martedì 29 dicembre 2009

Riccardo Barenghi, la Jena incapace di odio


“Each man kills the thing he loves” cantava Jeanne Moreau in Querelle de Brest di Fassbinder. Ogni uomo uccide ciò che ama. La Jena, per esempio, uccide solo ciò che ama: è una verità che è sotto gli occhi di tutti. Ma poi vuole uccidere veramente? Oppure desidera solo svegliare le sue vittime da un sonno profondo? La Jena ha nove anni e mezzo ed è un enfant terrible: per tanti anni ha scritto dalle colonne del “manifesto”, dal 2005 attacca ogni giorno dalla prima pagina della “Stampa”. Quando giocava in casa, se la prendeva solo con la sinistra, ora gli tocca ogni tanto lasciare in pace la sua famiglia. Questa è la Jena. Poi c’è l’uomo, Riccardo Barenghi, 52 anni, ex direttore del “manifesto”, un uomo burbero e benefico, divertente, caustico e gentile. Ecco, quest’uomo sembra capace di tutto tranne che di odiare qualcuno. Allora perché lo fa? Perché ogni giorno prende la penna e nel mezzo del bianco scaglia poche letterine d’inchiostro nero e avvelenato contro il più fragile dei mondi, quello della politica? Nella sua casa ai Parioli, Riccardo Barenghi assomiglia al principe Antonio De Curtis che nella celebre intervista rilasciata a Lello Bersani parlava di Totò come di uno schiavo che costringeva a mangiare in cucina con un pappagallo: una creatura dell’immaginario diventata una persona viva e terrorizzata. “Io lo sfrutto” diceva il principe, “Io lo odio” rispondeva Totò. Mica male essere in due, anche se – ne era convinto Laforgue, il poeta - “si è sempre uno di troppo”.

Barenghi, lei si sente veramente una Jena?

Se intende una Jena nel senso di cattivo, no, non mi sento una Jena.

Come è nata allora questa seconda pelle?

Quando, nel 2000, rifacemmo la grafica del “manifesto” riportandolo ad un formato più grande e più scritto, il nostro grafico di allora, Piergiorgio Maoloni, creò uno spazio per un corsivo in prima pagina. Si riprendeva così una vecchia tradizione del giornale (all’inizio i corsivi li faceva addirittura Umberto Eco firmandoli “Dedalus”). Allora io dirigevo “il manifesto” e non era facile cercare ogni sera qualcuno che firmasse il corsivo. Ogni tanto li facevo io, ogni tanto Pintor ed io li siglavo. Poi, siccome mi venivano bene, ho pensato di farli tutti io, ma bisognava trovare un nome. Mi sono ricordato del film 1997, Fuga da New York”: il protagonista si faceva chiamare Snake, che nella versione italiana era tradotto Jena, Jena Plissken…Nel frattempo D’Alema aveva detto che i giornalisti erano jene e dattilografe…Tutto combaciava. Così è nato il nome.

Che cosa è cambiato profondamente nel passaggio da “il manifesto” a “La Stampa”? Cosa ha perso e cosa ha guadagnato?

Non ho perso niente se non quella parte di corsivi un po’ autoreferenziali che facevo sul “mondo-manifesto”. Su “La Stampa” ho smesso di farli perché nessuno li avrebbe capiti. Per il resto, c’è stata un’evoluzione: i corsivi della Jena sono diventati più brevi, ma questo dipende dal fatto che mentre ero al “manifesto” si trattava molto di più la politica estera, la guerra in Iraq soprattutto, di quanto la si tratti ora. Per cui attualmente la Jena si riferisce soprattutto all’attualità politica italiana.

C’è un momento preciso del giorno in cui la Jena si fa sentire e decide di dire la sua?

Naturalmente sono “aggiornato sulla giornata” e da lì traggo ispirazione, dai fatti del giorno. Ma mentre al “manifesto” cominciavo a pensare alla Jena da subito, dalle prime ore del mattino, adesso il pensiero “oh Dio, vedo fare la Jena” si affaccia solo d un certo punto del pomeriggio. Verso le quattro comincio ad entrare in ansia, ed è normale che accada. Non è come scrivere un articolo. Finché non viene la battuta fulminante, lo spazio rimane bianco…Come nasce? Non lo so. Quando arriva l’idea, l’ho fatta. Il processo è molto veloce. E si fonda sempre sul nesso che si crea tra due cose contraddittorie. Per esempio, le leggo questa Jena che ho scelto come copertina al libro pubblicato da Fazi nel 2008 (Jena: otto anni di agguati della belva più feroce del giornalismo italiano): “Nel suo primo anno di vita il neonato prova ansia, gelosia e rancore. Da grande sarà un ottimo leader del centrosinistra”. La prima parte di questa Jena viene da una ricerca scientifica, la seconda da un campo diverso.

Ma è quello che dice Freud quando parla del funzionamento del motto di spirito: condensazione e spostamento…i due procedimenti associativi classici che sono alla base del witz…

E’ proprio così. Nella mia testa si associano due cose che fra loro sono distanti, si spostano dal loro campo e si condensano in un terzo territorio, quello che io chiamo della Jena.

Ci sono delle Jene di cui si vergogna?

Sì. E’ una Jena recente. Avevo scritto un fondo piuttosto critico sul Partito Democratico. Il giorno dopo mi arriva un messaggio da Dario Franceschini che mi invita ad ascoltare un suo discorso.Vado. Il discorso non era neanche terribile, ma io dovevo fare una Jena, e siccome la Jena invece è terribile, non guarda in faccia nessuno, il giorno dopo ho scritto: “Il discorso di ieri di Franceschini mi ha provocato un atroce dilemma: non so più se votare per Bersani o per Marino”. E lui che invece si aspettava una telefonata la sera stessa! Ecco, lì mi sono un po’ vergognato.

Perché che l’ha tanto con i leader di sinistra? Li ama davvero tutti così tanto?

Sì, è una faccenda d’amore. Ma mentre questo valeva fino a prima dell’estate, adesso il rapporto si è riequilibrato. Su “La Stampa” la Jena colpisce un po’ a sinistra e un po’ a destra. Mentre Veltroni e Franceschini scatenavano la Jena al massimo, Bersani non tanto: è più tranquillo ma anche più triste. La Jena va dietro alla carne che trova: dove trova morde.

Ma la Jena vuole farli fuori veramente o magari li vuole solo resuscitare, questi suoi compagni di strada mezzi addormentati?

Per quanto riguarda le Jene fatte sulla sinistra, c’è sicuramente l’idea di morderli per svegliarli.

Devo dirle una cosa: non avevo mai visto in vita mia la presentazione di un libro (E’ facile smettere di perdere, se sai come farlo di Gennaro Migliore) che iniziasse con la stroncatura del libro stesso. Non solo. Quel giorno lei andava contando gli ospiti in sala e ripeteva: “Siamo sempre meno, altro che vittoria…”.Non le sembra un comportamento un po’ troppo disfattista?

In fondo non era una stroncatura: ho detto che mi era piaciuta di più la prima parte della seconda, troppo centrata su un “dover essere”. E poi è vero: siamo sempre quelli della “parrocchietta” che girano negli stessi posti…Non credo che il disfattismo sia sano, ma il realismo sì. Gennaro Migliore per esempio si rende benissimo conto che la situazione è disperata, ma butta il cuore oltre l’ostacolo…Però i nostri orticelli al momento sono sterili, non possiamo non riconoscerlo.

A proposito di vittoria e di sconfitta, Bellocchio ha fatto un bellissimo film uscito qualche mese fa, l’ha intitolato Vincere e parla del fascismo, anzi di Mussolini e del culto della personalità che arriva a schiacciare anche i sentimenti più puri. Forse l’idea della vittoria non può scorporarsi dalle pratiche del potere e dai meccanismi della sopraffazione… E’ concepibile l’idea di un potere buono?

Storicamente, il potere si è sempre rivelato violento. Non ho mai visto esercitare il potere in modo buono. O meglio: è buono per qualcuno e cattivo per altri. E’ insito nell’idea e nella pratica del potere, di essere un po’ cattivo. Alla fine, si arriva a mostrare sempre un pugno di ferro. L’ecumenismo è ipocrisia, il veltronismo diventa totale ipocrisia…Un potere fondato sul “volemose bene” non funziona.

Ma lei ce l’ha un sogno, uno di quei sogni belli senza fondamenta, un sogno fatto per il solo piacere di sognare, di immaginare un mondo migliore?

Di solito non riesco a sognare e immaginare un mondo più buono, faccio sogni più personali che riguardano per esempio i miei figli.

Quanti figli?

Due figli avuti da due ex mogli. Uno ha ventidue anni, l’altra ne ha nove. Ho dei sogni per loro. Per quanto riguarda un sogno politico, spero che dal conflitto possa nascere qualcosa di più giusto. Ma sto parlando pur sempre di un conflitto…

L’odio è un sentimento come altri, ma serve a qualcosa?

Quello che sta accadendo in Italia non è questione di odio. Parliamo di un conflitto sociale molto pesante.

C’è un momento di Videocracy - che potremmo definire un docu-noir sul nuovo Medioevo - in cui Berlusconi appare in una delle sue reti tv e lancia un messaggio: “Voi ci attaccate con l’odio, noi rispondiamo con l’amore”. A voler leggere solo il testo letterale di questo messaggio, quello che arriva al paese è, molto semplicemente: la destra ama e la sinistra odia. La Jena poi odia più di tutti….

Questo messaggio è arrivato a metà del paese. L’altra metà ha tutte le ragioni per essere incazzata con Berlusconi . Questa categoria dell’odio e dell’amore in politica mi sembra insensata. Amore e odio devono entrare solo nei rapporti personali.


C’è qualcuno che lei veramente può dire di odiare?

No. Ci ho provato ma non ci sono mai riuscito. Persino le persone che mi hanno fatto veramente male, non sono mai riuscito ad odiarle. Posso essere incazzato. Arrivo a provare rancore. Ma odio mai. Né in politica né nei rapporti sentimentali. Se la mia donna mi tradisce e mi lascia, mi dispero, ma non la odio.


In quanto Jena, filosoficamente parlando, lei è un cinico. Ma non pensa che avremmo anche bisogno degli stoici? Le leggo una frase di Epitteto: “Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena”. Le piace questa frase?

Magari ci si riuscisse! Io non ci riesco. O meglio, nel mio lavoro di Jena assolutamente sì: desidero che gli accadimenti avvengano così come sono affinché io poi possa rifletterli e commentarli in quel modo lì. Non li devo determinare, indirizzare, guidare. Nei rapporti sentimentali, invece, non mi comporto certo da stoico. Anzi faccio pure troppo per determinare che gli avvenimenti vadano in una certa direzione, e quasi mai ci riesco. Il risultato è una frustrazione totale.


Se non stoico, c’è un elemento quantomeno “zen” nel suo modo di pensare. Ce l’ha fatto notare Michele Serra, quando a prefazione del suo libro scrive: “Attorno al suo lavoro quotidiano non ci sono scorie, non polvere, non sudore visibile. Il riposante bianco che fa da cornice alle sue pochissime parole è in fin dei conti il bianco che tutti vorremmo attorno, lo spazio vuoto che ci protegge dal frastuono assordante e indistinguibile delle parole che sortiscono a fiumi da ogni punto cardinale”.

Sì, il bianco è quasi più importante del nero. Zen ma anche snob. Michele Serra dice anche snob: io sto sulla riva del fiume, non mi sporco le mani, aspetto il nemico e attacco. La Jena è così: aspetta, assale e il giorno dopo ricomincia. Poi c’è Barenghi, che sta in mezzo, polemizza, scrive. La Jena la fa Barenghi ma non è Barenghi. Succedeva spesso che per esempio Valentino Parlato m’incontrasse nei corridoi del giornale e mi dicesse: “Non sono d’accordo con la tua Jena di oggi”. E io gli rispondevo: “Neanch’io”. Perché la Jena a volte va anche contro la mia stessa opinione. Ha una vita autonoma, colpisce dove deve colpire. Anche se fossi berlusconiano, potrei fare la Jena. Perché non mi riguarda.

E delle Iene televisive che cosa pensa?

Rispetto all’inizio, adesso si sono un po’ troppo spettacolarizzati, si sono fatti prendere dalla goliardia. Però li trovo sempre efficaci.

Cosa guarda in tv?

Il calcio e qualche programma d’attualità: “Ballarò” mi annoia, “Annozero” sì ma dipende dall’argomento...

Lei era molto legato a Luigi Pintor. Cosa ha rappresentato Pintor per lei e per il giornalismo italiano?


