Nel titolo, sceglie la parola dei vivi. “Ricordati di
vivere”. Ma dentro quelle seicento pagine ci sono i vivi ma ci sono soprattutto
i morti, Craxi e Falcone e tutti gli altri. C’è il romanzo della nostra vita
politica più recente, il ventre da cui veniamo. Una vicenda shakespeariana, se
solo la si vuole leggere, con i suoi eroi, i suoi capri espiatori, le
meschinerie, le violenze, le vendette incrociate. Uno dei protagonisti di
quegli anni caldi della storia italiana, Claudio Martelli, decide di dare alle
stampe la sua autobiografia (“Ricordati di vivere”, Bompiani, pp. 593, euro
19.50), partendo dalla passione politica degli anni Sessanta, e soffermandosi
su quella infuocata estate del 1992, quando le lancette si fermarono, per
riprendere a correre all’impazzata, in una accelerazione di arresti, galere,
suicidi, persecuzioni, silenzi. Un clima da caccia alle streghe che viene
ricostruito con il respiro pacato di chi è uscito dalla politica, perché sa che
“la vertigine dell’azione” rende “non buoni”. Con Claudio Martelli, socialista
non pentito, ex ministro della Giustizia sotto Craxi, una laurea in Filosofia
Morale, parliamo di ieri, per costruire insieme una piccola lente che ci aiuti
a riconoscere la pulsione antropologia e la strategia politica che si celano
dietro la crudeltà di certe scene pubbliche, che nel gran teatro patibolare di
Mani Pulite trovano il loro marchio d’origine: come se tutti insieme non
facessimo altro che ricreare quella scena primaria che non sappiamo ancora
comprendere.
Il nome di Ligresti
ci riporta direttamente a Craxi. Come legge il caso Cancellieri?
A me è parso subito un caso tirato per i capelli, una
esasperazione delle tensioni, dei sospetti, dei risentimenti che dominano la
vita pubblica. Tutti hanno escluso che ci fossero dei reati. Si è parlato di
inopportunità, ma l’inopportunità è un concetto talmente vago che non significa
niente. In generale, non vedo che cosa ci sia di grave nel fatto che un
ministro della giustizia, interessato alle condizioni di salute di un detenuto
(amico o non amico che sia), si informi sul suo stato e segnali il caso alle
autorità competenti, in questo caso il Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria. Viviamo troppo di ombre
che non sono evanescenti ma diventano reali e ci influenzano enormemente. Anche
se negli Stati Uniti o in Francia il dibattito è accesso, credo che l’intensità
della polemica in Italia non abbia paragone con nessun altro Paese.
A che cosa
attribuisce questa anomalia italiana?
Alla nostra storia. Possiamo parlare di un’antropologia
italiana. Per capire di che cosa parliamo, basta sfogliare tutti i grandi
classici, a partire da Dante Alighieri.
Lo diceva anche Aldo Moro: «Questo è un Paese dalle strutture
fragili e dalla emotività prepotente».
Citando Machiavelli, ammette
di essere anche lei, in una qualche forma, “entrato nel male”, di aver agito in
alcune circostanze come un “non buono”.
E queste circostanze le cito apertamente nel libro. La
politica tende a strumentalizzare tutto, a cominciare proprio dalle relazioni,
dai rapporti umani. Parlo anche di me. Quante volte, in quegli anni in cui ero
intensamente impegnato, mi è capitato di
conoscere gente nuova, e ogni
volta mi chiedevo: ma con questo io che ci posso fare, a cosa mi può servire?
Di questa deformazione mi sono liberato faticosamente, nel momento in cui ho
abbandonato la politica.
Voi eravate al centro
di una tempesta perfetta. Per questo invitò Craxi e gli altri dirigenti a fare
un passo indietro. Più tardi disse: «Cercavo una catarsi simbolica». Anche la scrittura di questo libro, concepito per la prima volta
vent’anni fa, è un atto di catarsi?
La catarsi è un processo rigenerativo. E’ un atto di
purificazione che avviene fondamentalmente attraverso il riconoscimento dei
propri errori. La catarsi di cui parlavo allora era l’assunzione di
responsabilità di tutto il gruppo dirigente del Partito Socialista. Io non ho
mai pensato che Craxi dovesse farsi da parte, perché io dovevo prenderne il
posto.
Le fu chiesto da
Scalfaro, però.
Si, ma io respinsi questa offerta. E comunque resto
dell’idea che allora era necessario che ci fosse un atto di rottura con il
passato che ci aveva condotto ad essere il primo bersaglio dell’indagine sulla corruzione politica.
Invece la pretesa di Craxi era quella di reggere l’urto della contestazione
pubblica, dell’indagine giudiziaria, di una campagna massacrante contro i
socialisti, senza cambiare nulla. E
questo era umanamente impossibile.
