martedì 8 ottobre 2013

L'arte dell'intervista. Parla Claudio Sabelli Fioretti


Che succede se ci si mette in testa di intervistare l’ur-intervistatore d’ Italia: Claudio Sabelli Fioretti, che negli ultimi anni leghiamo alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora (Radio due), ma che ha alle spalle decenni di attività giornalistica nella carta stampata, e diverse direzioni di giornali al suo attivo, tra cui il leggendario Cuore?  Succede che si osa l’inosabile, azzardando una specie di meta-intervista sull’arte del fare domande e riscriverle assieme alle risposte. Però, siccome Sabelli (69 anni)  non è solo un teorico della forma-intervista, ma anche un uomo ricco di humour, è poi fatale scivolare con lui su terreni più privati, parlando per esempio di una vagheggiata vita da divo uno che può dire qualunque fesseria e tutti lo guardano estasiato o della passione di spaccare la legna: come se fosse tutto, come sempre, ancora una volta, e semplicemente anche stavolta, una cosa normale. Una vita normale.


Dopo averla raffinata in 45 anni di esperienza, come definirebbe la forma-intervista? La possiamo chiamare un’arte?
L’intervista è un artefatto. E va lavorata molto. Non mi piacciono le interviste ruspanti, buttate lì come se fossero naturali. Non esiste spontaneità in una bella intervista, perché ci vuole tempo e cura.

Ogni tanto io me la vivo come un pezzo di una pièce teatrale dal finale solo apparentemente noto.
Ci sono quelli che ritengono che l’intervista sia un incontro-scontro. In tv o in radio, può anche essere. Ma l’intervista scritta invece deve essere un accordo tra due persone. Durante quelle ore, io tento di tirar fuori dall’intervistato tutto quello che lui può tirar fuori da se stesso anche senza saperlo. Più che come un incontro teatrale, lo vedo come un incontro di analisi. In questo senso, l’intervista assomiglia a una seduta psicoanalitica.

Vero, ma il materiale che si accumula nel corso di un’intervista può essere minaccioso nel senso che non è mai innocuo. Per questo parlavo di densità teatrale: nel senso di non naturale.
Non lo è, infatti. Ma la cosa importante per me è che l’intervista finisca in modo che l’intervistato si convinca di avere un complice e non un nemico.

Può essere però anche vissuto come un assedio. A Ghedini (le ho contate) lei aveva fatto 106 domande.
Consideri che gli incontri con i miei intervistati in genere durano quattro, cinque ore. Quindi in realtà ne faccio molte di più. Quelle sono solo quelle stampate.

Che altro strumento bisogna tirare fuori dalla cassetta degli attrezzi dell’ur-intervistatore?
Il registratore: io ne uso anche due o tre, per sicurezza. E’ l’unico modo per restituire le parole reali dell’intervistato. Se prendi appunti, lo fai con le tue parole, non con le parole dell’intervistato. Mentre se registri, sei sicuro di trattenere il pensiero e il linguaggio originale. Per Sette e il Corriere della Sera, facevo sbobinare tutto. Ogni intervista in media sviluppava 150.000 battute, e dovevo ridurla a circa 10.000. Ci mettevo una settimana a fare un’intervista che alla fine doveva avere per me un suo ritmo, una sua forma, una sua composizione interna. Molte domande le aggiungevo dopo.

Dove si deposita tutto questo gigantesco materiale sommerso?  Prenderà mai vita altrove?
Ha toccato una questione fondamentale. Ho una quantità pazzesca di materiale in tutti i supporti – cassette, cassettine, dischi – che non so come utilizzare. E’ come se componessero un gigantesco cimitero. Una cosa buona è che ho creato l’archivio dello sbobinato. Lì ci sono per esempio le cose che hanno voluto che io togliessi, oppure quello che per qualche ragione oscura è stato scartato senza la volontà di nessuno.

Parlavamo di seduta psicoanalitica…
E’ bello andarsi a rileggere tutto questo materiale rimosso. Ma è bello andarsi a rileggere anche le interviste pubblicate. Ogni volta mi stupisco di quanto fossi bravo.

Quale è il suo intervistato ideale?
Meglio le donne che gli uomini. Hanno più facilità a parlare, e soprattutto sono molto più sincere. Gli uomini sono più preoccupati da come appaiono, da quello che si rappresentano sia giusto dire in quell’occasione. Infatti i rari casi in cui ho avuto delle storie riguardavano uomini che non si riconoscevano pienamente in quello che poi avevo scritto, trascrivendo in realtà quello che avevano detto loro.

 La sua attività di giornalista comincia nel caldo ‘68...
Arrivai da Vetralla a Milano e cominciai curiosamente a lavorare in un giornale di sport invernale, che si chiamava  Neve Sport. Mio padre faceva il giornalista sportivo. Sono cresciuto in quel mondo ed è stato naturale cominciare lì. Poco dopo tempo, sono entrato nella redazione di Panorama. Dopo di che, sono andato a dirigere Abc. Poi Abc chiuse e cominciò l’avventura di Repubblica. Sono stato uno dei fondatori del giornale, nel 1976, ma ci sono rimasto solo tre mesi.

Curioso, uno fonda “Repubblica” e ci rimane solo tre mesi.
Si, ma io ero e resto un irrequieto.  Poi avevo l’impressione che ci fosse molta confusione, anche se sbagliavo perché era la confusione classica che accompagna lo stato nascente di un giornale.

Se ne è mai pentito?
Me ne sono pentito dopo due mesi. Chiesi umilmente a Scalfari di tornare e lui mi fece rispondere per interposta persona: «Neanche morto».

E cosa fece a quel punto?
Cominciò l’esperienza bella di Tempo illustrato che però durò poco. Ero disperato.

La disperazione può essere la chiave di volta di una trasformazione interessante dell’esistenza?
In quel caso ero disperato, ma in genere io non sono disperato. Cambio giornali perché sono un irrequieto. In quel caso però, sì, la disperazione mi aiutò ad essere più coraggioso e a cercare con maggiore resistenza un posto anche migliore. Così finii all’ Europeo. Poi tornai a Panorama e fondai assieme a Carlo Rognoni Panorama mese, che era il più bel giornale del mondo, e quindi andò malissimo, perché le cose belle durano poco. Poi ci fu Il secolo XIX a Genova e infine tornai a Milano a dirigere Sette.

E lì nacque la sua futura carriera di intervistatore.
Si, cominciai a fare interviste in maniera scientifica.

Che tipo di innesto ha portato invece la radio?
La mia irrequietezza unita alla mia presunzione unita alla mia curiosità unita alla mia capacità di annoiarmi presto, ha fatto sì che io mi spostassi qualche anno fa in radio. E in radio ho dovuto imparare tutto di nuovo, capire quale differenza c’è per esempio tra intervistare qualcuno per la carta stampata e intervistare qualcuno per la radio. Per dirne una, in radio le interviste non le puoi fare rileggere.

Perché, quelle per la carta stampata lei le fa rileggere?
Si, tutte.

Tutte?
 Le ho fatte sempre rileggere. Perché ritengo che l’intervistato abbia diritto di cambiare idea fino all’ultimo. E anch’io.  Come lui ha il diritto di migliorare le sue risposte, io ho il diritto di aggiungere una domanda, comporre diversamente la risposta che magari era troppo ermetica. D’altro canto, se l’intervistato sa che si rileggerà, parlerà di più, sarà più generoso.

Quando ad essere intervistato è lei, ha qualche tema-tabù? Adesso, per esempio, c’è qualcosa di cui non vorrebbe parlare?
Non c’è un argomento preciso che evito, ma siccome io faccio questo lavoro in maniera quasi maniacale, ho la tendenza a pretendere che tutti gli altri lo facciano alla stessa maniera. Per esempio io non gliel’avevo detto prima, ma sono molto sollevato dal sapere che lei sta registrando questa nostra conversazione.

Dove vive?
Non si sa. Un po’ a Roma, un po’ a Trento, un po’ a Bracciano, un po’ in Sicilia.

Cosa legge con più piacere? Non mi dica i libri-interviste.
Leggo molto per lavoro. Con la radio è diverso, perché richiede un altro tipo di preparazione. Ma quando preparavo le interviste per la carta stampata, dovevo leggermi una quantità impressionante di libri, e non stiamo parlando di Philip Roth, perché non mi capitava di intervistare Philip Roth ma Emilio Fede. Ero quindi costretto a leggere tutti i libri di Emilio Fede.

Ma li leggeva veramente?
E sì.  Una cosa drammatica. Non lo augurerei a nessuno.

E quando non è costretto, che cosa legge?
I gialli. Soprattutto quelli di Henning Mankel.

Cosa avrebbe fatto se non avesse fatto questo lavoro?
Sono di natura talmente indeciso e curioso, che da ragazzo sono andato a iscrivermi a Lettere  e facendo la fila ho cambiato idea  e così mi sono iscritto a Fisica. A Fisica ho frequentato tre lezioni in tutto (una di analisi matematica, una di geometria analitica e una di chimica), non ci ho capito niente, ho cambiato di nuovo idea e mi sono iscritto a Scienze Politiche. Tutta fatica inutile perché alla fine non mi sono laureato. Avendo cominciato a fare il piccolo giornalista a 15 anni, non ho avuto tempo di sognare di fare, che so,  l’astronauta.

Ci sarà pure qualcosa in grado di metterla  in una condizione di autentica meraviglia, di stupefazione…Qualche biografia, qualche storia, qualche vita che non ha vissuto e alla fine avrebbe voluto vivere.
Mi sarebbe piaciuto fare la pop star.

Niente di meno….
Il fatto che ci sia della gente che ti guarda sperando che tu dica qualcosa, mi riempie di amor proprio esaudito. Mentre sono terrorizzato dall’idea di svegliarmi un giorno e scoprire che sono un architetto, o peggio un politico, mi piacerebbe poter salire su un palco, cominciare a cantare da Dio e a metà interrompermi per raccontare un sogno che ho fatto la notte. Sono andato vicino a qualcosa del genere quando dirigevo Cuore. Ecco, in quegli anni avevo un bel mucchio di seguaci che alle feste di Cuore mi guardava come si guarda il Dalai Lama. La gente rideva senza che io avessi ancora detto nulla.

C’è un sogno notturno he adesso vorrebbe raccontare?
Mi piacerebbe, se solo ne ricordassi uno. Però potrei cantarle una canzone. Ogni mattina mi sveglio con una canzone in testa.

Sempre la stessa?
No, sono sempre diverse. L’altro giorno mi sono svegliato con in testa “Papaveri e paperi”. In genere sono tutte canzoni orrende. Mi perseguitano.

Secondo lei, perché lo fanno?
Non lo so, e vorrei tanto saperlo. Ce l’hanno con me. Sono la loro vittima.

Glielo devo chiedere perché è più forte di me. Sono insonne e perseguito tutti con la stessa domanda. Quante ore dorme a notte?
Sette.

Ma sono tantissime!
Ma qualche volta anche quattro o cinque.

Ah, okay allora.
Ci sono sempre delle ragioni che uno si inventa per dormire poco.

Per diletto cosa fa?
Spacco legna.

Cosa?
 Beh, l’interpretazione del mio spaccar legna non è difficile. Di quello che si ascolta in radio tutti si dimenticano subito, gli articoli che si leggono sul giornale al massimo durano un giorno, poi ci si incarta il pesce con il giornale. Tutto quello che facciamo noi scompare. E invece la legna la seghi, la spacchi e l’accatasti, poi ti volti e hai fatto una catasta. La puoi vedere! Il prodotto della tua attività è quella catasta.  Resta lì, non se ne va, a meno che non sia tu a volerla spostare. Quando accatasto dieci metri cubi di legna per me è una gioia immensa. Niente è paragonabile a quella gioia.




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