Per il giornalismo di sinistra italiano (dico di sinistra anche se lui si arrabbierebbe), Luigi Pintor ha rappresentato moltissimo. Una volta Berlinguer dichiarò: “Pintor e Scalfari sono i migliori giornalisti italiani”. Mi pare che questo dica tutto. Per me ha rappresentato tutto quello che sono diventato. Da Pintor ho imparato tantissimo e con lui c’era un rapporto che prescindeva anche dalla politica. Ci capivamo con uno sguardo. Lui aveva avuto due figli. Io ero il terzo… Le racconto una cosa: Luigi aveva un impermeabile bellissimo che io gli invidiavo tanto. Ogni volta io gli dicevo “ma quanto è bello!” e lui mi rispondeva: “Lascia stare, non te lo puoi permettere un impermeabile così”…Beh, quando Luigi è morto, Isabella me l’ha voluto regalare…

In Italia, si sta verificando un fenomeno inquietante, la nascita del giornale-partito, e “La Repubblica” ne è l’esempio più chiaro. E’ un sintomo di crisi del giornalismo oppure di deriva della forma-partito?


E’ una forma della crisi della politica. “La Repubblica” sta supplendo ad una crisi dell’opposizione: a modo suo. Lo fa con le campagne, con le firme. Giusto o sbagliato che sia, questo è. Così come qualche anno fa - mi riferisco al 2002-2003, ai primi anni del governo Berlusconi - ci furono altri che supplirono alla crisi della politica della sinistra: il sindacato, i girotondi, i pacifisti. Mentre i dirigenti della sinistra politica erano praticamente morti. Adesso c’è “La Repubblica, c’è “Il Fatto”, c’è Santoro. Questo non va bene. Non dovrebbe funzionare così. Se Bruno Vespa in trasmissione mi sbatte Travaglio come mandante dell’aggressione contro Berlusconi, e come il leader dell’opposizione politica, io mi arrabbio con Bruno Vespa ma soprattutto mi arrabbio con i politici. Che stanno facendo?

Le è mai capitato di sentirsi ferito da un attacco di qualche altra jena? Con le parole qualcuno è arrivato a farle male?

Sì, soprattutto ai tempi del “manifesto” accadeva. Interiormente gli attacchi mi feriscono. Fuori faccio finta di fregarmene. Uno che mi fece molto incazzare fu Feltri che su “Libero” fece una pagina intitolata come se io fossi il capo delle Br. Allora ero direttore del “manifesto”. Lo querelai, vinsi e presi anche un po’ di soldi. Ma in quell’occasione non mi sentii ferito. Era rabbia.

Pubblicato su "Gli Altri" del 24 dicembre 2009

venerdì 18 dicembre 2009

La bambina che voleva fare la sindacalista


Via Margutta, sabato pomeriggio. Le luci inondano la strada. Pare che stiano per scoppiare e seminare il panico tra la folla. Si cammina a fatica. Regali, regali e ancora regali. Bambini impazziti che trascinano padri letargici. Un chiasso mediorientale nel cuore di Roma. Poi ci si infila in un portone, al numero 19, accolti da tre lettere snelle, Ugl (che sta per Unione Generale del Lavoro): queste lettere sono azzurre ma non di un azzurro “giocattoloso”. Sembrano quasi blu, un po’ severe forse. Austere come la sala riunioni al piano di sotto (ma tutte le sale riunioni sono austere), dove soli di fronte ad un caffè aspettiamo di incontrare “il segretario generale”. La bandiera dell’Italia è poggiata in fondo alla sala, accanto ad un quadretto che isola la silhouette dello Stivale. Diciamolo pure. Nella sede di un sindacato non ti aspetteresti mai di vedere sventolare la bandiera nazionale. Primo piccolo shock. Secondo shock: dalle vetrate delle ampie librerie, affiorano “certi” strani libri - I giorni della destra, Il complotto comunista, Cuori neri, Il sindacalismo fascista, Donne armi e bandiere - incomprensibili a chi è cresciuto con una “certa” idea del sindacato, che deve essere rosso e di piazza. E’ arrivato il momento dell’intervista. L’addetto stampa ci fa salire al piano di sopra, conducendoci nella stanza del “segretario generale”. Il segretario generale è una bella donna di 47 anni con un maglione azzurro, ma diverso dall’azzurro della scritta Ugl. Quest’azzurro è acceso, come l’occhio della signora Renata Polverini, come il suo modo di ridere, ampio, generoso, come i suoi ragionamenti, franchi.

Partiamo dalle origini. La “leggenda” parla di una madre e di una bambina, la bambina sta sempre con la mamma, sindacalista.

Non è una leggenda, è tutto vero. Io ero orfana di padre e mia madre cercava di avermi sempre vicino… Andavo a scuola dalle suore ma per il resto del tempo non aveva nessuno a cui lasciarmi e allora era costretta a portarmi con sé al lavoro. Mia madre era impiegata alla Rinascente ma era anche un dirigente sindacale della Cisnal. Ero molto piccola - avrò avuto 5, 6 anni – e già partecipavo alle riunioni sindacali che si tenevano la sera. Poi, quando sono diventata grande, ho cominciato io, prima nella Cisnal, poi nella Ugl.

Quindi entra presto a far parte di un mondo tradizionalmente maschile…

Mia madre e un’altra signora erano le uniche donne. Fra l’altro, la categoria della Fisn Acta (Commercio Turismo e affini) condivideva a Roma lo spazio con i metalmeccanici (a via Principe Amedeo) che erano soli uomini: l’unica presenza femminile era quella di una segretaria che rispondeva al telefono. Ricordo che si faceva sempre molto tardi, e mi addormentavo sulle sedie che gli amici del sindacato mettevano una di fila all’altra proprio “per fare dormire la bambina”.

Come erano queste stanze? Quali dettagli catturava “la bambina”?

Erano stanze degli anni Settanta, molto buie, con le classiche lampade rotonde e scure. Però ricordo una cosa molto bella. Non c’era molto da offrire, e allora il segretario si era inventato una specie di premio, che dava alla fine delle riunioni. Forse era una cosa creata apposta per far divertire me. Io pescavo sempre il nome di mia madre, e vincevo una bottiglia di spumante, o cose del genere. Col tempo mi è venuto il dubbio che fosse tutto orchestrato, ma allora mi piaceva pensare che il nome di mia madre uscisse fuori veramente ogni volta, solo perché ero io che la chiamavo.

Qual è il nome di sua madre?

Giovanna, ma tutti la chiamano Gianna.


Per la maggior parte della gente la sola esistenza di un sindacato di destra è un paradosso …Ecco, se lei dovesse spiegare a qualcuno che non conosce la nostra storia cos’è un sindacato di destra in parole chiare e semplici, che cosa direbbe?

