martedì 29 dicembre 2009

Riccardo Barenghi, la Jena incapace di odio


“Each man kills the thing he loves” cantava Jeanne Moreau in Querelle de Brest di Fassbinder. Ogni uomo uccide ciò che ama. La Jena, per esempio, uccide solo ciò che ama: è una verità che è sotto gli occhi di tutti. Ma poi vuole uccidere veramente? Oppure desidera solo svegliare le sue vittime da un sonno profondo? La Jena ha nove anni e mezzo ed è un enfant terrible: per tanti anni ha scritto dalle colonne del “manifesto”, dal 2005 attacca ogni giorno dalla prima pagina della “Stampa”. Quando giocava in casa, se la prendeva solo con la sinistra, ora gli tocca ogni tanto lasciare in pace la sua famiglia. Questa è la Jena. Poi c’è l’uomo, Riccardo Barenghi, 52 anni, ex direttore del “manifesto”, un uomo burbero e benefico, divertente, caustico e gentile. Ecco, quest’uomo sembra capace di tutto tranne che di odiare qualcuno. Allora perché lo fa? Perché ogni giorno prende la penna e nel mezzo del bianco scaglia poche letterine d’inchiostro nero e avvelenato contro il più fragile dei mondi, quello della politica? Nella sua casa ai Parioli, Riccardo Barenghi assomiglia al principe Antonio De Curtis che nella celebre intervista rilasciata a Lello Bersani parlava di Totò come di uno schiavo che costringeva a mangiare in cucina con un pappagallo: una creatura dell’immaginario diventata una persona viva e terrorizzata. “Io lo sfrutto” diceva il principe, “Io lo odio” rispondeva Totò. Mica male essere in due, anche se – ne era convinto Laforgue, il poeta - “si è sempre uno di troppo”.

Barenghi, lei si sente veramente una Jena?

Se intende una Jena nel senso di cattivo, no, non mi sento una Jena.

Come è nata allora questa seconda pelle?

Quando, nel 2000, rifacemmo la grafica del “manifesto” riportandolo ad un formato più grande e più scritto, il nostro grafico di allora, Piergiorgio Maoloni, creò uno spazio per un corsivo in prima pagina. Si riprendeva così una vecchia tradizione del giornale (all’inizio i corsivi li faceva addirittura Umberto Eco firmandoli “Dedalus”). Allora io dirigevo “il manifesto” e non era facile cercare ogni sera qualcuno che firmasse il corsivo. Ogni tanto li facevo io, ogni tanto Pintor ed io li siglavo. Poi, siccome mi venivano bene, ho pensato di farli tutti io, ma bisognava trovare un nome. Mi sono ricordato del film 1997, Fuga da New York”: il protagonista si faceva chiamare Snake, che nella versione italiana era tradotto Jena, Jena Plissken…Nel frattempo D’Alema aveva detto che i giornalisti erano jene e dattilografe…Tutto combaciava. Così è nato il nome.

Che cosa è cambiato profondamente nel passaggio da “il manifesto” a “La Stampa”? Cosa ha perso e cosa ha guadagnato?

Non ho perso niente se non quella parte di corsivi un po’ autoreferenziali che facevo sul “mondo-manifesto”. Su “La Stampa” ho smesso di farli perché nessuno li avrebbe capiti. Per il resto, c’è stata un’evoluzione: i corsivi della Jena sono diventati più brevi, ma questo dipende dal fatto che mentre ero al “manifesto” si trattava molto di più la politica estera, la guerra in Iraq soprattutto, di quanto la si tratti ora. Per cui attualmente la Jena si riferisce soprattutto all’attualità politica italiana.

C’è un momento preciso del giorno in cui la Jena si fa sentire e decide di dire la sua?

