Che succede se ci si mette in testa di intervistare l’ur-intervistatore d’ Italia: Claudio Sabelli Fioretti, che negli ultimi anni leghiamo alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora (Radio due), ma che ha alle spalle decenni di attività giornalistica nella carta stampata, e diverse direzioni di giornali al suo attivo, tra cui il leggendario Cuore? Succede che si osa l’inosabile, azzardando una specie di meta-intervista sull’arte del fare domande e riscriverle assieme alle risposte. Però, siccome Sabelli (69 anni) non è solo un teorico della forma-intervista, ma anche un uomo ricco di humour, è poi fatale scivolare con lui su terreni più privati, parlando per esempio di una vagheggiata vita da divo – uno che può dire qualunque fesseria e tutti lo guardano estasiato – o della passione di spaccare la legna: come se fosse tutto, come sempre, ancora una volta, e semplicemente anche stavolta, una cosa normale. Una vita normale.
L’intervista è un artefatto. E va lavorata molto. Non mi
piacciono le interviste ruspanti, buttate lì come se fossero naturali. Non
esiste spontaneità in una bella intervista, perché ci vuole tempo e cura.
Ogni tanto io me la
vivo come un pezzo di una pièce teatrale dal finale solo apparentemente noto.
Ci sono quelli che ritengono che l’intervista sia un
incontro-scontro. In tv o in radio, può anche essere. Ma l’intervista scritta
invece deve essere un accordo tra due persone. Durante quelle ore, io tento di
tirar fuori dall’intervistato tutto quello che lui può tirar fuori da se stesso
anche senza saperlo. Più che come un incontro teatrale, lo vedo come un
incontro di analisi. In questo senso, l’intervista assomiglia a una seduta
psicoanalitica.
Vero, ma il materiale
che si accumula nel corso di un’intervista può essere minaccioso nel senso che
non è mai innocuo. Per questo parlavo di densità teatrale: nel senso di non
naturale.
Non lo è, infatti. Ma la cosa importante per me è che
l’intervista finisca in modo che l’intervistato si convinca di avere un
complice e non un nemico.
Può essere però anche
vissuto come un assedio. A Ghedini (le ho contate) lei aveva fatto 106 domande.
Consideri che gli incontri con i miei intervistati in genere
durano quattro, cinque ore. Quindi in realtà ne faccio molte di più. Quelle
sono solo quelle stampate.
Che altro strumento
bisogna tirare fuori dalla cassetta degli attrezzi dell’ur-intervistatore?
Il registratore: io ne uso anche due o tre, per sicurezza.
E’ l’unico modo per restituire le parole reali dell’intervistato. Se prendi
appunti, lo fai con le tue parole, non con le parole dell’intervistato. Mentre
se registri, sei sicuro di trattenere il pensiero e il linguaggio originale.
Per Sette e il Corriere della Sera, facevo sbobinare tutto. Ogni intervista in
media sviluppava 150.000 battute, e dovevo ridurla a circa 10.000. Ci mettevo
una settimana a fare un’intervista che alla fine doveva avere per me un suo
ritmo, una sua forma, una sua composizione interna. Molte domande le aggiungevo
dopo.
Dove si deposita
tutto questo gigantesco materiale sommerso?
Prenderà mai vita altrove?
Ha toccato una questione fondamentale. Ho una quantità
pazzesca di materiale in tutti i supporti – cassette, cassettine, dischi – che
non so come utilizzare. E’ come se componessero un gigantesco cimitero. Una
cosa buona è che ho creato l’archivio dello sbobinato. Lì ci sono per esempio
le cose che hanno voluto che io togliessi, oppure quello che per qualche
ragione oscura è stato scartato senza la volontà di nessuno.
Parlavamo di seduta
psicoanalitica…
E’ bello andarsi a rileggere tutto questo materiale rimosso.
Ma è bello andarsi a rileggere anche le interviste pubblicate. Ogni volta mi
stupisco di quanto fossi bravo.
Quale è il suo
intervistato ideale?
Meglio le donne che gli uomini. Hanno più facilità a
parlare, e soprattutto sono molto più sincere. Gli uomini sono più preoccupati
da come appaiono, da quello che si rappresentano sia giusto dire in
quell’occasione. Infatti i rari casi in cui ho avuto delle storie riguardavano
uomini che non si riconoscevano pienamente in quello che poi avevo scritto,
trascrivendo in realtà quello che avevano detto loro.
La sua attività di
giornalista comincia nel caldo ‘68...
Arrivai da Vetralla a Milano e cominciai curiosamente a
lavorare in un giornale di sport invernale, che si chiamava Neve
Sport. Mio padre faceva il giornalista sportivo. Sono cresciuto in quel
mondo ed è stato naturale cominciare lì. Poco dopo tempo, sono entrato nella
redazione di Panorama. Dopo di che,
sono andato a dirigere Abc. Poi Abc
chiuse e cominciò l’avventura di Repubblica.
Sono stato uno dei fondatori del giornale, nel 1976, ma ci sono rimasto solo
tre mesi.
Curioso, uno fonda
“Repubblica” e ci rimane solo tre mesi.
Si, ma io ero e resto un irrequieto. Poi avevo l’impressione che ci fosse molta
confusione, anche se sbagliavo perché era la confusione classica che accompagna
lo stato nascente di un giornale.
Se ne è mai pentito?
Me ne sono pentito dopo due mesi. Chiesi umilmente a
Scalfari di tornare e lui mi fece rispondere per interposta persona: «Neanche
morto».
E cosa fece a quel
punto?
Cominciò l’esperienza bella di Tempo illustrato che però durò poco. Ero disperato.
La disperazione può
essere la chiave di volta di una trasformazione interessante dell’esistenza?
In quel caso ero disperato, ma in genere io non sono
disperato. Cambio giornali perché sono un irrequieto. In quel caso però, sì, la
disperazione mi aiutò ad essere più coraggioso e a cercare con maggiore
resistenza un posto anche migliore. Così finii all’ Europeo. Poi tornai a Panorama
e fondai assieme a Carlo Rognoni Panorama
mese, che era il più bel giornale del mondo, e quindi andò malissimo,
perché le cose belle durano poco. Poi ci fu Il
secolo XIX a Genova e infine tornai a Milano a dirigere Sette.
E lì nacque la sua
futura carriera di intervistatore.
Si, cominciai a fare interviste in maniera scientifica.
Che tipo di innesto
ha portato invece la radio?
La mia irrequietezza unita alla mia presunzione unita alla
mia curiosità unita alla mia capacità di annoiarmi presto, ha fatto sì che io
mi spostassi qualche anno fa in radio. E in radio ho dovuto imparare tutto di
nuovo, capire quale differenza c’è per esempio tra intervistare qualcuno per la
carta stampata e intervistare qualcuno per la radio. Per dirne una, in radio le
interviste non le puoi fare rileggere.
Perché, quelle per la
carta stampata lei le fa rileggere?
Si, tutte.
Tutte?
Le ho fatte sempre rileggere. Perché ritengo che
l’intervistato abbia diritto di cambiare idea fino all’ultimo. E anch’io. Come lui ha il diritto di migliorare le sue
risposte, io ho il diritto di aggiungere una domanda, comporre diversamente la
risposta che magari era troppo ermetica. D’altro canto, se l’intervistato sa
che si rileggerà, parlerà di più, sarà più generoso.
Quando ad essere
intervistato è lei, ha qualche tema-tabù? Adesso, per esempio, c’è qualcosa di
cui non vorrebbe parlare?
Non c’è un argomento preciso che evito, ma siccome io faccio
questo lavoro in maniera quasi maniacale, ho la tendenza a pretendere che tutti
gli altri lo facciano alla stessa maniera. Per esempio io non gliel’avevo detto
prima, ma sono molto sollevato dal sapere che lei sta registrando questa nostra
conversazione.
Dove vive?
Non si sa. Un po’ a Roma, un po’ a Trento, un po’ a
Bracciano, un po’ in Sicilia.
Cosa legge con più
piacere? Non mi dica i libri-interviste.
Leggo molto per lavoro. Con la radio è diverso, perché
richiede un altro tipo di preparazione. Ma quando preparavo le interviste per
la carta stampata, dovevo leggermi una quantità impressionante di libri, e non
stiamo parlando di Philip Roth, perché non mi capitava di intervistare Philip
Roth ma Emilio Fede. Ero quindi costretto a leggere tutti i libri di Emilio
Fede.
Ma li leggeva
veramente?
E sì. Una cosa
drammatica. Non lo augurerei a nessuno.
E quando non è
costretto, che cosa legge?
I gialli. Soprattutto quelli di Henning Mankel.
Cosa avrebbe fatto se
non avesse fatto questo lavoro?
Sono di natura talmente indeciso e curioso, che da ragazzo
sono andato a iscrivermi a Lettere e
facendo la fila ho cambiato idea e così
mi sono iscritto a Fisica. A Fisica ho frequentato tre lezioni in tutto (una di
analisi matematica, una di geometria analitica e una di chimica), non ci ho
capito niente, ho cambiato di nuovo idea e mi sono iscritto a Scienze
Politiche. Tutta fatica inutile perché alla fine non mi sono laureato. Avendo
cominciato a fare il piccolo giornalista a 15 anni, non ho avuto tempo di
sognare di fare, che so, l’astronauta.
Ci sarà pure qualcosa
in grado di metterla in una condizione
di autentica meraviglia, di stupefazione…Qualche biografia, qualche storia,
qualche vita che non ha vissuto e alla fine avrebbe voluto vivere.
Mi sarebbe piaciuto fare la pop star.
Niente di meno….
Il fatto che ci sia della gente che ti guarda sperando che
tu dica qualcosa, mi riempie di amor proprio esaudito. Mentre sono terrorizzato
dall’idea di svegliarmi un giorno e scoprire che sono un architetto, o peggio
un politico, mi piacerebbe poter salire su un palco, cominciare a cantare da
Dio e a metà interrompermi per raccontare un sogno che ho fatto la notte. Sono
andato vicino a qualcosa del genere quando dirigevo Cuore. Ecco, in quegli anni avevo un bel mucchio di seguaci che
alle feste di Cuore mi guardava come
si guarda il Dalai Lama. La gente rideva senza che io avessi ancora detto
nulla.
C’è un sogno notturno
he adesso vorrebbe raccontare?
Mi piacerebbe, se solo ne ricordassi uno. Però potrei
cantarle una canzone. Ogni mattina mi sveglio con una canzone in testa.
Sempre la stessa?
No, sono sempre diverse. L’altro giorno mi sono svegliato
con in testa “Papaveri e paperi”. In genere sono tutte canzoni orrende. Mi
perseguitano.
Secondo lei, perché
lo fanno?
Non lo so, e vorrei tanto saperlo. Ce l’hanno con me. Sono
la loro vittima.
Glielo devo chiedere
perché è più forte di me. Sono insonne e perseguito tutti con la stessa
domanda. Quante ore dorme a notte?
Sette.
Ma sono tantissime!
Ma qualche volta anche quattro o cinque.
Ah, okay allora.
Ci sono sempre delle ragioni che uno si inventa per dormire
poco.
Spacco legna.
Cosa?
Beh, l’interpretazione del mio spaccar legna non è
difficile. Di quello che si ascolta in radio tutti si dimenticano subito, gli
articoli che si leggono sul giornale al massimo durano un giorno, poi ci si
incarta il pesce con il giornale. Tutto quello che facciamo noi scompare. E
invece la legna la seghi, la spacchi e l’accatasti, poi ti volti e hai fatto
una catasta. La puoi vedere! Il prodotto della tua attività è quella
catasta. Resta lì, non se ne va, a meno
che non sia tu a volerla spostare. Quando accatasto dieci metri cubi di legna
per me è una gioia immensa. Niente è paragonabile a quella gioia.
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