Come ricompose poi la
rottura con Bettino Craxi, “il leader di
quell’epoca, il più grande e il migliore amico della mia vita” (cito dal suo
libro)?
Già prima che Craxi si allontanasse per andare ad Hammamett,
ci eravamo parlati, in occasione di processi in cui andavamo entrambi a
testimoniare. Seguirono alcune telefonate da Hammamet. Poi si creò un distacco
lungo. Nel ’99, quando mi candidai alle elezioni europee nello Sdi (un piccolo
partito socialista sopravvissuto), viaggiavo nel centro Italia per fare la
campagna elettorale: in quel viaggio mi
accompagnava Margherita Marsiglia, una compagna socialista che era stata
segretaria di Craxi. E mi ricordo che
Bettino chiamava lei al telefono per sapere come andava la campagna. Non mi
voleva ancora parlare direttamente ma seguiva ogni cosa. E mi dava dei consigli
attraverso di lei. Era anche buffo e tenero questo suo riavvicinarsi per gradi
dopo tre quattro anni di silenzio tombale. Quando si operò al rene, chiamai e
la figlia Stefania me lo passò al telefono. E così finalmente ci riparlammo.
C’era commozione da entrambe le parti. Lui era sereno ma sfinito, stanchissimo.
Era la vigilia di Natale. Io gli dissi che volevo vederlo. Lui mi rispose:
aspetta ancora un po’ che mi riprendo, un paio di settimane al massimo. E
questo fu l’unico e ultimo colloquio con Bettino dopo il suo espatrio. Pochi
giorni dopo l’infarto lo colpì.
In quegli anni, si mise in moto un meccanismo infernale di
carcerazioni preventive e delazioni sotto tortura. Nel 1992/1994 si contarono
più di 30.000 indagati, 3.000 arrestati, 47 suicidi, 500 parlamentari
inquisiti: stiamo parlando della più colossale operazione di pulizia
giudiziaria della storia repubblicana, e forse di tutta la storia italiana.
Resa possibile dalla violazione del segreto istruttorio. Per cui l’inquisito si
trovava in questa condizione: mentre il suo corpo restava in carcere, la sua anima (o immagine) veniva distrutta
dall’aggressione mediatica alimentata delle indiscrezioni che venivano fatte
filtrare dalle procure. Oggi non vedo qualcosa di paragonabile. Non siamo di
fronte ad una repressione di massa come quella del ’92-94. C’è stato certamente
un accanimento particolare verso Berlusconi. Ma io sostengo che le cose
italiane, quelle della politica e quelle della giustizia, non sono
separabili da una linea retta: di qua il
male e di là il bene. Semmai parlerei dello scontro tra due mali. Un male è la
posizione dominante di Berlusconi: dominante nei media, nell’economia e nella politica. E dall’altra parte c’è il
male di una giustizia violenta e unilaterale che usa la carcerazione preventiva
in modo abusivo come strumento di pressione per ottenere la collaborazione
dell’imputato.
Crede che il giudizio
storico su Mani Pulite sia ancora imperfetto? Dovrà passare altro tempo?
Rispetto a questo, io non ho niente da aggiungere a quello
che ha detto il procuratore capo dell’epoca, Francesco Saverio Borrelli un anno
fa. Nel ventesimo anniversario di mani pulite Borrelli ha ricordato con queste
esatte parole l’accaduto: «Dobbiamo chiedere scusa agli italiani.
Non valeva la pena di buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale». Da
parte del massimo protagonista della repressione giudiziaria di quegli anni c’è
l’ammissione più piena del fallimento, anzi del danno provocato. Ripensandoci,
vedo un orribile cinismo in questo verbo così sciatto: “buttare”. In genere si
dice: “buttare la spazzatura.” Non: “buttare gli uomini”. Eppure proprio quello
è successo. Si è buttato via il mondo precedente, che era un mondo in carne ed
ossa: uomini in gran parte rivelatisi innocenti o molto meno colpevoli rispetto
alle accuse che avevano subito, e che pure sono stati rovinati. Alcuni ci hanno
perso la vita, molti la salute. E, dice, Borrelli: si è compiuto questo
misfatto per precipitare nel mondo attuale. Non c’è più ormai un italiano che
non sia consapevole del fatto che la Seconda Repubblica è stata molto peggio
della Prima. La democrazia non sopporta traumi violenti. La democrazia ha
bisogno di continuità, e di cambiamenti frequenti ma non traumatici. La
distruzione del sistema politico della Prima Repubblica, nell’illusione che
distruggere i partiti e in particolare i partiti di governo, avrebbe posto fine
alla corruzione, si è rovesciata nella dimostrazione opposta e contraria: i
partiti non ci sono più, ma la corruzione è enormemente aumentata.
Tra i 47 suicidi, c’erano
Raul Gardini, Sergio Moroni, Gabriele Cagliari, a cui lei dedica le pagine più
intime. Nel frattempo, i suicidi in Italia sono esplosi: molti sono collegati
alla crisi, alla perdita del lavoro, alla rottura dell’identità. Cosa ha spinto questi suoi amici a dirigere il
conflitto contro se stessi?
Vorrei
prima togliere di mezzo un equivoco che c’è sempre di mezzo quando si affronta
il tema del suicidio, e cioè che il suicida sia una persona particolarmente
fragile. L’atteggiamento che hanno dimostrato i magistrati di Mani Pulite – «Che
possiamo farci noi se qualcuno, perché colpevole, si suicida? doveva pensarci
prima»
–,
io lo trovo terrificante. Non bisogna mettere nessun essere umano con le spalle
al muro e inchiodarlo a questa alternativa tragica: salvare il rispetto degli
altri togliendosi la vita, o preservare la propria vita perdendo la dignità.
C’è chi preferisce fare quest’ultimo atto di libertà piuttosto che
sottomettersi a una sanzione ingiusta, tra l’altro comminata prima di ogni
sentenza e prima di ogni processo. Io trovo in questo un enorme valore stoico
che gli antichi conoscevano e di cui si è persa traccia nella società
contemporanea, stretta sotto il dominio della cultura religiosa. E questo è un
paradosso, perché la religione ti dovrebbe aiutare ad affrontare più che la
morte che la vita. Quindi, quello che ho voluto tributare nel mio libro è
l’empatia con questi uomini che decisero di togliersi stoicamente la vita come
gesto estremo di libertà.
Il suo più grande
errore, la cosa che non si può perdonare?
Nel 1992, avevo un
contributo in campagna elettorale da Carlo Sama che non ho avuto il
coraggio di andare a dichiarare (anche
se sarebbe risultato lecito). C’era un tale clima da caccia alle streghe che io
ho avuto paura. E io non mi perdono questa paura, questa viltà, che mi è
costata carissima. Per rimediare, sono andato poi a denunciarmi non più davanti
al questore della Camera ma davanti al magistrato. Sono stato di conseguenza
processato. Non mi sono state riconosciute le attenuanti e mi hanno rifilato una
condanna (di otto mesi) al pari degli altri che non avevano dichiarato
spontaneamente. Esattamente come è successo poi a Bossi. Solo che Bossi ha
spadroneggiato lo stesso. Mentre io mi sono ritirato da tutto. Dopo tanti anni,
nel ’99, mi sono ricandidato al Parlamento Europeo, per lo Sdi. Ma la mia
proposta, che era quella di stare da soli, evidentemente non era più di
moda. I socialisti si erano tutti
sistemati, chi a destra chi a sinistra. E della mia traversata nel deserto
nessuno voleva saperne. Così l’ho fatta da solo.
Si è mai pentito di
aver rinunciato alla carriera universitaria? Se tornasse indietro, sceglierebbe
la filosofia morale e non la politica (immorale)?
Attenzione. Filosofia Morale non deve essere frainteso. In
Italia non c’è la tradizione anglosassone dell’ insegnare l’Etica. Anche se
qualcuno l’ha fatto. Filosofia Morale molti l’hanno intesa come Filosofia
Politica, altri come Antropologia. Per esempio il mio maestro di Remo Cantoni,
fu uno dei primi filosofi italiani a introdurre lo studio dell’antropologia
all’interno della cattedra di Filosofia Morale. Ho avuto qualche volta il
dubbio, non la volontà di tornare indietro. Perché la politica mi ha dato
moltissimo. Mi ha dato il vortice dell’azione, il primato della prassi, che non
è soltanto un principio marxista, ma anche illuminista. La tentazione fu per me
irresistibile. L’attrazione dell’azione, del fare, dell’ingaggiarsi, travolse
ogni difesa. No, non mi sono mai pentito, anche se nella parte finale della mia vita sono portato a
ricongiungermi alle esperienze più giovanili di ricerca e di studio. Considero
conclusa la stagione dell’azione.
Il connubio sesso e
potere è più facilmente combustibile. E’ accattivante. Il connubio potere e
amore (a cui lei dedica molto spazio narrativo) invece è più difficile da narrare.
E richiede più tempo: tempo di scrittura, tempo di lettura.
Negli anni dell’adolescenza ho scoperto insieme la politica
e l’eros. Intendendo per eros non il sesso separato dall’amore, ma la
dimensione erotica, sentimentale dell’esistenza. L’attrazione verso l’altro
sesso l’ho avvertita nello stesso momento in cui ho avvertito la pulsione a
stare con gli altri per fare qualcosa. Quando la politica mi parve un modo per
capire il mondo, anzi di essere al
mondo. Negli anni in cui andavo a scuola a Milano, le classi erano diventate
miste. Poter stare quotidianamente vicino alle ragazze fu una rivoluzione. E fu
anche la scoperta della parità. Perché tanto la democrazia quanto l’amore sono
possibili soltanto tra eguali. Lo dice Stendhal: non c’è amore senza
uguaglianza. E non c’è democrazia senza uguaglianza. Questa ebbrezza
dell’uguaglianza la mia generazione l’ha vissuta per prima. Allora fu una novità
dirompente. Cambiò vertiginosamente il ruolo della donna: da un ruolo consolatorio
ancillare materno e subalterno si arrivò ad un ruolo paritario, e quindi anche
competitivo.
I tempi sono cambiati,
lei qui dice di essere più solo, ma le traversate non si possono mai fare
completamente da soli. Specialmente se si crede ancora ad una alternativa per
il socialismo. D’altro canto, lo dice lei stesso: «La
decadenza non è un destino. E’ qualcosa che abbiamo costruito rinvio dopo
rinvio». Cosa ha lei oggi per frenare la
decadenza?
Per me il socialismo non consiste non è una sorta di
sindacalismo politico. Il sindacato, in Italia e non solo in Italia, difende
gli occupati e i pensionati, cioè coloro che in qualche modo una garanzia ce
l’hanno. Ignora i diritti dei senza diritti. Chi sono i senza diritti? I
giovani disoccupati italiani, Gli immigrati. Stiamo parlando di milioni di
esseri umani, non di segmenti marginali della società. I giovani sono depressi.
Tra gli immigrati, in particolare ci sono i rifugiati, cioè coloro che scappano
da calamità naturali o da Stati in sfacelo e catastrofi politiche. E’ per
questo che nel 2010 ho creato la tv web Lookout. L’idea mi è venuta quando
Maroni, che era il ministro deli Interni, si faceva bello dei respingimenti in
mare aperto delle carrette che trasportavano centinaia di disperati: i boat
people, gente delle barche. Poiché ho fatto la prima legge sull’immigrazione e avevo
creato una società no profit che si chiama Opera e che faceva assistenza legale
e sanitaria agli immigrati, conoscevo le storie che stanno alle spalle di
queste persone. La fuga da paesi come l’Eritrea, la Somalia, l’Etiopia, o anche
la Nigeria, il Sudan, sono terrificanti. I clan familiari che si riuniscono,
eleggono uno tra di loro che si può salvare, fanno la colletta di pochi soldi,
comprano passaggi su qualche camion per attraversare il deserto del Sudan, poi
il deserto libico, subiscono angherie, furti, torture, violenze, stupri...
Finalmente arrivano sulle rive del Mediterraneo, spendono gli ultimi soldi per
trovare posto in una di queste carrette del mare, arrivano in vista dell’agognata
costa italiana di Lampedusa o della Sicilia o della Puglia. E lì compare una
motovedetta militare che li ributta indietro. Costretti a ritornare in Libia, a
subire a ritroso il percorso di umiliazioni e di violenze, per essere infine
ricacciati nella patria dove nel frattempo magari erano stati condannati a
morte. Ecco, tutto questo mi ha sconvolto. Ho protestato, ho dichiarato, ho
gridato tutto quello che potevo. E poi mi sono chiesto cosa avrei potuto fare
di più e di meglio e di più efficace. Cos’ ho pensato che era possibile dar
“voce” a questa gente. Ai rifugiati politici in particolare. Dotandoli di uno
strumento di comunicazione. Ne ho parlato con la Federazione della Stampa, con
l’Ordine dei Giornalisti, ho trovato gli sponsor privati delle fondazioni, ho
elaborato un progetto di formazione giornalistica per alcune decine di
immigrati e rifugiati, e anche per alcuni giovani italiani disoccupati. Ho
creato una redazione a Milano e una a Roma. Abbiamo fatto la formazione in
video-giornalismo. E sono orgoglioso del fatto che due di loro sono diventati
deputati del nuovo Parlamento tunisino, che una ragazza sia diventata
responsabile dell’Ufficio Immigrazione del Comune di Milano, che altri abbiano trovato
impiego presso aziende, e che abbiano continuato la loro attività come blogger
o come collaboratori di altre testate. Adesso vorrei occuparmi di un altro
progetto dedicato ai giovani meridionali, a questo straripante captale umano
che abbiamo e a cui si offre
un’alternativa brutale. Per toglierli da questa alternativa del diavolo -
assistenzialismo o espatrio - il manifesto che vorrei lanciare è questo: “Io
resto al Sud”.
4 commenti:
interessante!
gran bella intervista che avevo comunque letto sul pdf.
ciao
Bellissima. Sarà che noi il 1992 l'abbiamo studiato in lungo e in largo, ma certi pezzi fanno venire i brividi. Rocks
Testo ottimo :)
Voglio rileggermelo...
Jan
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