Questo è un paese che dà per scontato il fatto che il lavoro e i suoi diritti siano sostenuti dalla sinistra. In realtà noi siamo la prova vivente che così non è. C’è un mondo di destra che si è sempre interessato ai diritti dei lavoratori, ma abbiamo sempre dovuto difendere questo nostro spazio di difesa. Questa cosa ci ha dato in realtà una grande forza, perché abbiamo combattuto quotidianamente un pregiudizio duro a morire. In questo senso, per me è stato sempre molto importante parlare ai giovani. Il sindacato è la casa comune anche e soprattutto per i giovani, che invece sono demotivati, perché si sono lasciati coinvolgere dall’idea che il sindacato è vecchio, sclerotizzato…

Se questo è accaduto, però è anche colpa del sindacato…

E’ vero, non ho mai respinto le colpe. Ad un certo punto, abbiamo mostrato una eccessiva attenzione nei confronti delle categorie che hanno già una rete di diritti e di tutele, e una distrazione nei confronti dei giovani, ai quali abbiamo consegnato degli strumenti, ma senza tutelarli a sufficienza, e alla fine impedendo loro di apprezzare quegli stessi strumenti. Questo è successo anche perché il sindacato si è voluto occupare degli interessi generali del paese, dimenticando che è un rappresentante di parte.

Che differenze sostanziali ci sono tra un sindacato di destra e uno di sinistra?

Rispetto alle persone che rappresentiamo, nessuna, perché sono tutti lavoratori. Se guardiamo all’orientamento politico degli iscritti, non credo che ci sia più una differenza così netta. Noi associamo anche lavoratori che votano a sinistra. Detto questo, tra noi e un sindacato di sinistra c’è una differenza storica. Se pensiamo alla Cgil, è ancorata all’idea di una lotta di classe e di una contrapposizione in termini assoluti. L’Ugl invece è nata con un’idea più partecipativa. Riconosciamo gli strumenti del conflitto - come lo sciopero -, ma nello stesso tempo lo consideriamo come l’ultima delle battaglie, che si fa solo nel caso in cui si sono perse tutte le altre battaglie a livello intermedio.

In questa filosofia politica, il concetto di “classe” e di “conflitto di classe” viene sostituito da un altro concetto o semplicemente viene negato?

Le realtà sono due: imprenditori e lavoratori. Da una parte ci sono gli imprenditori, dall’altra ci sono i lavoratori che in maniera diversa contribuiscono allo stesso progetto, che è quello dell’impresa e del benessere collettivo. L’impegno è comune ma ci sono modi diversi di arrivare a quel risultato. Più che di una differenza di classe, parlerei di una differenza di impegno e di qualità dell’impegno. Noi sappiamo perfettamente che il lavoratore è la parte debole. Cerchiamo di negoziare quanto più possibile in un rapporto tra capitale e lavoro, però non abbandoniamo mai l’idea che anche il conflitto sia un elemento importante.

La differenza sembra anche nel modo di parlare e di comunicare…

Direi che noi tendiamo ad usare un linguaggio meno violento e frontale. Per quanto mi riguarda, quando comunico cerco di esprimere lo stesso concetto senza mai essere offensiva. E faccio attenzione a non usare un linguaggio di chiusura. La parola “fine” si mette solo quando ci si rende conto che non c’è nessun altro strumento a disposizione.

Ma questa strategia, chiamiamola più “morbida”, non rischia di creare nel lavoratore l’impressione che si stia soltanto “simulando” un conflitto con il datore di lavoro, e che alla fine, in un modo o nell’altro, ci si accorderà?

I miei non hanno mai questa impressione. Questa strategia non è “morbida”, è politica. Se devo portare a casa un risultato, devo capire quando è arrivato il momento di dire la parola “fine”. Se la dico troppo presto, rischio di fallire. Per esempio, quando abbiamo seguito la vertenza Thyssenkrupp, c’è stato un momento in cui stavamo raggiungendo un buon risultato, ma non abbiamo avuto la prontezza di capire che quello era il momento di chiudere. La controparte era tedesca, non italiana. In seguito abbiamo fatto fatica a riscrivere l’accordo.

Quando si è profilata la sua candidatura a presidente della Regione Lazio per il Pdl, come ha reagito?

Ho pensato che fosse uno scherzo. Adesso non so cosa accadrà, però devo dire che per me e soprattutto per l’organizzazione è stata una grande cosa. Solo per il fatto che si sia pensato a me per una carica che io considero assolutamente importante, mi sento molto gratificata. Evidentemente il mio lavoro dentro l’organizzazione è stato apprezzato.

Quindi accetterà?

Si, ma aspettiamo i fatti. Non vorrei delusioni.

La sua vita cambierebbe molto…

La mia vita è già un inferno. Non dormo mai. Però lo dico sempre: non lamentiamoci. Questo lavoro non ce l’ha chiesto nessuno di farlo, l’abbiamo scelto noi.

Quante ore dorme?

Molte ore di meno di quelle di cui avrei bisogno. Non solo dormo poco, ma meno dormo e più sono ossessionata dal pensiero che non posso andare a dormire presto. Posso anche non mangiare, ma la mancanza di sonno mi uccide.

Che sentimenti le ha scatenato la vicenda Marrazzo? Secondo lei c’è una vittima e c’è un carnefice in tutta questa storia?

Quello che più mi ha amareggiato è l’aspetto che riguarda la famiglia Marrazzo, nella quale è entrato come una bomba un fatto grave che però, nello specifico, non mi sento di giudicare. Mi dispiace soprattutto per la moglie e per le figlie che hanno subìto per prime le conseguenze terribili di questa vicenda.

E’ sposata, Renata?

Sì, da vent’anni, ma non abbiamo figli.

Perché crede così tanto nella famiglia?

Viviamo in un paese in cui la famiglia è un po’ il centro di tutta la nostra vita, è la prima comunità sulla quale si costruisce la società. La crisi che il paese sta attraversando ci fa capire quanto in Italia la famiglia sia un elemento di sicurezza per tutti. Sentiamo ogni giorno ministri, imprenditori, sindacalisti, politici, dire una grande verità, e cioè che il vero sistema di ammortizzatori sociali che in questo momento ha risposto straordinariamente alla crisi economica, è proprio la famiglia.

La famiglia continua ad essere anche un nucleo di violenza spaventosa che si tende a rimuovere e coprire.

Si, purtroppo c’è anche quest’altro aspetto. Noi siamo donne e sappiamo che la violenza esplode soprattutto dentro le mura domestiche. Però io continuo a pensare che nelle famiglie italiane prevalga l’aspetto positivo, protettivo.

Come donna, è stato difficile diventare per lei un leader?

Assolutamente sì. E’ stato difficile perché c’è ancora un aspetto culturale forte, un retro-pensiero per cui la donna deve dimostrare di saper fare quello che invece nel caso di un uomo è dato per scontato. Non solo. Non basta averlo dimostrato. Devi ricordarlo quotidianamente. Per me è stato difficile, sì, come lo per tutte le donne. E va detto. Va detto alle nuove generazioni che devono animarsi da una grande forza di volontà. Si può fare. Con fatica, con sudore, con determinazione, con testardaggine, si può andare avanti. Però devo anche dire che, così come è stato difficile raggiungere il ruolo di leader del sindacato, dal momento in cui si mette in moto la fiducia degli altri, poi il riconoscimento è automatico, e molte persone arrivano ad affidarsi completamente a te. Almeno dentro l’organizzazione è successo questo.


Avere una sensibilità per i temi legati all’immigrazione è di destra o di sinistra?

E’ semplicemente un fatto di buonsenso. Non possiamo dimenticare che come italiani abbiamo un passato di emigrazione. Dovremmo essere predisposti anche ad accogliere, dal momento che stiamo stati accolti. E poi noi facciamo i sindacalisti. Dal momento che nel nostro paese c’è una parte del lavoro che riguarda i lavoratori immigrati, noi abbiamo il dovere di provare a rappresentarli. Nel 2000 abbiamo costituito un sindacato che si chiama Sei che significa Sindacato Emigrati Immigrati, che si occupa di loro fin dal momento in cui entrano nel nostro paese, per tutelarli in tutti i loro passaggi della loro vita qui: dalla ricerca di una casa al permesso di soggiorno. Quando diventano lavoratori, si iscrivono, si associano alle nostre categorie e possono entrare a far parte della nostra classe dirigente. Fino ad avere una loro rappresentanza all’interno del consiglio nazionale.

Quale è la sua posizione rispetto alla pillola abortiva?

Della pillola abortiva penso quello che penso dell’aborto. Naturalmente ogni donna, nell’ambito della sua intimità, della sua coscienza e del suo rapporto con la vita e con se stessa, decide quello che vuole, però parliamo di un trauma che rimane nel tempo. Pensare che la pillola abortiva sia un semplice medicinale è sbagliato. Sappiamo quale è il processo che questa pillola innesca, e quindi va trattato con la stessa attenzione con cui si tratta l’aborto: a protezione della donna, non solo della sua salute fisica ma anche della sua salute psicologica. Questo lo dico perché mi sono fatta un’idea precisa. Ero ragazza…mia madre stava facendo un intervento banale, ed io mi trovai lì con diverse donne che dovevano abortire. Quella settimana in ospedale mi ha segnato molto. C’era una sofferenza che veniva fuori in maniera evidente. Probabilmente se non avessi vissuto quell’esperienza, non l’avrei capito fino in fondo.

Il privato di un personaggio pubblico deve rimanere privato o diventa automaticamente pubblico?

Penso che il privato debba rimanere privato. Oggi ci sono delle irruzioni pesanti nella vita delle persone che effettivamente diventano abusi, però è anche vero che un personaggio pubblico automaticamente diventa visibile a tutti e non si può evitare che ogni suo comportamento abbia un riflesso. Nel mio piccolo, so che qualunque cosa faccio non posso farla solo per me, perché rappresento tanti lavoratori, e questo mi dà una responsabilità in più.

Quali giornali legge la mattina?

R: Tutti, ma davvero tutti. Con l’ufficio stampa facciamo un lavoro analitico ogni mattina, andando a cercare anche la notizia minore del giornale minore.


Narrativa o saggistica, di che “partito” è?

Una volta, quando avevo tempo, leggevo le biografie di personaggi storici, e spesso femminili. Donne ma anche uomini che avevano segnato la storia del mondo. Oggi leggo solo libri di economia o pubblicazioni sindacali. Cosa che mi intristisce ancora di più, perché ovviamente da queste letture escono fuori tutte le criticità di un mondo in cui i più deboli sono sempre più deboli.


Pubblicato su "Gli Altri" (settimanale) il 18 dicembre 2009

venerdì 11 dicembre 2009

ArgillaTeatri, dalla strada al salotto: riflessioni intorno al concetto di “classe”


Negli anni Settanta, facevano teatro di strada. Il loro riferimento era allora, come ora, Eugenio Barba, ovvero il guru di un teatro aperto, politico, incisivo, un teatro antropologico, che presupponeva un rapporto vivo con la collettività e con il territorio. ArgillaTeatri è nata così, e vale la pena ripescare alcuni frammenti della loro storia per capire quanto fosse disperatamente “non borghese” ogni loro gesto artistico. I laboratori in India e in Tibet, le performance in luoghi inusuali della capitale, l’attività di ricerca all’interno delle biblioteche di Cinecittà e Quadraro, le collaborazioni con artisti del Living e dell’Odin, sono alcuni dei movimenti che nel tempo hanno fatto di una compagnia dal nome morbido un fortino del pensiero combattente: “ArgillaTeatri nasce dall’esperienza di Lanterna Rossa che, dapprima come centro di aggregazione politica, poi come teatro autogestito, ha rappresentato negli anni Settanta e Ottanta uno dei primi esperimenti di teatro globale, ma soprattutto l’affermazione che il teatro reale si pone libero dai vincoli di classe, consentendo a ciascuno la possibilità di affrancarsi dalla strada segnata dalle condizioni sociali” si legge nel loro manifesto.
Bene, di tempo ne è passato e le metamorfosi sono spesso segni di vitalità e capacità di adattamento. Però colpisce profondamente il fatto che oggi Argillateatri operi in una piccola sala di un albergo lussuoso della via Flaminia, l’hotel River Chateau. Al cospetto di una borghesia (ma anche di una nobiltà) di quartiere agghindata come nei giorni di festa, la compagnia si è esibita nella lettura musicata e danzata del “Minotauro” di Durrenmatt, voce recitante Ivan Cozzi, contrabbasso Daniele Roccato, danzatrice Cinzia Ana Cortejosa. Sotto l’impulso potente, visionario, del contrabbasso che oscillava da pezzi classici (Bach) a brani scritti dallo stesso Roccato, la storia tragica del Minotauro, metà animale e metà uomo, ingannato da Teseo, perso in un labirinto di specchi, prendeva una propria vita, creando anche momenti di intensità, sottolineati dai movimenti lenti e ampi della ballerina di flamenco. Un reading che sarebbe stato perfetto per i Giardini della Filarmonica e che invece, curiosamente, si stendeva sulle pareti basse e un po’ claustrofobiche del grande hotel romano.
Non c’è giudizio in queste note, ma solo il segno di una riflessione sui tempi. Ivan Cozzi e Isabella Moroni (i fondatori dell’associazione Argillateatri) sono stati contenti della serata, ed è giusto che si sia riconoscenti nei confronti di chi ci accoglie e ci ospita. Ma la scena a cui abbiamo assistito è, quantomeno, ambivalente. Artisti di strada imparentati con Eugenio Barba, capaci di fare un teatro sempre animato da un discorso di classe e contro le classi, si trovano oggi a parlare ad una classe che certamente non è la loro e che forse nel passato avrebbe rappresentato il nemico di classe, una classe che però, a differenza di altre classi sorelle, si mostra più solidale e sensibile al lavoro degli artisti, che fa quello che può, compreso offrirgli una sala oppressiva e tutta sbagliata di un grande hotel pieno di ricchi turisti annoiati.
“Libero dai vincoli di classe” era il teatro che i nostri artisti facevano negli Settanta e Ottanta, un teatro colorato, festoso, doloroso, necessario, che coinvolgeva i lavoratori. Un teatro aperto e all’aperto, che oggi a malapena respira dentro una maschera da subacqueo e, timidamente, si accontenta di uno spazio qualsiasi per darsi ancora una prova della propria esistenza.
La questione non riguarda solo ArgillaTeatri, ma tutti noi. E’ un affare politico e culturale.
Dirò di più. Se questi bravi artisti di strada hanno accettato, col sorriso, di fare i loro spettacoli in un luogo così singolare, perché non seguirli in questa loro avventura? Sarebbe sintomo di immaginazione viva, di scelte non conformiste, di una intelligenza non mortificata dalla retorica, presentarsi il 22 dicembre all’Hotel River Chateau, scendere le scale e sedersi ad ascoltare “Les canciones Espanoles Antigas” di Federico Garcia Lorca: Maria Grazia Calandrone voce recitante, Daniela Ferri soprano, Luigi Ara alla chitarra.
(Per informazioni: argillateatri@gmail.com)

Il grande teatro è sempre politico: l'esempio di Scimone-Sframeli




La politica è morta. Della solidarietà non c’è più nessuna traccia. La classe operaia non è andata in paradiso e neanche all’inferno, non esiste neanche più e se esiste vuole fare una vita tranquilla, altro che rivoluzione. Ribaltando le convinzioni del passato, queste sono le teorie che, sottotraccia, inquinano ogni pensiero progressista, consegnandoci ad una vita rassegnata. Dietro questa molle resa all’esistente ci sono i passi, più di cento, che hanno segnato la lenta e inesorabile caduta della sinistra italiana. Passi anche importanti, che hanno visto crollare certe barriere ideologiche e alcuni fortini del pensiero debole/forte di stampo manicheo. I maestri sono lontani, e soprattutto ci hanno lasciato poco o niente. Fin qui sembrano essere tutti d’accordo. Ma poi uno si sveglia la mattina e si chiede: che piacere c’è a contemplare i resti della disfatta? E’ possibile che il linguaggio apocalittico abbia preso così selvaggiamente il posto di un linguaggio che renda conto della complessità dell’essere umano, che cosa ci è successo, perché invochiamo tutti la morte accettando di miseramente sopravvivere? Tante domande. E pensare che sono nate tutte dalla visione degli spettacoli di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, a cui l’Eti-Teatro Valle dedica una delle sue monografie d’artista, proponendo spettacoli diventati ormai storici (La festa e Il cortile) accanto all’ultima creazione, Pali, più la presentazione di un libro dedicato alla coppia siciliana, Un assurdo isolano di Dario Tomasello (Editoria e Spettacolo).
Il teatro va vissuto così: totalmente, nel tempo, in una immersione lenta che abiuri il consumo e favorisca il pensiero. Solo in questo modo possono nascere le domande importanti sul presente. E’ l’unico modo per accedere alla natura composita di un’opera, capire in quale costellazione di pensiero e di parola attiva si inserisce, che mondi scuote, da dove viene e quale è la sua direzione. Perché il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli è politico, inesorabilmente politico. Tutto il più grande teatro lo è. Lo sanno bene alla Comedie Francaise, dove hanno scelto di portare in scena nel 2007 La festa, forse il più bel testo di Spiro Scimone, opera pietrosa e acida sulla famiglia, per inserirla quest’anno in repertorio, in coppia con Le preziose ridicole di Molière. Un classico antico e un classico moderno: per affondare la lama nella società di ieri e in quella di oggi. Questa sì che è una lezione di civiltà.
E pensare che i due artisti siciliani hanno lottato per anni in silenzio, con sobrietà, consegnandoci quasi un’opera all’anno ma senza ottenere, se non in questo momento, il giusto riconoscimento. Il problema non è soltanto loro, ma nasce da una miopia collettiva, che riguarda la politica (incapace di dialogare con la cultura) e la cultura (incapace di uscire dal proprio ghetto). Finché all’intreno del mondo politico non si capisce che il teatro non è un puro rito di società, che non va annoverato nell’elenco delle “cose da fare” come comparsi un vestito o andare a cena fuori, ci si negherà un’esperienza conoscitiva preziosa, dalla quale possono nascere indicazioni precise sul modo di intendere non solo il passato ma anche il futuro. Prendiamo l’ultimo spettacolo, Pali. Lo abitano quattro personaggi: la Bruciata, Senza mani, il Nero e l’Altro. A turno, salgono su dei pali, per salvarsi dalla merda che ha inondato la terra. Sognano di trasformarla in mare. Passano il tempo così. Facendosi continue domande, mostrando una curiosità anacronistica. Quattro derelitti, che vengono dal mondo di sotto ma sono stanchi di mangiarsi l’un l’altro e scelgono un posto né sopra né sotto da cui guardare a attorno a cui stringersi, in una comunione randagia e tenera. Lavano le camicie degli altri, le stendono al sole, suonano, aspettano. C’è un nuovo tono da “operetta morale” in questa ultima opera, ma non è difficile trovare il consueto ritmo del linguaggio, lo stupore e la rabbia con cui i due autori guardano il mondo. Si è sempre detto di loro che sono beckettiani, anche perché Scimone molti anni fa tradusse un Apettando Godot in siciliano. Loro puntualizzano che tutti i siciliani sono beckettiani, perché c’è sempre qualcosa che non si può dire, e questa cosa che non si può dire è la morte. Sciascia scriveva della Sicilia come metafora. E’ così che dobbiamo intendere il loro teatro: non tanto come l’espressione di un localismo né di un beckettismo minore, quanto come il furioso, ossessivo, incantato girare intorno ad una realtà liminale, un mondo in cui si è abituati a non avere niente. Questa loro accesa, bella insularità, è come il ventre che partorisce visioni e ferite su corpo, ma anche immagini di riscatto. C’è un mondo criminale. Ma c‘è accanto un universo pieno di pietà, capace di tenersi allacciato all’umano. “In un mondo in cui non c’è più nessun Dio, non ci resta che la solidarietà - dice Scimone – e alla base di questa solidarietà c’è la relazione. Questa è la nostra salvezza, mia e di Francesco. Per portare queste visioni in palcoscenico, ci alimentiamo di un certo modo di vivere i rapporti nella vita reale”.
La festa, La busta, Il cortile, Bar, Nunzio, Pali: visioni d’apocalisse, immondizia, degrado, violenza, povertà. Ci camminiamo dentro collezionando attimi di luce, indicazioni su come deve essere un uomo tra gli uomini.

Pubblicato su "Lettera 22" il 12 dicembre 2009

sabato 5 dicembre 2009

La favola di Emma


E’ sicuramente una favola, ma con le sue strane, ispide varianti. La protagonista è una ragazza dura che affascina per le cose che dice e che pensa. Viene dal profondo Sud e nella sua Palermo ha dovuto lavorare per anni in condizioni precarie, nel centro sociale ex Karcere. E anche oggi che ha aperto una spazio alla Zisa, il suo nuovo spettacolo non debutta comunque nella sua città, ma a Napoli. Questa ragazza, un giorno, viene chiamata alla Scala di Milano, non a fare la ballerina (come vorrebbe la favola classica), ma la regista, cioè la creatrice dello spettacolo inaugurale, la temibile Carmen di Bizet, un’opera-mondo che lei, senza farsi intimidire, non leviga né edulcora ma converte al proprio immaginario, piazzando sulla scena una croce che sta sempre per cadere e i suoi mimi-attori dai forti connotati antropologici: debutto 7 dicembre. I giornali palermitani titolano: nemo profeta in patria. Grande Emma Dante. Ha poco più di quarant’anni e, con la forza del suo lavoro, si conquista una delle vetrine più lussuose e internazionali d’Europa. Una donna che prende il ruolo tradizionale di un uomo. Dialogando con altri uomini, tra cui il direttore d’orchestra Daniel Barenboim, da pari a pari. Senza troppe carinerie. Perché Emma Dante, bisogna ammetterlo, non ha mai usato la simpatia come strumento di comunicazione. Lunatica, ispida, inflessibile (è di quelle persone che, a qualunque ora, al telefono ti rispondono sempre scocciate, come se avessi appena svegliato una diva che stava dormendo), si rivela però una persona generosa se riesci a trovare un filo di connessione che non debba per forza essere benevolente nei suoi confronti, ma sincero sì. La sua favola moderna e un po’ gotica si è nutrita degli odori e delle camminate sghembe della Vuccirìa, dove Emma si è persa mille volte per trattenere nella mente il ritmo ancestrale delle figure che andava disegnando, per farci ridere e stordire, piantando sulla carne dei suoi meravigliosi attori l’assurdo velenoso di un mondo che è decisamente tragico. Come la terra che l‘ha partorita e da cui non si è mai staccata: Palermo grande madre dai fianchi larghi e dalla parlata inconscia, città di corpi bucati dal vento di scirocco; Palermo che scrive una litania assordante nei passi lenti dei giorni e delle notti. Per chi è nato in Sicilia (anche noi ci siamo nati, come Emma), è difficile evadere dalla sua linea d’ombra, anche se fa male stare sempre esposti alle passioni.
Un Sud misterioso, ferino, irriducibile che è fatto di madri cattive e cannibali (anche e soprattutto quelle di mafia) e di donne scorticate, come Le Pulle - le prostitute, trans e travestiti che, in un bordello dalle tende damascate, contemplano madonnine vestite di piume di struzzo – ma anche di uomini soli - come il protagonista di Acquasanta, che di fronte al porticciolo di Palermo, guarda il mare ricordando la sua vita di uomo di mare. E’ a questo universo carnale che la regista-drammaturga non ha mai smesso di volgere lo sguardo, con una coerenza stilistica che è stata premiata e l’ha portata fino alla Scala di Milano, dove lunedì debutta questa sua Carmen violenta imparentata non solo con Siviglia ma con un’idea di Sud profondo: “Ho letto Nietzsche e soprattutto i Greci –ha dichiarato l’artista palermitana - perché quest’opera clamorosa, enorme, grandissima, ha molti legami con l’antichità, e reca in sé tanti mondi diversi, non solo la Spagna, ma pure la Francia, l’Africa, il Sud America. Quello di Carmen è un mondo femminile atroce, dove le donne sono guerrigliere e la zingara sgozza un uomo senza neanche pensarci un istante”.
Ecco, questo è il tratto creativo di Emma Dante che più ci interessa: l’irriducibile asprezza, l’ audacia nel mettere le mani nel sangue e nella carne della storia. “La carnalità è l’elemento più importate del mio teatro – ci aveva detto recentemente nel corso di un’intervista – Ogni parola che l’attore pronuncia è generata dalla sua carne. Non è mai una parola detta, ma un balletto, ma un’esibizione gestuale. Ha a che fare con qualcosa di peccaminoso, di sconcio. L’attore va a sporcarsi al posto nostro, mettendo a nudo il nostro sudiciume e le parole che ci portiamo dentro”.
Non sono tanti coloro che potranno vedere la Carmen di Emma Dante: per fortuna a gennaio l’Eti-Teatro Valle di Roma le dedica una delle sue monografie d’artista. Per quasi un mese, il pubblico romano potrà immergersi nelle sue epifanie terrestri, sintonizzandosi con le vite di quei personaggi che vivono al livello più basso della condizione umana, da Le Pulle fino a Vita mia e Acquasanta, arrivando però alla fine a dire sì alla vita: “I miei personaggi non sono strettamente neanche sottoproletari, ma sono resti di qualcosa, incompleti sempre. Non hanno nessuna parentela umana, e non per questo sono peggiori di noi. Al contrario, nonostante tutto, hanno ancora voglia di esserci”.
Pubblicato su "L'Altro" il 5 dicembre 2009

mercoledì 2 dicembre 2009

Ragazze, la vita trema


“E’ un film per donne, non possiamo produrlo…e per farvi pubblicità contattate le riviste femminili”: è quello che Rai Cinema avrebbe detto a Paola Sangiovanni e Laura Cafiero, regista e produttrice di un bellissimo film documentario, Ragazze la vita trema, sulla grande stagione del femminismo romano, presentato quest’anno al festival di Venezia e oggetto di una serata speciale al Cinema Farnese organizzata dalla Provincia di Roma (e in particolare dall’assessore Cecilia D’Elia), in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne.
Dietro quest’ affermazione apparentemente innocua, banale, e a suo modo esplicita – “un film sul femminismo è un film per donne “, si cela un pensiero che non abbiamo paura a definire violento, e su cui vale la pena soffermarsi, a poche ore dalla grande manifestazione di domani.
Violenza è, indubbiamente, l’omicidio, lo stupro, lo scempio di un corpo violato, martoriato. Violenza è quella che gli uomini esercitano contro le donne dentro le case: violenza fisica, sessuale.
Poi c’è la violenza più impalpabile che l’altra violenza, quella sui corpi, rende possibile. E’ la violenza che si allea con le forme del potere, assestando le dinamiche del proprio successo e della propria forza su una miriade di piccoli sacrifici quotidiani. E’ l’abuso dei molti sui pochi, che trova alleanze silenziose e sorrisi complici negli innumerevoli gesti della micro-storia. “E’ nella natura di un gruppo e del suo potere rivolgersi contro l’indipendenza, che è proprietà della potenza individuale. … – scriveva Hannah Arendt in Sulla violenza – nel linguaggio quotidiano usiamo spesso la forza come sinonimo di violenza, specialmente se la violenza serve come strumento di coercizione”.
Immaginiamo la scena: due donne, un’artista e una produttrice, vanno a chiedere un sostegno per il loro film, entrando in uno dei luoghi deputati alla promozione della cultura. Sono convinte, queste due donne, che il loro documentario abbia un valore culturale, che vada visto da tutti. Invece la risposta è: rivolgetevi alle riviste femminili. Lo si dice con convinzione. Senza riconoscere di esercitare il male (lo sappiamo ormai quanto è banale, il male). Obbedendo ad una formula cinica, tipica della società degli uomini, che le loro compagne spesso sottoscrivono: questo è mainstream e questo no, e chi vuoi che se ne freghi di quattro signore che andavano alle manifestazioni nel Sessantotto. Che il ghetto si rivolga al suo stesso ghetto, e non ci molesti con le sue storie tinte di rosa….
Già.Perché, a causa di una colpevole “svista” del pensiero a breve durata, la testimonianza di quattro donne su quello che è stato ed è diventato il femminismo, è considerata “roba da femmine”.
Non importa come è fatto questo film, che volti narra, che parole nutre. Si ha fretta di decidere se dare o no i soldi in base al tema: bocciato, promosso, tre stelline, quattro stelline., marchio d’infamia. Entri il prossimo.
E se non è violenza questa, una violenza che tutti contribuiamo ad esercitare tutte le volte che giudichiamo in fretta mettendoci dalla parte dei più forti, allora che cosa è?
Ma veniamo al film, che rischia di finire nel macero delle quote rosa.
Sarebbe da rotocalco femminile la testimonianza di Alessandra Vanzi, nota attrice dell’avanguardia romana, che con lentezza racconta la violenza sessuale subita a undici anni ad opera di due ragazzi, è da rotocalco l’immagine della stanza in cui fu costretta ad entrare, il vuoto improvviso di memoria (“non ricordo se c’era o no una festa di là”), la calma terrifica con cui confessa: “questa cosa mi ha reso schizofrenica. E’ una cosa che non ho mai detto. Riesco a dirla solo adesso”?
Dovrebbe finire nella rubrica dei “consigli del cuore” il momento in cui Marina Pivetta cerca di descrivere la durezza maschile di una società, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, che seviziava le ragazze dentro i tailleur, impedendole di unirsi ai ragazzi, ostacolandone l’intelligenza, la capacità di creazione: “Ci vestivamo come delle adulte. Non eravamo spontanee mai. Era pensare un pensare al tuo corpo in un modo ossessivo: in questo modo non puoi dimenticarti del tuo corpo mai”?
Sono le immagini d’archivio a dare concretezza epifanica a quelle sue parole.
Il divieto di esistere, l’autorità dei padri e delle madri, l’essere considerati niente, poco più che cosa, l’invidia che si provava verso i fratelli maschi, l’incapacità di parlare con una voce che possa dirsi propria, il desiderio di farcela, senza innescare altra paura, per non farsi suicidare dalla società.
E poi, poi la rottura, la rivoluzione. Si entra all’Università, si indossa l’eskimo, si combatte per le grandi conquiste civili a fianco dei radicali, si creano i primi collettivi femministi, e si sfidano gli sguardi dell’autorità. I racconti ipnotici, profondi, di Alessandra Vanzi, Marina Pivetta, Liliana Ingargiola e Maria Paola Fiorensoli, fluiscono nelle immagini di repertorio, e la grana di questo doppio film diventa sempre più densa, ombrata, piena di felicità e di dolore.
Sì, la vita ha fortemente tremato, in quegli anni che oggi ripercorriamo grazie alla sensibilità registica di una donna che allora era solo una bambina, Paola Sangiovanni. Poi la morte di Giorgiana Masi, era il 12 maggio del 1977, ha diffuso la paura. La marea si è ritirata. Ed oggi, che facciamo noi oggi? Non stiamo forse vivendo un nuovo clima di restaurazione? Non siamo più costrette a portare i tailleur stretti e a guardare in basso quando incrociamo lo sguardo di un uomo, ma la minigonna che oggi possiamo liberamente portare è diventata di nuovo un marchio d’infamia, il sintomo di un invito alla violenza e al disprezzo. Il corpo della donna viene macellato e scomposto in dettagli anatomici ogni giorno in tv e per strada. Nessuno dice niente. Il pensiero delle donne viene tenuto in frigorifero. Nessuno dice niente.
Negli anni Settanta queste bellissime donne occupavano una palazzo a via del Governo Vecchio. In pochi giorni, tutte andarono a trovarle, madri, figlie, sorelle, per parlare, per proteggersi, per agire insieme. “E’ stato un periodo di vita così entusiasmante, rivoluzionario nel vero senso della parola, laddove per tappe ottieni mutamenti, e mutamenti durevoli, che hanno cambiato il vostro delle nostre vite che del paese in cui vivevamo e in cui viviamo” dice Viviana.
Questo potente film che non ha ancora una distribuzione ce l’ha fatto sentire tutto, il terremoto della rivoluzione. Ragazze, la vita ha veramente tremato. E chiede di tremare ancora. Oggi, proprio oggi.
Pubblicato su "L'Altro" il 27 novembre 2009