Naturalmente sono “aggiornato sulla giornata” e da lì traggo ispirazione, dai fatti del giorno. Ma mentre al “manifesto” cominciavo a pensare alla Jena da subito, dalle prime ore del mattino, adesso il pensiero “oh Dio, vedo fare la Jena” si affaccia solo d un certo punto del pomeriggio. Verso le quattro comincio ad entrare in ansia, ed è normale che accada. Non è come scrivere un articolo. Finché non viene la battuta fulminante, lo spazio rimane bianco…Come nasce? Non lo so. Quando arriva l’idea, l’ho fatta. Il processo è molto veloce. E si fonda sempre sul nesso che si crea tra due cose contraddittorie. Per esempio, le leggo questa Jena che ho scelto come copertina al libro pubblicato da Fazi nel 2008 (Jena: otto anni di agguati della belva più feroce del giornalismo italiano): “Nel suo primo anno di vita il neonato prova ansia, gelosia e rancore. Da grande sarà un ottimo leader del centrosinistra”. La prima parte di questa Jena viene da una ricerca scientifica, la seconda da un campo diverso.

Ma è quello che dice Freud quando parla del funzionamento del motto di spirito: condensazione e spostamento…i due procedimenti associativi classici che sono alla base del witz…

E’ proprio così. Nella mia testa si associano due cose che fra loro sono distanti, si spostano dal loro campo e si condensano in un terzo territorio, quello che io chiamo della Jena.

Ci sono delle Jene di cui si vergogna?

Sì. E’ una Jena recente. Avevo scritto un fondo piuttosto critico sul Partito Democratico. Il giorno dopo mi arriva un messaggio da Dario Franceschini che mi invita ad ascoltare un suo discorso.Vado. Il discorso non era neanche terribile, ma io dovevo fare una Jena, e siccome la Jena invece è terribile, non guarda in faccia nessuno, il giorno dopo ho scritto: “Il discorso di ieri di Franceschini mi ha provocato un atroce dilemma: non so più se votare per Bersani o per Marino”. E lui che invece si aspettava una telefonata la sera stessa! Ecco, lì mi sono un po’ vergognato.

Perché che l’ha tanto con i leader di sinistra? Li ama davvero tutti così tanto?

Sì, è una faccenda d’amore. Ma mentre questo valeva fino a prima dell’estate, adesso il rapporto si è riequilibrato. Su “La Stampa” la Jena colpisce un po’ a sinistra e un po’ a destra. Mentre Veltroni e Franceschini scatenavano la Jena al massimo, Bersani non tanto: è più tranquillo ma anche più triste. La Jena va dietro alla carne che trova: dove trova morde.

Ma la Jena vuole farli fuori veramente o magari li vuole solo resuscitare, questi suoi compagni di strada mezzi addormentati?

Per quanto riguarda le Jene fatte sulla sinistra, c’è sicuramente l’idea di morderli per svegliarli.

Devo dirle una cosa: non avevo mai visto in vita mia la presentazione di un libro (E’ facile smettere di perdere, se sai come farlo di Gennaro Migliore) che iniziasse con la stroncatura del libro stesso. Non solo. Quel giorno lei andava contando gli ospiti in sala e ripeteva: “Siamo sempre meno, altro che vittoria…”.Non le sembra un comportamento un po’ troppo disfattista?

In fondo non era una stroncatura: ho detto che mi era piaciuta di più la prima parte della seconda, troppo centrata su un “dover essere”. E poi è vero: siamo sempre quelli della “parrocchietta” che girano negli stessi posti…Non credo che il disfattismo sia sano, ma il realismo sì. Gennaro Migliore per esempio si rende benissimo conto che la situazione è disperata, ma butta il cuore oltre l’ostacolo…Però i nostri orticelli al momento sono sterili, non possiamo non riconoscerlo.

A proposito di vittoria e di sconfitta, Bellocchio ha fatto un bellissimo film uscito qualche mese fa, l’ha intitolato Vincere e parla del fascismo, anzi di Mussolini e del culto della personalità che arriva a schiacciare anche i sentimenti più puri. Forse l’idea della vittoria non può scorporarsi dalle pratiche del potere e dai meccanismi della sopraffazione… E’ concepibile l’idea di un potere buono?

Storicamente, il potere si è sempre rivelato violento. Non ho mai visto esercitare il potere in modo buono. O meglio: è buono per qualcuno e cattivo per altri. E’ insito nell’idea e nella pratica del potere, di essere un po’ cattivo. Alla fine, si arriva a mostrare sempre un pugno di ferro. L’ecumenismo è ipocrisia, il veltronismo diventa totale ipocrisia…Un potere fondato sul “volemose bene” non funziona.

Ma lei ce l’ha un sogno, uno di quei sogni belli senza fondamenta, un sogno fatto per il solo piacere di sognare, di immaginare un mondo migliore?

Di solito non riesco a sognare e immaginare un mondo più buono, faccio sogni più personali che riguardano per esempio i miei figli.

Quanti figli?

Due figli avuti da due ex mogli. Uno ha ventidue anni, l’altra ne ha nove. Ho dei sogni per loro. Per quanto riguarda un sogno politico, spero che dal conflitto possa nascere qualcosa di più giusto. Ma sto parlando pur sempre di un conflitto…

L’odio è un sentimento come altri, ma serve a qualcosa?

Quello che sta accadendo in Italia non è questione di odio. Parliamo di un conflitto sociale molto pesante.

C’è un momento di Videocracy - che potremmo definire un docu-noir sul nuovo Medioevo - in cui Berlusconi appare in una delle sue reti tv e lancia un messaggio: “Voi ci attaccate con l’odio, noi rispondiamo con l’amore”. A voler leggere solo il testo letterale di questo messaggio, quello che arriva al paese è, molto semplicemente: la destra ama e la sinistra odia. La Jena poi odia più di tutti….

Questo messaggio è arrivato a metà del paese. L’altra metà ha tutte le ragioni per essere incazzata con Berlusconi . Questa categoria dell’odio e dell’amore in politica mi sembra insensata. Amore e odio devono entrare solo nei rapporti personali.


C’è qualcuno che lei veramente può dire di odiare?

No. Ci ho provato ma non ci sono mai riuscito. Persino le persone che mi hanno fatto veramente male, non sono mai riuscito ad odiarle. Posso essere incazzato. Arrivo a provare rancore. Ma odio mai. Né in politica né nei rapporti sentimentali. Se la mia donna mi tradisce e mi lascia, mi dispero, ma non la odio.


In quanto Jena, filosoficamente parlando, lei è un cinico. Ma non pensa che avremmo anche bisogno degli stoici? Le leggo una frase di Epitteto: “Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena”. Le piace questa frase?

Magari ci si riuscisse! Io non ci riesco. O meglio, nel mio lavoro di Jena assolutamente sì: desidero che gli accadimenti avvengano così come sono affinché io poi possa rifletterli e commentarli in quel modo lì. Non li devo determinare, indirizzare, guidare. Nei rapporti sentimentali, invece, non mi comporto certo da stoico. Anzi faccio pure troppo per determinare che gli avvenimenti vadano in una certa direzione, e quasi mai ci riesco. Il risultato è una frustrazione totale.


Se non stoico, c’è un elemento quantomeno “zen” nel suo modo di pensare. Ce l’ha fatto notare Michele Serra, quando a prefazione del suo libro scrive: “Attorno al suo lavoro quotidiano non ci sono scorie, non polvere, non sudore visibile. Il riposante bianco che fa da cornice alle sue pochissime parole è in fin dei conti il bianco che tutti vorremmo attorno, lo spazio vuoto che ci protegge dal frastuono assordante e indistinguibile delle parole che sortiscono a fiumi da ogni punto cardinale”.

