mercoledì 11 settembre 2013

Gianmarco Tognazzi, ovvero l'arte della gioia


All’inizio c’è un fotogramma spiazzante, segreto: Ugo Tognazzi che va a cercare un rabdomante (dove si trova un rabdomante, a che indirizzo sta?) per chiedergli di indicargli il punto giusto in cui scavare per identificare, sotto la vigna, la benedetta falda acquifera data da tutti per inesistente. A Velletri, negli anni Sessanta e Settanta, non si potevano coltivare ortaggi perché c’era una erogazione d’acqua talmente limitata che, come ricordava Ugo, «bastava appena a lavarsi la faccia». Ma lui credette alle voci isolate di alcuni contadini e l’acqua a un certo punto uscì fuori, rigogliosa. Il resto è storia del costume: le cene dei dodici apostoli (Gassman, Ferrei, Monicelli, Salce erano gli ospiti fissi) a casa Tognazzi, dove non mancavano le bottiglie di olio e di vino autoprodotte, e poi i tornei di tennis che chi lo vinceva si portava a casa “lo scolapasta d’oro” e, insomma, “la vita naturale”. Per Gianmarco Tognazzi, che nasceva (1967) negli anni in cui suo padre si inventata tutto questo e che aveva 23 anni alla morte del grande attore, adesso che è a sua volta padre, tutto ciò rappresenta non solo un ricordo, ma una missione. In genere, se cresci con un genitore così, hai due scelte: o scappi a gambe levate rifugiandoti nella metropoli, oppure fai un quotidiano atto di ringraziamento alla vita. Nel caso di Gianmarco, “La Tognazza Amata”, l’azienda agricola che il padre aveva in sogno di realizzare, è diventata la sua ragione di vita: da tre anni è diventata una realtà che sta viaggiando oltreoceano. A questo punto per lui fare l’attore è diventato quasi un hobby. A distanza di anni, la storia si ripete. Ed è una storia di una famiglia molto particolare che ha coltivato con tutti i mezzi inventati e ricreati un’unica grande arte: l’arte della gioia.
Gianmarco, quindi lei oggi fa più il contadino che l’attore
In un certo senso, è così. Vivo a Velletri con tutta la famiglia. Tutto è partito come un omaggio a Ugo: volevo ripristinare l’etichetta che aveva inventato lui. L’azienda agricola che aveva pensato Ugo in realtà era pensata per se stesso la sua famiglia e i suoi amici. La mia idea è stata quella di portare il vino della Tognazza sulle tavole non solo dei suoi amici ma del suo pubblico, di tutti coloro (e sono ancora oggi tantissimi) che hanno sviluppato una fiducia assoluta nei confronti di Ugo e delle sue brillanti intuizioni.  Siamo nati otto anni fa, ma solo da tre anni che l’azienda funziona in maniera più strutturata, facendo anche da garante per altre piccole aziende che fanno prodotti nel modo in cui lo intendiamo noi. Adesso siamo arrivati anche all’estero.  Questa settimana partono 10.000 bottiglie per Miami!...E’ evidente che mio padre è stato un antesignano del biologico. Voleva tornare alla terra e all’orto quando c’era il diktat dei supermarket. La sua filosofia era che bisognava avere il controllo del prodotto, quello che poi è diventato un must. D’altro canto Ugo aveva avuto intuizioni forti su tutto: dai tornei di tennis fino alle partite di calcio della Nazionale attori, cose che poi sono entrate nel costume quindici anni dopo.
Nella Nazionale attori c’erano anche le donne, vero?
La prima nazionale attori Ugo la fece con Vianello, mettendo dentro anche le ballerine della rivista, perché non c’erano abbastanza giocatori. E poi la portò a Marino con Pier Paolo Pasolini. Mi sembra fosse il ’67.
L’anno in cui nasceva lei.
Si, tutto accadeva in quegli anni lì. Ed io sono cresciuto dentro un modello di vita che ha significato anche accettare l’idea di famiglia allargata. Ugo è stato uno dei primi ad introdurre l’idea che si potesse avere storie con donne diverse da cui sarebbero nati figli diversi che un giorno avrebbero potuto avere un buon rapporto fra di loro senza farsi la guerra. Credo che tutti noi abbiamo qualcosa di Ugo nel nostro dna. Basti dire che tutti i figli e tutti i nipoti di qualunque nazione anche nati da madri differenti hanno la stessa espressività negli occhi: tutti, ma proprio tutti, dai miei figli ai figli di Thomas alla figlia di Ricky…E devo dire che c’è un imprinting genetico forte che c’è anche nel codice genetico comportamentale, nella filosofia di vita. Mio padre non è stato un padre canonico che ci diceva cosa era bene e cosa era male. Si faceva osservare, tutto qui. Nel bene e nel male, ammetteva anche in maniera spiazzante anche i suoi errori, per questo ci ha insegnato a rischiare.
Perché Tognazza al femminile?
Perché era una azienda agricola e un’azienda agricola si suppone che sia al femminile. E perché mio padre non disdegnava di storpiare il suo cognome senza avere paura che si capisse che fosse lui. Il vino Tognazzi? No, lui non voleva questo, se ne fregava. Lui voleva la “Tognazza amata”. La cantina amata.
Amata?
Si, questa era l’etichetta originaria. Per farle capire l’amore che mio padre poteva nutrire per questo sogno. Un’etichetta che ha disegnato lui su un foglio di carta e che fin dal 1969 veniva usata dal nostro contadino per incollarla sulle bottiglie (non poche) che facevamo a casa per puro uso domestico. Ugo si divertiva a sfidarsi continuamente: ci ha insegnato l’arte della trasparenza e del rischio. Io spero che questi comportamenti possano essere ereditati anche dai miei figli.
E loro, i bambini, sono contenti di stare in campagna?
Il piccolo, Tommaso Ugo,  ha solo un anno, Andrea Viola che ha sei anni e mezzo sì, per ora è contenta….Naturalmente so che potrà avere ad un certo punto lo stesso smarrimento, o alienazione, che ho provato io quando a sedici anni mi sono trovato a Velletri e invece volevo, come tutti gli adolescenti, vivere la metropoli. Mi ricordo che mi mancava tanto la vita sociale. Sono dovuto scappare da Velletri, dove da adulto però sono voluto fortissimamente ritornare con la mia famiglia.
 In “Niente può fermarci” di Luigi Cecinelli lei interpreta il padre inflessibile di un ragazzo affetto da sindrome di Tourette.
Si, e la cosa divertente è che io nel film rappresento un uomo di potere con questo “problema” del figlio che ha l’abitudine di mandare tutti a quel paese. Ad un certo punto il ragazzo, assieme ad altri figli considerati “patologici”, fuggirà ad Ibiza. Per scappare a ogni controllo parentale e sociale. Quello che si vuole dire è che sono più i genitori a vivere male le patologie dei figli, mentre i ragazzi ci convivono benissimo.
Lei come genitore è apprensivo?
Si, lo sono, però soltanto per quello che riguarda il dolore fisico. Quando si fanno male impazzisco. Lo so, è un paranoia tutta mia.
A teatro, è il “nemico del popolo” …
Si, ad aprile  Riprendo Un nemico del popolo di Ibsen. La produzione non aveva adempiuto ai propri obblighi e lo spettacolo si era fermato per un anno e mezzo. Gli artisti e i tecnici se lo sono ripreso, e lo rifaremo alla Sala Umberto con una nuova produzione, sempre con la regia di Armando Pugliese. Un nemico del popolo è ambientato in Italia nella prima metà degli anni Settanta: per fare capire che dal 1890 ad oggi non è cambiato niente, e Norvegia o Italia poco importa. Io interpreto un medico sanitario di un centro sanitario: una volta scoperto che le acque delle terme sono inquinate, denuncia il fatto al proprio fratello, che quelle terme aveva fatto costruire e che è ora sindaco della città. Ma siccome gli interessi sono più forti della salute dei cittadini, il sindaco si allea con gli altri notabili e minaccia di licenziare il fratello medico se si ostina a voler tirar fuori la verità. Insomma, chi ha il coraggio di denunciare diventa il nemico della città.  C’è un implicito discorso sulla maggioranza che preferisce schierarsi con gli interessi e non con la buona fede.
