lunedì 12 gennaio 2015

Ciao bella Anita, venerata da tutti e morta in povertà



Cominciamo dalla fine, da una delle ultime foto che i giornali avevano pubblicato. I grandi occhi di una donna che fissano l’obiettivo con una espressione stanca, dura, per certi versi assente. I suoi capelli sono ancora biondi. Questa donna vive da anni in una clinica. E’ su una sedie a rotelle. La vita sembra essersene andata dal corpo già da parecchio tempo. E non solo dalle ore 11.00 di domenica 11 gennaio 2015, quando, da un punto di vista strettamente medico, il cuore di Anita Ekberg ha smesso di battere. Aveva 83 anni, la bella Anita. Era nata in Svezia e viveva in Italia dalla fine degli anni Cinquanta. Scrivere il suo nome accanto all’ora del decesso sembra pura fantascienza. Eppure l’immagine di quella donna fatale, straordinariamente integra, si confonde oggi con una immagine che senza abbellimenti possibili racconta non tanto la vecchiaia e la malattia, quanto la solitudine. E la povertà. E solo nel 2011 Massimo Morais, nominato dal Tribunale di Velletri amministratore di so-stegno di Anita Ekberg,  che in Italia non aveva nessun parente, nessun marito – in realtà ne ebbe due: l’attore inglese Anthony Steel e l’americano Rik Van Nutter, senza contare la proposta di matrimonio di Frank Sinatra, la relazione ammessa con Gianni Agnelli e quella solo vociferata con Dino Risi – scriveva una lettera alla Fondazione Fellini perché l’attrice ricevesse un aiuto economico. La sua situazione era precipitata dopo una frattura al femore che aveva portato complicazioni su complicazioni. Non era più autonoma. E non aveva soldi per ristrutturare la casa in cui viveva, né poteva più mantenersi. Non sappiamo se quell’aiuto, dalla Fondazione o da qualcunaltro, sia mai arrivato, ma ne dubitiamo fortemente, visto che Anita Ekberg, la diva che aveva ispirato la prosa di Salvatore Quasimodo, che osannò «i colori botticelliani della sua immagine fisica» (Anita Ekberg, dialogo e fotografie, Lerici,1965), era ormai ricoverata da allora nella clinica San Raffaele a Rocca di Papa (Castelli Romani) in cui ieri mattina è morta. «Non aveva parenti in Italia e nessun compagno di vita da tanto tempo», spiega il suo avvocato Patrizia Ubaldi, «era in contatto con una nipote in Svezia. A Genzano aveva però amici che l’hanno assistita fino all’ultimo. Da disposizioni testamentarie, la Ekberg sarà cremata e le sue ceneri torneranno in Svezia. Una cerimonia funebre verrà celebrata in una Chiesa Luterana di Roma». Tutto cominciò quando Anita aveva appena 19 anni e venne eletta Miss Svezia. Era il 1950. Poco dopo, prese un volo per gli Stati Uniti, per partecipare al concorso di Miss Universo. Inaspettatamente, trovò il cinema ad attenderla. Nel 1953 esordì nella commedia di Charles Abbot, Viaggio al pianetaVenere. Era un piccolo ruolo, ma si suggellava anche in una forma di narrazione filmica, e non solo iconica, la sua appartenenza all’universo mitologico della dea Afrodite. In America girò una ventina di film, diventando una piccola star. Dopo aver recitato in Zarak Khandi di Terence Young, nello stesso anno (1956) vince il Golden Globe come attrice emergente. Giunta per la prima volta in Italia per sostituire Arlene Dahl nel cast del kolossal Guerra e pace di King Vidor (1955),  si stabilì definitivamente nel nostro Paese nel 1958. A questo punto, potremmo fermarci, perché quello che accadde dopo è entrato così fortemente nell’immaginario collettivo da renderne impossibile la traduzione. Fellini la sceglie per La Dolce vita (1960). Dobbiamo descrivere la scena? Il regista continuò a riprenderla come simbolo di una bellezza incantatrice. Ci torna alla mente  il volto turbato di un bigotto Peppino De Filippo di fronte alle maestose (ingigantite) forme di Anita in un cartellone che pubblicizza una marca di  latte: Le tentazioni di Sant’Antonio, episodio del film collettivo Boccaccio 70 (1962).  E la richiamerà due volte per chiederle di interpretare se stessa: ne I clowns (1971) e in Intervista (1987). Nel 1979 Anita posa per una copertina di Playmen in cui le sue forme erano molto cambiate. Inizia una fase declinante, in cui la sua bellezza differente, prematuramente trasformata e sfiorita, viene  usata sullo schermo: recita in Cicciabomba (1982) con Donatella Rettore, nel Conte Max di Christian De Sica (1991), in Cattive ragazze di Marina Ripa di Meana (1992) e Bambola (1996) di Juan José Bigas Luna con Valeria Marini. Declinazioni in minore di uno stesso tema che ha un unico compositore un po’ stregone alle spalle. Anita resterà sempre la donna vista attraverso lo sguardo incantato di Federico. Una apparizione che in un certo senso lui stesso disegnò, smembrando l’icona dell’attrice svedese in un corpo più una voce. E ci  piace immaginare che se Mastroianni/Fellini avesse potuto sentire quella voce chiamare Marcello, («Marcello, come here!»), adesso, in questi ultimi anni in cui Anita aveva veramente bisogno che qualcuno andasse da lei e la togliesse fuori da una condizione infernale, ecco, sì, Fellini e il suo alter ego Marcello l’avrebbero fatto sicuramente, sarebbero andati da lei. Anche se Anita aveva ormai perso da tempo le sue forme rotonde e la sua pelle bianca era più ruvida di un tempo. Pure ammettendo che se la sua sensualità che l’aveva trascinata dall’empireo delle modelle al mondo del cinema d’autore e poi discendendo verso la parodia, ecco, quella fatale capacità di chiamare a sé il desiderio, quella cosa lì, quella femminilità pazzesca, quasi disturbante nel suo candore, era svanita da tempo. Invece. Invece Anita se ne è andata impotente, condannata alla materia di una vecchiaia dolorosa che non ha avuto consolazione, né cura. Ma solo la distrazione del mondo.
(Pubblicato sul "Garantista") 

Nessun commento: