martedì 17 febbraio 2015

Vilks e Charlie Hebdo: limiti e libertà della satira, là dove entra in scena la pìetas





Era Lars Vilks il bersaglio dell’angosciante attentato di Copenaghen di fronte al caffè in cui si stava discutendo di Charlie Hebdo e dell’Islam. Come riferisce la Cnn, il disegnatore è stato trasferito in un luogo segreto, ma prima di scomparire aveva fatto in tempo a commentare: «Sono preparato a cose del genere, e anche la mia scorta. Ho ricevuto molte minacce di morte». Qualche anno fa, il vignettista danese aveva disegnato il volto di Maometto sul corpo rinsecchito di un cane. L’attenzione del lettore sarebbe dovuta andare sulla scritta “Islam means human & animal rights”. Ma non è così. L’immagine penosa, mortificante, del profeta/animale si prende tutto. Vilks aveva anche disegnato un maiale che leggeva il Corano.  Le sue vignette non fanno tanto ridere: il cane affamato che si aggira in una strada polverosa con la faccia del profeta lascia una infinita depressione addosso. E ci sembra difficile che possa spingere qualcuno a farsi delle domande sui diritti umani (e animali).  L’osservazione potrebbe restare in un ambito estetico, se non fosse in ballo oggi una questione molto più grande di noi, che non può chiudersi nel trito ritornello della difesa della «libertà d’espressione»: «Tutti devono prendere posizione al riguardo»  ha detto Vilks, aggiungendo: «L’Islam deve essere aperto alla discussione, all’idea che si possa essere anche insultati».  
Quello che è accaduto in Danimarca è orribile, come è mostruosa la strage del 7 gennaio nella redazione di Charlie Hebdo, a Parigi. Ma ci pone tutti davanti ad un problema molto serio, che concerne i limiti, appunto, della libertà d’espressione. Perché mai i credenti di qualunque religione dovrebbero essere così aperti all’insulto? 
Intanto, i sopravvissuti di Charlie Hebdo continuano il silenzio stampa. Il settimanale satirico francese ha infatti sospeso le pubblicazioni per tre settimane per ritornare in edicola il prossimo 25 febbraio.:  «Per ora dobbiamo stare a casa, abbiamo bisogno di raccoglierci. Ora è il momento di riflettere, individualmente e collettivamente» aveva detto il caporedattore di Charlie, Gerard Biard. «Bisogna superare il trauma , misurare lo sforzo che ha significato pubblicare il giornale tre giorno dopo l’attentato – aveva aggiunto l’avvocato Thevenet – Mentre disegnavano, piangevano! Nessuno può uscire indenne da una cosa così». Sono parole importanti, che registrano non un cedimento ma un silenzio che parla di dolore, una pausa nella sequenza allucinata che ha incollato subito al crimine la troppo esibita magnanimità dei nuovi finanziatori verso il giornale decimato.
Questo silenzio dei sopravvissuti di Charlie Hebdo è significante. Porta con sé un frammento di tutta quella carta e di tutto quel sangue, di quell’atroce vuoto,  che la prima fotografia scattata dopo il massacro nella redazione di Parigi aveva impresso.  Come era tracciata dal dolore la prima  copertina di Charlie Hebdo dopo il massacro. Un Maometto che piange e dice: «Tutto sarà perdonato». Molto diversa da altre vignette esasperanti che nel passato i vignettisti di Charlie Hebdo avevano disegnato, nella indifferenza  di tutti (tranne che dei fondamentalisti).
Ed è di questa pietas, di questo raccoglimento, di questa nuova commozione – di fronte non soltanto ai “nostri” ma a tutti gli altri morti, anche a quelli che non sono ”nostri” – che oggi sembriamo avere più bisogno. Di una pausa dopo il trauma. E non siamo convinti che «i musulmani debbano accettare di essere insultati», come dice Vilks. 
Qualche giorno fa, abbiamo pubblicato la foto di un bambino musulmano che in un corteo anti Charlie Hebdo, a Londra, issava un cartello in cui citava le parole del Papa sui limiti del laicismo. «Chi insulta la fede si aspetti un pugno» aveva detto Bergoglio, condannando senza possibilità di equivoco l’atto terroristico. (Anche se poi a un insulto sarebbe giusto rispondere con un segno di pace e non con una ulteriore aggressione). 
Una foto che ci fa intravedere l’uso antilibertario delle parole di un Pontefice che parla, più drammaticamente, di hybris e, per contrasto, di quel senso del limite che i greci consideravano fondativo di ogni civiltà. Ma questo sta anche, e soprattutto, a noi, capirlo.
(Pubblicato sul "Garantista")

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