Lei è un tipo “incazzoso”?
Diciamo che di fronte alle cose ingiuste mi incazzo molto.  Per questo “Nemico del popolo” mi rappresenta. Un uomo che denuncia una cosa per il bene collettivo e poi viene accusato, è lo specchio della nostra società.  Già il titolo che ha voluto dare Ibsen è di per sé paradossale e significativo di come vanno le cose in questo mondo…Come può essere nemico del popolo uno che pensa al bene collettivo e poi diventa il capro espiatorio?
C’è qualcosa che le fa paura, che difficilmente controlla?
Ci sono cose che mi fanno paura adesso che non mi facevano paura prima. Sarà banale dirlo, ma non sei più al centro della tua vita una volta che sono nati i tuoi figli. E mi preoccupa cosa vedranno e vivranno. Mi fanno paure tante cose di questo Paese che non mi sembra abbiano una logica. Non voglio fare un discorso politico, perché questa mancanza di logica non riguarda una sola area politica. Noi italiani abbiamo un’ evidente difficoltà nei confronti del cambiamento. Non vogliamo cambiare nulla. In teoria siamo tutti d’accordo, in pratica non ce la facciamo.
Tognazzi, Mastroianni, Gassman, hanno trovato autori in grado di leggere le trame complesse dei loro volti e dei loro mondi interiori. Oggi non sembra più esserci quel tipo di alleanza creativa….
Quel mondo lì, quel periodo specifico, quel tipo di evoluzione sociale, dava peso misura e spazio ai talenti, ma stiamo parlando di un Paese che usciva dalla guerra, da una privazione,  e che stava rinascendo. Con un entusiasmo collettivo di industrializzazione che non ha niente a che vedere con il presente. Quindi i paragoni secondo me non vanno fatti…Anche se oggi ci fossero grandi autori e grandi attori (e ce ne sono), non uscirebbero comunque fuori, perché non ci sono le stesse condizioni. Ugo si riteneva molto fortunato ad aver vissuto quei decenni lì, dal dopoguerra al 1985. Perché sono stati gli anni di maggiore sviluppo dell’industria cinematografica (quando era un’industria appunto) e l’attore era visto come una star.
Frequenta gli altri colleghi attori?
Poco. Non vivendo a Roma, non partecipo quasi mai a eventi mondani. Sembra tutto più difficile ma è assurdo. Come mai oggi che ci sono i cellulari fai più fatica a prendere un appuntamento rispetto a quando c’era il telefono fisso? Comunichiamo molto meno. A casa di mio padre veniva chiunque per il torneo di tennis e quasi nemmeno ci si telefonava, oppure si usava il telefono di casa, che non squillava tutto il giorno. C’era un movimento, una volontà, una interazione costante. Lo spirito era diverso.
E quale è la cosa bella del vivere oggi?
La cosa bella del vivere oggi è l’essere costretti a inventarsi delle soluzioni per tornare a vivere meglio. Ci si può anche divertire nelle difficoltà a cercare di uscirne. Io non voglio passare per un pessimista retrò.
In realtà, lei non fa che parlare di entusiasmo. L’entusiasmo non è né del passato né del presente. E’ una qualità umana.
All’interno della nostra famiglia, c’è sempre stato un grande entusiasmo, una grande voglia di condividere. Il problema è che quando esci, poi riporti con te parte della negatività e della rassegnazione che trovi fuori e ti può accadere di contaminare così il tuo ambiente naturale.
Tutta questa avventura si può intitolare  “l’arte della gioia alla Tognazza”?
L’arte della gioia, certo. Che vuol dire gioia di condividere, di essere dissacranti, anticonformisti e autoironici.
Non abbiamo parlato della cucina.
L’altro sogno è quello di fare a Velletri il ristorante non solo con i prodotti della Tognazza ma anche con le ricette di Ugo, magari rielaborate…
Lei cucina?
Certo che cucino. Che domande? Non sarei figlio di Ugo.
E sui piatti manterrete gli stessi suoi giudizi dissacranti di suo padre?
Perché no? “Ottimo, buono, mediocre, cagata, grandissima cagata”…
(Pubblicato su "Gli Altri)

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