venerdì 11 dicembre 2009

Il grande teatro è sempre politico: l'esempio di Scimone-Sframeli




La politica è morta. Della solidarietà non c’è più nessuna traccia. La classe operaia non è andata in paradiso e neanche all’inferno, non esiste neanche più e se esiste vuole fare una vita tranquilla, altro che rivoluzione. Ribaltando le convinzioni del passato, queste sono le teorie che, sottotraccia, inquinano ogni pensiero progressista, consegnandoci ad una vita rassegnata. Dietro questa molle resa all’esistente ci sono i passi, più di cento, che hanno segnato la lenta e inesorabile caduta della sinistra italiana. Passi anche importanti, che hanno visto crollare certe barriere ideologiche e alcuni fortini del pensiero debole/forte di stampo manicheo. I maestri sono lontani, e soprattutto ci hanno lasciato poco o niente. Fin qui sembrano essere tutti d’accordo. Ma poi uno si sveglia la mattina e si chiede: che piacere c’è a contemplare i resti della disfatta? E’ possibile che il linguaggio apocalittico abbia preso così selvaggiamente il posto di un linguaggio che renda conto della complessità dell’essere umano, che cosa ci è successo, perché invochiamo tutti la morte accettando di miseramente sopravvivere? Tante domande. E pensare che sono nate tutte dalla visione degli spettacoli di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, a cui l’Eti-Teatro Valle dedica una delle sue monografie d’artista, proponendo spettacoli diventati ormai storici (La festa e Il cortile) accanto all’ultima creazione, Pali, più la presentazione di un libro dedicato alla coppia siciliana, Un assurdo isolano di Dario Tomasello (Editoria e Spettacolo).
Il teatro va vissuto così: totalmente, nel tempo, in una immersione lenta che abiuri il consumo e favorisca il pensiero. Solo in questo modo possono nascere le domande importanti sul presente. E’ l’unico modo per accedere alla natura composita di un’opera, capire in quale costellazione di pensiero e di parola attiva si inserisce, che mondi scuote, da dove viene e quale è la sua direzione. Perché il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli è politico, inesorabilmente politico. Tutto il più grande teatro lo è. Lo sanno bene alla Comedie Francaise, dove hanno scelto di portare in scena nel 2007 La festa, forse il più bel testo di Spiro Scimone, opera pietrosa e acida sulla famiglia, per inserirla quest’anno in repertorio, in coppia con Le preziose ridicole di Molière. Un classico antico e un classico moderno: per affondare la lama nella società di ieri e in quella di oggi. Questa sì che è una lezione di civiltà.
E pensare che i due artisti siciliani hanno lottato per anni in silenzio, con sobrietà, consegnandoci quasi un’opera all’anno ma senza ottenere, se non in questo momento, il giusto riconoscimento. Il problema non è soltanto loro, ma nasce da una miopia collettiva, che riguarda la politica (incapace di dialogare con la cultura) e la cultura (incapace di uscire dal proprio ghetto). Finché all’intreno del mondo politico non si capisce che il teatro non è un puro rito di società, che non va annoverato nell’elenco delle “cose da fare” come comparsi un vestito o andare a cena fuori, ci si negherà un’esperienza conoscitiva preziosa, dalla quale possono nascere indicazioni precise sul modo di intendere non solo il passato ma anche il futuro. Prendiamo l’ultimo spettacolo, Pali. Lo abitano quattro personaggi: la Bruciata, Senza mani, il Nero e l’Altro. A turno, salgono su dei pali, per salvarsi dalla merda che ha inondato la terra. Sognano di trasformarla in mare. Passano il tempo così. Facendosi continue domande, mostrando una curiosità anacronistica. Quattro derelitti, che vengono dal mondo di sotto ma sono stanchi di mangiarsi l’un l’altro e scelgono un posto né sopra né sotto da cui guardare a attorno a cui stringersi, in una comunione randagia e tenera. Lavano le camicie degli altri, le stendono al sole, suonano, aspettano. C’è un nuovo tono da “operetta morale” in questa ultima opera, ma non è difficile trovare il consueto ritmo del linguaggio, lo stupore e la rabbia con cui i due autori guardano il mondo. Si è sempre detto di loro che sono beckettiani, anche perché Scimone molti anni fa tradusse un Apettando Godot in siciliano. Loro puntualizzano che tutti i siciliani sono beckettiani, perché c’è sempre qualcosa che non si può dire, e questa cosa che non si può dire è la morte. Sciascia scriveva della Sicilia come metafora. E’ così che dobbiamo intendere il loro teatro: non tanto come l’espressione di un localismo né di un beckettismo minore, quanto come il furioso, ossessivo, incantato girare intorno ad una realtà liminale, un mondo in cui si è abituati a non avere niente. Questa loro accesa, bella insularità, è come il ventre che partorisce visioni e ferite su corpo, ma anche immagini di riscatto. C’è un mondo criminale. Ma c‘è accanto un universo pieno di pietà, capace di tenersi allacciato all’umano. “In un mondo in cui non c’è più nessun Dio, non ci resta che la solidarietà - dice Scimone – e alla base di questa solidarietà c’è la relazione. Questa è la nostra salvezza, mia e di Francesco. Per portare queste visioni in palcoscenico, ci alimentiamo di un certo modo di vivere i rapporti nella vita reale”.
La festa, La busta, Il cortile, Bar, Nunzio, Pali: visioni d’apocalisse, immondizia, degrado, violenza, povertà. Ci camminiamo dentro collezionando attimi di luce, indicazioni su come deve essere un uomo tra gli uomini.

Pubblicato su "Lettera 22" il 12 dicembre 2009

Nessun commento: