venerdì 18 dicembre 2009
La bambina che voleva fare la sindacalista
Via Margutta, sabato pomeriggio. Le luci inondano la strada. Pare che stiano per scoppiare e seminare il panico tra la folla. Si cammina a fatica. Regali, regali e ancora regali. Bambini impazziti che trascinano padri letargici. Un chiasso mediorientale nel cuore di Roma. Poi ci si infila in un portone, al numero 19, accolti da tre lettere snelle, Ugl (che sta per Unione Generale del Lavoro): queste lettere sono azzurre ma non di un azzurro “giocattoloso”. Sembrano quasi blu, un po’ severe forse. Austere come la sala riunioni al piano di sotto (ma tutte le sale riunioni sono austere), dove soli di fronte ad un caffè aspettiamo di incontrare “il segretario generale”. La bandiera dell’Italia è poggiata in fondo alla sala, accanto ad un quadretto che isola la silhouette dello Stivale. Diciamolo pure. Nella sede di un sindacato non ti aspetteresti mai di vedere sventolare la bandiera nazionale. Primo piccolo shock. Secondo shock: dalle vetrate delle ampie librerie, affiorano “certi” strani libri - I giorni della destra, Il complotto comunista, Cuori neri, Il sindacalismo fascista, Donne armi e bandiere - incomprensibili a chi è cresciuto con una “certa” idea del sindacato, che deve essere rosso e di piazza. E’ arrivato il momento dell’intervista. L’addetto stampa ci fa salire al piano di sopra, conducendoci nella stanza del “segretario generale”. Il segretario generale è una bella donna di 47 anni con un maglione azzurro, ma diverso dall’azzurro della scritta Ugl. Quest’azzurro è acceso, come l’occhio della signora Renata Polverini, come il suo modo di ridere, ampio, generoso, come i suoi ragionamenti, franchi.
Partiamo dalle origini. La “leggenda” parla di una madre e di una bambina, la bambina sta sempre con la mamma, sindacalista.
Non è una leggenda, è tutto vero. Io ero orfana di padre e mia madre cercava di avermi sempre vicino… Andavo a scuola dalle suore ma per il resto del tempo non aveva nessuno a cui lasciarmi e allora era costretta a portarmi con sé al lavoro. Mia madre era impiegata alla Rinascente ma era anche un dirigente sindacale della Cisnal. Ero molto piccola - avrò avuto 5, 6 anni – e già partecipavo alle riunioni sindacali che si tenevano la sera. Poi, quando sono diventata grande, ho cominciato io, prima nella Cisnal, poi nella Ugl.
Quindi entra presto a far parte di un mondo tradizionalmente maschile…
Mia madre e un’altra signora erano le uniche donne. Fra l’altro, la categoria della Fisn Acta (Commercio Turismo e affini) condivideva a Roma lo spazio con i metalmeccanici (a via Principe Amedeo) che erano soli uomini: l’unica presenza femminile era quella di una segretaria che rispondeva al telefono. Ricordo che si faceva sempre molto tardi, e mi addormentavo sulle sedie che gli amici del sindacato mettevano una di fila all’altra proprio “per fare dormire la bambina”.
Come erano queste stanze? Quali dettagli catturava “la bambina”?
Erano stanze degli anni Settanta, molto buie, con le classiche lampade rotonde e scure. Però ricordo una cosa molto bella. Non c’era molto da offrire, e allora il segretario si era inventato una specie di premio, che dava alla fine delle riunioni. Forse era una cosa creata apposta per far divertire me. Io pescavo sempre il nome di mia madre, e vincevo una bottiglia di spumante, o cose del genere. Col tempo mi è venuto il dubbio che fosse tutto orchestrato, ma allora mi piaceva pensare che il nome di mia madre uscisse fuori veramente ogni volta, solo perché ero io che la chiamavo.
Qual è il nome di sua madre?
Giovanna, ma tutti la chiamano Gianna.
Per la maggior parte della gente la sola esistenza di un sindacato di destra è un paradosso …Ecco, se lei dovesse spiegare a qualcuno che non conosce la nostra storia cos’è un sindacato di destra in parole chiare e semplici, che cosa direbbe?
Questo è un paese che dà per scontato il fatto che il lavoro e i suoi diritti siano sostenuti dalla sinistra. In realtà noi siamo la prova vivente che così non è. C’è un mondo di destra che si è sempre interessato ai diritti dei lavoratori, ma abbiamo sempre dovuto difendere questo nostro spazio di difesa. Questa cosa ci ha dato in realtà una grande forza, perché abbiamo combattuto quotidianamente un pregiudizio duro a morire. In questo senso, per me è stato sempre molto importante parlare ai giovani. Il sindacato è la casa comune anche e soprattutto per i giovani, che invece sono demotivati, perché si sono lasciati coinvolgere dall’idea che il sindacato è vecchio, sclerotizzato…
Se questo è accaduto, però è anche colpa del sindacato…
E’ vero, non ho mai respinto le colpe. Ad un certo punto, abbiamo mostrato una eccessiva attenzione nei confronti delle categorie che hanno già una rete di diritti e di tutele, e una distrazione nei confronti dei giovani, ai quali abbiamo consegnato degli strumenti, ma senza tutelarli a sufficienza, e alla fine impedendo loro di apprezzare quegli stessi strumenti. Questo è successo anche perché il sindacato si è voluto occupare degli interessi generali del paese, dimenticando che è un rappresentante di parte.
Che differenze sostanziali ci sono tra un sindacato di destra e uno di sinistra?
Rispetto alle persone che rappresentiamo, nessuna, perché sono tutti lavoratori. Se guardiamo all’orientamento politico degli iscritti, non credo che ci sia più una differenza così netta. Noi associamo anche lavoratori che votano a sinistra. Detto questo, tra noi e un sindacato di sinistra c’è una differenza storica. Se pensiamo alla Cgil, è ancorata all’idea di una lotta di classe e di una contrapposizione in termini assoluti. L’Ugl invece è nata con un’idea più partecipativa. Riconosciamo gli strumenti del conflitto - come lo sciopero -, ma nello stesso tempo lo consideriamo come l’ultima delle battaglie, che si fa solo nel caso in cui si sono perse tutte le altre battaglie a livello intermedio.
In questa filosofia politica, il concetto di “classe” e di “conflitto di classe” viene sostituito da un altro concetto o semplicemente viene negato?
Le realtà sono due: imprenditori e lavoratori. Da una parte ci sono gli imprenditori, dall’altra ci sono i lavoratori che in maniera diversa contribuiscono allo stesso progetto, che è quello dell’impresa e del benessere collettivo. L’impegno è comune ma ci sono modi diversi di arrivare a quel risultato. Più che di una differenza di classe, parlerei di una differenza di impegno e di qualità dell’impegno. Noi sappiamo perfettamente che il lavoratore è la parte debole. Cerchiamo di negoziare quanto più possibile in un rapporto tra capitale e lavoro, però non abbandoniamo mai l’idea che anche il conflitto sia un elemento importante.
La differenza sembra anche nel modo di parlare e di comunicare…
Direi che noi tendiamo ad usare un linguaggio meno violento e frontale. Per quanto mi riguarda, quando comunico cerco di esprimere lo stesso concetto senza mai essere offensiva. E faccio attenzione a non usare un linguaggio di chiusura. La parola “fine” si mette solo quando ci si rende conto che non c’è nessun altro strumento a disposizione.
Ma questa strategia, chiamiamola più “morbida”, non rischia di creare nel lavoratore l’impressione che si stia soltanto “simulando” un conflitto con il datore di lavoro, e che alla fine, in un modo o nell’altro, ci si accorderà?
I miei non hanno mai questa impressione. Questa strategia non è “morbida”, è politica. Se devo portare a casa un risultato, devo capire quando è arrivato il momento di dire la parola “fine”. Se la dico troppo presto, rischio di fallire. Per esempio, quando abbiamo seguito la vertenza Thyssenkrupp, c’è stato un momento in cui stavamo raggiungendo un buon risultato, ma non abbiamo avuto la prontezza di capire che quello era il momento di chiudere. La controparte era tedesca, non italiana. In seguito abbiamo fatto fatica a riscrivere l’accordo.
Quando si è profilata la sua candidatura a presidente della Regione Lazio per il Pdl, come ha reagito?
Ho pensato che fosse uno scherzo. Adesso non so cosa accadrà, però devo dire che per me e soprattutto per l’organizzazione è stata una grande cosa. Solo per il fatto che si sia pensato a me per una carica che io considero assolutamente importante, mi sento molto gratificata. Evidentemente il mio lavoro dentro l’organizzazione è stato apprezzato.
Quindi accetterà?
Si, ma aspettiamo i fatti. Non vorrei delusioni.
La sua vita cambierebbe molto…
La mia vita è già un inferno. Non dormo mai. Però lo dico sempre: non lamentiamoci. Questo lavoro non ce l’ha chiesto nessuno di farlo, l’abbiamo scelto noi.
Quante ore dorme?
Molte ore di meno di quelle di cui avrei bisogno. Non solo dormo poco, ma meno dormo e più sono ossessionata dal pensiero che non posso andare a dormire presto. Posso anche non mangiare, ma la mancanza di sonno mi uccide.
Che sentimenti le ha scatenato la vicenda Marrazzo? Secondo lei c’è una vittima e c’è un carnefice in tutta questa storia?
Quello che più mi ha amareggiato è l’aspetto che riguarda la famiglia Marrazzo, nella quale è entrato come una bomba un fatto grave che però, nello specifico, non mi sento di giudicare. Mi dispiace soprattutto per la moglie e per le figlie che hanno subìto per prime le conseguenze terribili di questa vicenda.
E’ sposata, Renata?
Sì, da vent’anni, ma non abbiamo figli.
Perché crede così tanto nella famiglia?
Viviamo in un paese in cui la famiglia è un po’ il centro di tutta la nostra vita, è la prima comunità sulla quale si costruisce la società. La crisi che il paese sta attraversando ci fa capire quanto in Italia la famiglia sia un elemento di sicurezza per tutti. Sentiamo ogni giorno ministri, imprenditori, sindacalisti, politici, dire una grande verità, e cioè che il vero sistema di ammortizzatori sociali che in questo momento ha risposto straordinariamente alla crisi economica, è proprio la famiglia.
La famiglia continua ad essere anche un nucleo di violenza spaventosa che si tende a rimuovere e coprire.
Si, purtroppo c’è anche quest’altro aspetto. Noi siamo donne e sappiamo che la violenza esplode soprattutto dentro le mura domestiche. Però io continuo a pensare che nelle famiglie italiane prevalga l’aspetto positivo, protettivo.
Come donna, è stato difficile diventare per lei un leader?
Assolutamente sì. E’ stato difficile perché c’è ancora un aspetto culturale forte, un retro-pensiero per cui la donna deve dimostrare di saper fare quello che invece nel caso di un uomo è dato per scontato. Non solo. Non basta averlo dimostrato. Devi ricordarlo quotidianamente. Per me è stato difficile, sì, come lo per tutte le donne. E va detto. Va detto alle nuove generazioni che devono animarsi da una grande forza di volontà. Si può fare. Con fatica, con sudore, con determinazione, con testardaggine, si può andare avanti. Però devo anche dire che, così come è stato difficile raggiungere il ruolo di leader del sindacato, dal momento in cui si mette in moto la fiducia degli altri, poi il riconoscimento è automatico, e molte persone arrivano ad affidarsi completamente a te. Almeno dentro l’organizzazione è successo questo.
Avere una sensibilità per i temi legati all’immigrazione è di destra o di sinistra?
E’ semplicemente un fatto di buonsenso. Non possiamo dimenticare che come italiani abbiamo un passato di emigrazione. Dovremmo essere predisposti anche ad accogliere, dal momento che stiamo stati accolti. E poi noi facciamo i sindacalisti. Dal momento che nel nostro paese c’è una parte del lavoro che riguarda i lavoratori immigrati, noi abbiamo il dovere di provare a rappresentarli. Nel 2000 abbiamo costituito un sindacato che si chiama Sei che significa Sindacato Emigrati Immigrati, che si occupa di loro fin dal momento in cui entrano nel nostro paese, per tutelarli in tutti i loro passaggi della loro vita qui: dalla ricerca di una casa al permesso di soggiorno. Quando diventano lavoratori, si iscrivono, si associano alle nostre categorie e possono entrare a far parte della nostra classe dirigente. Fino ad avere una loro rappresentanza all’interno del consiglio nazionale.
Quale è la sua posizione rispetto alla pillola abortiva?
Della pillola abortiva penso quello che penso dell’aborto. Naturalmente ogni donna, nell’ambito della sua intimità, della sua coscienza e del suo rapporto con la vita e con se stessa, decide quello che vuole, però parliamo di un trauma che rimane nel tempo. Pensare che la pillola abortiva sia un semplice medicinale è sbagliato. Sappiamo quale è il processo che questa pillola innesca, e quindi va trattato con la stessa attenzione con cui si tratta l’aborto: a protezione della donna, non solo della sua salute fisica ma anche della sua salute psicologica. Questo lo dico perché mi sono fatta un’idea precisa. Ero ragazza…mia madre stava facendo un intervento banale, ed io mi trovai lì con diverse donne che dovevano abortire. Quella settimana in ospedale mi ha segnato molto. C’era una sofferenza che veniva fuori in maniera evidente. Probabilmente se non avessi vissuto quell’esperienza, non l’avrei capito fino in fondo.
Il privato di un personaggio pubblico deve rimanere privato o diventa automaticamente pubblico?
Penso che il privato debba rimanere privato. Oggi ci sono delle irruzioni pesanti nella vita delle persone che effettivamente diventano abusi, però è anche vero che un personaggio pubblico automaticamente diventa visibile a tutti e non si può evitare che ogni suo comportamento abbia un riflesso. Nel mio piccolo, so che qualunque cosa faccio non posso farla solo per me, perché rappresento tanti lavoratori, e questo mi dà una responsabilità in più.
Quali giornali legge la mattina?
R: Tutti, ma davvero tutti. Con l’ufficio stampa facciamo un lavoro analitico ogni mattina, andando a cercare anche la notizia minore del giornale minore.
Narrativa o saggistica, di che “partito” è?
Una volta, quando avevo tempo, leggevo le biografie di personaggi storici, e spesso femminili. Donne ma anche uomini che avevano segnato la storia del mondo. Oggi leggo solo libri di economia o pubblicazioni sindacali. Cosa che mi intristisce ancora di più, perché ovviamente da queste letture escono fuori tutte le criticità di un mondo in cui i più deboli sono sempre più deboli.
Pubblicato su "Gli Altri" (settimanale) il 18 dicembre 2009
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