Di film basati su pièce teatrali ne
abbiamo visti tanti. Spesso belli. Qualche volta meccanici. Per fare un
esempio, Carnage di Roman Polanski
perfezionava l’opera di partenza, Il dio
della carneficina di Jasmina Reza, oscurando l’ideologia di base nel
dialogo vissuto come un corpo a corpo tra attori. Faceva parte delle “messe in
scena” filmiche di un testo concepito per il teatro. C’è poi un altro genere di
film: prendiamo Anna Karenina di Joe
Wright, che concentra la materia romanzesca in una geometria delle passioni che
scorre lungo i binari di un treno ricostruito in teatro. Seducente.
Spettacolare.
Birdman è un’altra cosa
ancora. Il capolavoro di Alejandro Gonzales Inarritu - due Golden
Globe come migliore sceneggiatura e migliore attore, ben 9 nomination agli
Oscar (l’attesa cerimonia si terrà il 22 febbraio) -, non mette in scena
qualcosa di scritto in forma teatrale né fa un uso scenografico della materia
drammatica, ma diventa esso stesso teatro. In un senso radicale, diremmo
originario.
Non è una questione di pura
ambientazione. Inarritu agisce ogni
luogo del teatro di Broadway in cui colloca i movimenti dei suoi personaggi,
dando luogo a un labirinto di specchi dove i protagonisti ingaggiano una
estenuante lotta per l’esistenza, scatenandosi gli uni contro gli altri,
ma combattendo anche tra le diverse parti del Sé. Psicoanalitico, certo,
ma non in senso descrittivo. Qui le cose accadono
in senso conoscitivo. E accadono in un teatro, inteso come un voluminoso e
frastagliato corpo anatomico che permette, identificazione, straniamento e
catarsi.
Ogni luogo diventa significante: il
palcoscenico, la platea, il retropalco, il botteghino. Il film inizia in
camerino: Riggan Thomson (fantastico Michael Keaton) è capace di lievitare e
spostare oggetti con il pensiero. Ma è soprattutto in questo spazio intimo,
raccolto, che si rivela l’Altro: la voce di Birdman,
il supereroe che per tanti anni ha interpretato sul grande schermo, che ha
fatto di lui una celebrità ma di cui a questo punto del tempo Riggan vuole
liberarsi, non riuscendoci fino in fondo. Altro spazio fondamentale è,
ovviamente, il palcoscenico. Qui si sta provando Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, la pièce che Riggan
Thomson ha adattato partendo dai racconti di Carver, ritagliandosi il ruolo di
regista e di attore, accanto ad altri tre interpreti, tutti legati anche da
relazioni amorose. Con questo debutto Riggan si gioca la carriera: vuole
dimostrare al mondo di essere capace di lasciare un segno responsabile, “alto”,
e non puramente commerciale.
Broadway è il sogno anche delle altre
due attrici che recitano con lui (Naomi Watts ed Andrea Riseborough). L’unico che viene dal teatro è Mike (Edward Norton), che
“l’uomo-uccello” ha fortissimamente voluto in compagnia perché gli assicura
prestigio ma con cui ingaggia una competizione all’ultimo sangue.
Nelle tre anteprime che precedono il
debutto, sul palcoscenico si riversa quella sgrammaticata verità degli esseri
umani che nasce da Carver, in variazioni da capogiro. Da quel palcoscenico, si
avverte poco il pubblico, fino al giorno della prima. Ed è qui che accade
qualcosa di fatale. Il protagonista interpreta il suo monologo conclusivo
ferendosi veramente e finendo all’ospedale. Perché nel frattempo, in quei
lunghissimi tre giorni, il supereroe che è voluto diventare umano ha misurato
quanto possa far male cercare a qualunque costo l’accettazione dell’altro. Nei
passaggi intricatissimi dal camerino al palcoscenico, lungo le scale, i
personaggi sono risucchiati da forze oscure che non sono fuori ma dentro di
loro, e di cui Inarritu rende conto in un ininterrotto piano sequenza che
resterà nella nostra scatola della memoria per molto tempo. I pochi esterni del
film, anche quelli, riconducono al percorso di sdoppiamento e rifrazione nello
sguardo dell’altro.
Nel pub adiacente al teatro, i
protagonisti dialogano con la temibile critica del New York Times (Tabitha Dickinson) portatrice di uno sguardo che uccide: con le sue recensioni,
ha il potere (a sua volta facilmente smontabile) di distruggere quel fragile io
dell’artista che nel farsi del teatro si va continuamente costruendo e
ricostruendo.
Un altro spazio simbolico è
rappresentato dal grande terrazzo sopra l’edificio teatrale, dove Mike si
incontra con la giovane figlia di Riggan, Sam (Emma Stone), ragazza scombinata
e sensibile: da quel punto dello spazio si è molto vicini al cielo e si guarda
la strada (ma dall’alto). La traiettoria verticale, d’altro canto, incide
profondamente il tessuto semantico di questa opera che dà alla testa: Riggan
era l’uomo uccello della grande industria cinematografica, e tale ridiventerà,
ma in un modo diverso, creaturale, dopo aver acquisito una reale capacità
di volare che solo l’estenuante lavoro teatrale a cui si è costretto gli può
dare.
I personaggi e gli innesti del film
sono tanti, ma quello che ci interessa è concentrarci sui dispositivi della
visione che lo spazio scenico in sé mette in campo.
E veniamo a Carver. Inarritu non
sceglie un testo formalmente teatrale, si affida piuttosto a un autore che usa
le figure della drammaturgia e i luoghi dell’arte scenica per dire come è fatto
un uomo, come funziona la sua testa, come pensa, come ama, come si vede e come
vorrebbe esser visto, un uomo.
Il racconto originario che dà origine a
quella reiterata scena che gli interpreti di Birdman
provano provano sull’aureo palcoscenico di Broadway si intitola Principianti:
il famoso editor di Carver, Gordon Lish, volle poi ridurlo e farlo confluire in
una nuova raccolta dal titolo Che cosa
parliamo quando parliamo d’amore (sta per uscire in una nuova edizione Einaudi).
Nel testo, la frase viene pronunciata da Herb (nel film Mike, il
personaggio di Edward Norton): «Ci dovrebbe far vergognare, quando parliamo,
come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore». (Ricordiamo
che il sottotitolo del film di Inarritu è “L’imprevedibile virtù
dell’ignoranza”).
Nel racconto ci sono quattro tipi
seduti a tavola, sono due coppie, una più giovane dell’altra. Si parla della
metamorfosi delle storie d’amore, si parla della crudeltà, dell’ipocrisia,
della follia, dei giuramenti che si riveleranno falsi, anche se all’inizio
erano veri, ma verranno inevitabilmente logorati dall’odiosa azione del tempo,
che è conformista.
Nelle parole di Herb ci sono frequenti
rimandi alla scena e alla drammaturgia spesso inconscia dei fatti della vita,
che rivela sempre e solo la nostra inadeguatezza: «Secondo me, siamo tutti nient’altro
che principianti, in fatto d’amore» (ancora una volta “la virtù
dell’ignoranza”).
Noi tutti non sappiamo dove andiamo.
Eppure andiamo. Facciamo gli attori. Dirigiamo gli altri. Cerchiamo ogni giorno
di mettere in scena, di trovare una forma, alle nostre mille pulsioni
psichiche. Lo facciamo per non impazzire.
In un altro stupefacente racconto di
Carver, Che fine hanno fatto tutti?,
il narratore, descrivendo la sua dysfunctional
family (lui alcolista, la moglie Cynthia che se ne è andata con un altro,
alcolista pure l’altro), scrive senza scandalo dei propri figli: « Loro erano
circondati dalla follia e la cosa gli andava benissimo…Erano loro che
dirigevano lo spettacolo. E uno spettacolo lo era davvero».
Uno spettacolo, che rappresentiamo sul
palcoscenico, di fronte a quell’altro che è venuto a guardarci. Stretti
nel camerino dove parliamo ad alta voce con l’altro che è in noi. Nei
chiaroscuri del retropalco, dove corriamo affannati per prepararci alla prima,
a quella sera in cui saremo giudicati, esaltati o uccisi.
La vita è questa. Una partita mortale
giocata dentro un teatro.
Ma un uomo può sempre scegliere, alla
fine della rappresentazione, di salire sui tetti per stare più vicino al cielo.
Come il nostro uomo uccello, che apre la finestra e inizia a volare. Buon
viaggio, Birdman. Agli Oscar noi tiferemo per te.
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