giovedì 19 febbraio 2015

Birdman, la favola filosofica dell'uomo uccello nel gran teatro della vita: siamo tutti attori principianti e vogliamo solo essere amati




Di film basati su pièce teatrali ne abbiamo visti tanti. Spesso belli. Qualche volta meccanici. Per fare un esempio, Carnage di Roman Polanski perfezionava l’opera di partenza, Il dio della carneficina di Jasmina Reza, oscurando l’ideologia di base nel dialogo vissuto come un corpo a corpo tra attori. Faceva parte delle “messe in scena” filmiche di un testo concepito per il teatro. C’è poi un altro genere di film: prendiamo Anna Karenina di Joe Wright, che concentra la materia romanzesca in una geometria delle passioni che scorre lungo i binari di un treno ricostruito in teatro. Seducente. Spettacolare.  
Birdman è un’altra cosa ancora.  Il capolavoro di Alejandro Gonzales Inarritu  - due Golden Globe come migliore sceneggiatura e migliore attore, ben 9 nomination agli Oscar (l’attesa cerimonia si terrà il 22 febbraio) -, non mette in scena qualcosa di scritto in forma teatrale né fa un uso scenografico della materia drammatica, ma diventa esso stesso teatro. In un senso radicale, diremmo originario. 
Non è una questione di pura ambientazione. Inarritu agisce ogni luogo del teatro di Broadway in cui colloca i movimenti dei suoi personaggi, dando luogo a un labirinto di specchi dove i protagonisti ingaggiano una estenuante lotta per l’esistenza, scatenandosi  gli uni contro gli altri, ma combattendo anche tra le diverse  parti del Sé. Psicoanalitico, certo, ma non in senso descrittivo. Qui le cose accadono in senso conoscitivo. E accadono in un teatro, inteso come un voluminoso e frastagliato corpo anatomico che permette, identificazione, straniamento e catarsi.
Ogni luogo diventa significante: il palcoscenico, la platea, il retropalco, il botteghino. Il film inizia in camerino: Riggan Thomson (fantastico Michael Keaton) è capace di lievitare e spostare oggetti con il pensiero. Ma è soprattutto in questo spazio intimo, raccolto, che si rivela l’Altro: la voce di Birdman, il supereroe che per tanti anni ha interpretato sul grande schermo, che ha fatto di lui una celebrità ma di cui a questo punto del tempo Riggan vuole liberarsi, non riuscendoci fino in fondo.  Altro spazio fondamentale è, ovviamente, il palcoscenico. Qui si sta provando Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, la pièce che Riggan Thomson ha adattato partendo dai racconti di Carver, ritagliandosi il ruolo di regista e di attore, accanto ad altri tre interpreti, tutti legati anche da relazioni amorose. Con questo debutto Riggan si gioca la carriera: vuole dimostrare al mondo di essere capace di lasciare un segno responsabile, “alto”, e non puramente commerciale. 
Broadway è il sogno anche delle altre due attrici che recitano con lui (Naomi Watts ed Andrea Riseborough). L’unico che viene dal teatro è Mike (Edward Norton), che “l’uomo-uccello” ha fortissimamente voluto in compagnia perché gli assicura prestigio ma con cui ingaggia una competizione all’ultimo sangue. 
Nelle tre anteprime che precedono il debutto, sul palcoscenico si riversa quella sgrammaticata verità degli esseri umani che nasce da Carver, in variazioni da capogiro. Da quel palcoscenico, si avverte poco il pubblico, fino al giorno della prima. Ed è qui che accade qualcosa di fatale. Il protagonista interpreta il suo monologo conclusivo ferendosi veramente e finendo all’ospedale. Perché nel frattempo, in quei lunghissimi tre giorni, il supereroe che è voluto diventare umano ha misurato quanto possa far male cercare a qualunque costo l’accettazione dell’altro. Nei passaggi intricatissimi dal camerino al palcoscenico, lungo le scale, i personaggi sono risucchiati da forze oscure che non sono fuori ma dentro di loro, e di cui Inarritu rende conto in un ininterrotto piano sequenza che resterà nella nostra scatola della memoria per molto tempo. I pochi esterni del film, anche quelli, riconducono al percorso di sdoppiamento e rifrazione nello sguardo dell’altro. 
Nel pub adiacente al teatro, i protagonisti dialogano con la temibile critica del New York Times (Tabitha Dickinson) portatrice di uno sguardo che uccide: con le sue recensioni, ha il potere (a sua volta facilmente smontabile) di distruggere quel fragile io dell’artista che nel farsi del teatro si va continuamente costruendo e ricostruendo. 
Un altro spazio simbolico è rappresentato dal grande terrazzo sopra l’edificio teatrale, dove Mike si incontra con la giovane figlia di Riggan, Sam (Emma Stone), ragazza scombinata e sensibile: da quel punto dello spazio si è molto vicini al cielo e si guarda la strada (ma dall’alto). La traiettoria verticale, d’altro canto, incide profondamente il tessuto semantico di questa opera che dà alla testa: Riggan era l’uomo uccello della grande industria cinematografica, e tale ridiventerà,  ma in un modo diverso, creaturale, dopo aver acquisito una reale capacità di volare che solo l’estenuante lavoro teatrale a cui si è costretto gli può dare. 
I personaggi e gli innesti del film sono tanti, ma quello che ci interessa è concentrarci sui dispositivi della visione che lo spazio scenico in sé mette in campo. 
E veniamo a Carver. Inarritu non sceglie un testo formalmente teatrale, si affida piuttosto a un autore che usa le figure della drammaturgia e i luoghi dell’arte scenica per dire come è fatto un uomo, come funziona la sua testa, come pensa, come ama, come si vede e come vorrebbe esser visto, un uomo. 
Il racconto originario che dà origine a quella reiterata scena che gli interpreti di Birdman provano provano sull’aureo palcoscenico di Broadway si intitola Principianti: il famoso editor di Carver, Gordon Lish, volle poi ridurlo e farlo confluire in una nuova raccolta dal titolo Che cosa parliamo quando parliamo d’amore (sta per uscire in una nuova edizione Einaudi). Nel testo, la frase viene pronunciata da Herb (nel film Mike, il personaggio di Edward Norton): «Ci dovrebbe far vergognare, quando parliamo, come se sapessimo  di cosa parliamo quando parliamo d’amore». (Ricordiamo che il sottotitolo del film di Inarritu è “L’imprevedibile virtù dell’ignoranza”).
Nel racconto ci sono quattro tipi seduti a tavola, sono due coppie, una più giovane dell’altra. Si parla della metamorfosi delle storie d’amore, si parla della crudeltà, dell’ipocrisia, della follia, dei giuramenti che si riveleranno falsi, anche se all’inizio erano veri, ma verranno inevitabilmente logorati dall’odiosa azione del tempo, che è conformista. 
Nelle parole di Herb ci sono frequenti rimandi alla scena e alla drammaturgia spesso inconscia dei fatti della vita, che rivela sempre e solo la nostra inadeguatezza: «Secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore» (ancora una volta “la virtù dell’ignoranza”). 
Noi tutti non sappiamo dove andiamo. Eppure andiamo. Facciamo gli attori. Dirigiamo gli altri. Cerchiamo ogni giorno di mettere in scena, di trovare una forma, alle nostre mille pulsioni psichiche. Lo facciamo per non impazzire. 
In un altro stupefacente racconto di Carver, Che fine hanno fatto tutti?, il narratore, descrivendo la sua dysfunctional family (lui alcolista, la moglie Cynthia che se ne è andata con un altro, alcolista pure l’altro), scrive senza scandalo dei propri figli: « Loro erano circondati dalla follia e la cosa gli andava benissimo…Erano loro che dirigevano lo spettacolo. E uno spettacolo lo era davvero».
Uno spettacolo, che rappresentiamo sul palcoscenico, di fronte a quell’altro che è venuto a guardarci.  Stretti nel camerino dove parliamo ad alta voce con l’altro che è in noi.  Nei chiaroscuri del retropalco, dove corriamo affannati per prepararci alla prima, a quella sera in cui saremo giudicati, esaltati o uccisi.  
La vita è questa. Una partita mortale giocata dentro un teatro. 
Ma un uomo può sempre scegliere, alla fine della rappresentazione, di salire sui tetti per stare più vicino al cielo. Come il nostro uomo uccello, che apre la finestra e inizia a volare. Buon viaggio, Birdman. Agli Oscar noi tiferemo per te.

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