Sì, il bianco è quasi più importante del nero. Zen ma anche snob. Michele Serra dice anche snob: io sto sulla riva del fiume, non mi sporco le mani, aspetto il nemico e attacco. La Jena è così: aspetta, assale e il giorno dopo ricomincia. Poi c’è Barenghi, che sta in mezzo, polemizza, scrive. La Jena la fa Barenghi ma non è Barenghi. Succedeva spesso che per esempio Valentino Parlato m’incontrasse nei corridoi del giornale e mi dicesse: “Non sono d’accordo con la tua Jena di oggi”. E io gli rispondevo: “Neanch’io”. Perché la Jena a volte va anche contro la mia stessa opinione. Ha una vita autonoma, colpisce dove deve colpire. Anche se fossi berlusconiano, potrei fare la Jena. Perché non mi riguarda.

E delle Iene televisive che cosa pensa?

Rispetto all’inizio, adesso si sono un po’ troppo spettacolarizzati, si sono fatti prendere dalla goliardia. Però li trovo sempre efficaci.

Cosa guarda in tv?

Il calcio e qualche programma d’attualità: “Ballarò” mi annoia, “Annozero” sì ma dipende dall’argomento...

Lei era molto legato a Luigi Pintor. Cosa ha rappresentato Pintor per lei e per il giornalismo italiano?


Per il giornalismo di sinistra italiano (dico di sinistra anche se lui si arrabbierebbe), Luigi Pintor ha rappresentato moltissimo. Una volta Berlinguer dichiarò: “Pintor e Scalfari sono i migliori giornalisti italiani”. Mi pare che questo dica tutto. Per me ha rappresentato tutto quello che sono diventato. Da Pintor ho imparato tantissimo e con lui c’era un rapporto che prescindeva anche dalla politica. Ci capivamo con uno sguardo. Lui aveva avuto due figli. Io ero il terzo… Le racconto una cosa: Luigi aveva un impermeabile bellissimo che io gli invidiavo tanto. Ogni volta io gli dicevo “ma quanto è bello!” e lui mi rispondeva: “Lascia stare, non te lo puoi permettere un impermeabile così”…Beh, quando Luigi è morto, Isabella me l’ha voluto regalare…

In Italia, si sta verificando un fenomeno inquietante, la nascita del giornale-partito, e “La Repubblica” ne è l’esempio più chiaro. E’ un sintomo di crisi del giornalismo oppure di deriva della forma-partito?


E’ una forma della crisi della politica. “La Repubblica” sta supplendo ad una crisi dell’opposizione: a modo suo. Lo fa con le campagne, con le firme. Giusto o sbagliato che sia, questo è. Così come qualche anno fa - mi riferisco al 2002-2003, ai primi anni del governo Berlusconi - ci furono altri che supplirono alla crisi della politica della sinistra: il sindacato, i girotondi, i pacifisti. Mentre i dirigenti della sinistra politica erano praticamente morti. Adesso c’è “La Repubblica, c’è “Il Fatto”, c’è Santoro. Questo non va bene. Non dovrebbe funzionare così. Se Bruno Vespa in trasmissione mi sbatte Travaglio come mandante dell’aggressione contro Berlusconi, e come il leader dell’opposizione politica, io mi arrabbio con Bruno Vespa ma soprattutto mi arrabbio con i politici. Che stanno facendo?

Le è mai capitato di sentirsi ferito da un attacco di qualche altra jena? Con le parole qualcuno è arrivato a farle male?

Sì, soprattutto ai tempi del “manifesto” accadeva. Interiormente gli attacchi mi feriscono. Fuori faccio finta di fregarmene. Uno che mi fece molto incazzare fu Feltri che su “Libero” fece una pagina intitolata come se io fossi il capo delle Br. Allora ero direttore del “manifesto”. Lo querelai, vinsi e presi anche un po’ di soldi. Ma in quell’occasione non mi sentii ferito. Era rabbia.

Pubblicato su "Gli Altri" del 24 dicembre 2009

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