teoricamente, dopo potrebbe accadere qualsiasi cosa: una passeggiata agli inferi, una scena di condanna a morte, un volo d’angelo. L’atmosfera è carica di una elettricità pulviscolare, attonita, che si riflette nei volti. Quando i guardiani aprono i cancelli, ci disponiamo silenziosi in fila. Saliamo, uno dopo l’altro, senza far rumore, uomini liberi che possono soltanto simulare di essere stati condannati. Eccoci dentro, a camminare con un leggero spavento per un corridoio lungo e stretto, a spiare dagli spioncini e da piccole fratture nei muri stanze disadorne, carte e tavoli che sembrano stati abbandonati secoli fa e invece sono ancora abitati da sorveglianti. Poi il corridoio cambia luce. Si trasforma. Siamo invasi di nuovo dal bianco. Il bianco della vernice bianca sulle pareti. Sulla vernice sono stati scritti a mano i versi dell’Amleto La mente è completamente occupata dal bianco e dall’inchiostro. Prima epifania.l’inchiostro nero sulla vernice bianca.
Sparpagliati, entriamo nelle stanze-celle. In una stanza c’è il tavolo in cui Alice prende il the. Ma Alice non c’è. Ci sono solo le grandi tazze di polistirolo accanto a tazzine di porcellana. In un’altra stanza c’è un letto di detenzione e una catena fissata al letto. In un’altra ,il teatro ancora vuoto, con gli oggetti catapultati dal mondo di Lewis Carroll, messi in un modo apparentemente caotico. In fondo al corridoio, una gabbia con gli uccellini.
Seconda epifania: la tempesta di suoni. Lo spazio viene all’improvviso “fonetizzato”. Ad ogni angolo appaiono gli attori della Compagnia della Fortezza, annunciati dalle loro voci. Ciascuno di loro indossa un costume reinventato (dal genio visionario di Emanuela Dall’Aglio), personaggi in bilico tra Alice e Amleto. Tutti portano tacchi altissimi, coturni immaginifici. Nel mondo duramente maschile di un luogo di detenzione fa irruzione un segno transgender. Terza epifania: la visione di un mondo capovolto e luccicante che ti avvolge nel colore, e nella follia.
Shakespeare, Laforgue, Genet, Carroll, Deleuze, Scaldati, Ruccello, Marinetti, Fassbinder, Heiner Muller si scatenano come tuoni nel carcere, parlati dai corpi di questi sconvolgenti attori-prigionieri. Anche Armando Punzo, il regista di Hamlice, saggio sulla fine della civiltà, l’orchestratore-demiurgo della compagnia della Fortezza, è tra loro, costume nero, gesto furioso, liberatorio, straziato nello sguardo, in corsa allarmata. E’ l’Amleto che denuncia la follia di un mondo dove si sorveglia e si punisce con vecchi sistemi di tortura.
Finché si esce nel cortile esterno. La luce del fuori esalta le forme degli occhi, i colori accesi dei costumi, e gli stessi vestiti degli spettatori. E’ come una vernice fresca che scrive sul corpo. Quarta epifania: la luce di fuori inonda la luce di dentro e la fa uscire fuori.
Si ritorna dentro. Per ascoltare altri monologhi, assecondare altri flussi, ennesime metamorfosi. Eccola Alice, che corre da una parte all’altra e non dice una parola. Guarda, Alice, come noi spettatori, attoniti, travolti, impressionati. E corre.
Poi tutto si scioglie, pian piano, così come si è acceso, e si torna di nuovo fuori, la luce adesso è meno forte. Al centro del cortile, c’è una montagna di lettere di polistirolo. Tutte le lettere dell’alfabeto. E’ un vecchio a lanciare per aria la prima. Poi arrivano gli altri, gli attori e gli spettatori, Tutti lanciamo le A le B e le S nel cielo, mentre Armando Punzo legge i versi di un poeta sulle parole che possono dare la libertà. Si ride, e ci si emoziona, a immaginare un mondo diverso. Quinta epifania: la rivoluzione delle parole. La catarsi.
Riprendiamo il passaporto la borsa i soldi il telefono. Ora siamo fuori dal carcere Noi siamo “fuori”. Gli attori della Fortezza a questo punto si staranno sfilando le scarpe alte e luminescenti. Si staranno struccando. Staranno riprendendo possesso dei loro corpi tatuati. Di certo si stanno sorridendo tra di loro. Parleranno ad alta voce e si diranno: come è andata? è stato bello no? si è stato bello. Poi si farà sera e si avvicineranno ai loro letti e cadranno nel sonno. Chi sognerà Alice, chi Amleto. Tutti sceglieranno la loro parola di libertà. Uno di loro sognerà il mondo nel quale ci troviamo noi adesso, il mondo di fuori dove si cammina si ama e si pensa che ci sarà un domani diverso dall’oggi. Qualcun altro spegnerà la luce senza dire niente, non ha mai detto niente perché non c’è niente da dire, e pregherà di non sognare niente.
(Pubblicato su "Gli Altri" il 20 agosto 2010)
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