Cominciamo dalla fine,
da una delle ultime foto che i giornali avevano pubblicato. I grandi occhi di
una donna che fissano l’obiettivo con una espressione stanca, dura, per certi
versi assente. I suoi capelli sono ancora biondi. Questa donna vive da anni in
una clinica. E’ su una sedie a rotelle. La vita sembra essersene andata dal
corpo già da parecchio tempo. E non solo dalle ore 11.00 di domenica 11 gennaio
2015, quando, da un punto di vista strettamente medico, il cuore di Anita Ekberg
ha smesso di battere. Aveva 83 anni, la bella Anita. Era nata in Svezia e
viveva in Italia dalla fine degli anni Cinquanta. Scrivere il suo nome accanto
all’ora del decesso sembra pura fantascienza. Eppure l’immagine di quella donna
fatale, straordinariamente integra, si confonde oggi con una immagine che senza
abbellimenti possibili racconta non tanto la vecchiaia e la malattia, quanto la
solitudine. E la povertà. E solo nel 2011 Massimo Morais, nominato dal Tribunale
di Velletri amministratore di so-stegno di Anita Ekberg, che in Italia non aveva nessun parente, nessun
marito – in realtà ne ebbe due: l’attore inglese Anthony Steel e l’americano
Rik Van Nutter, senza contare la proposta di matrimonio di Frank Sinatra, la
relazione ammessa con Gianni Agnelli e quella solo vociferata con Dino Risi – scriveva
una lettera alla Fondazione Fellini perché l’attrice ricevesse un aiuto economico.
La sua situazione era precipitata dopo una frattura al femore che aveva portato
complicazioni su complicazioni. Non era più autonoma. E non aveva soldi per
ristrutturare la casa in cui viveva, né poteva più mantenersi. Non sappiamo se
quell’aiuto, dalla Fondazione o da qualcunaltro, sia mai arrivato, ma ne dubitiamo
fortemente, visto che Anita Ekberg, la diva che aveva ispirato la prosa di
Salvatore Quasimodo, che osannò «i colori botticelliani della sua immagine
fisica» (Anita Ekberg, dialogo e fotografie, Lerici,1965), era ormai ricoverata
da allora nella clinica San Raffaele a Rocca di Papa (Castelli Romani) in cui
ieri mattina è morta. «Non aveva parenti in Italia e nessun compagno di vita da
tanto tempo», spiega il suo avvocato Patrizia Ubaldi, «era in contatto con una
nipote in Svezia. A Genzano aveva però amici che l’hanno assistita fino all’ultimo.
Da disposizioni testamentarie, la Ekberg sarà cremata e le sue ceneri
torneranno in Svezia. Una cerimonia funebre verrà celebrata in una Chiesa
Luterana di Roma». Tutto cominciò quando Anita aveva appena 19 anni e venne
eletta Miss Svezia. Era il 1950. Poco dopo, prese un volo per gli Stati Uniti,
per partecipare al concorso di Miss Universo. Inaspettatamente, trovò il cinema
ad attenderla. Nel 1953 esordì nella commedia di Charles Abbot, Viaggio al
pianetaVenere. Era un piccolo ruolo, ma si suggellava anche in una forma di narrazione
filmica, e non solo iconica, la sua appartenenza all’universo mitologico della
dea Afrodite. In America girò una ventina di film, diventando una piccola star.
Dopo aver recitato in Zarak Khandi di Terence Young, nello stesso anno (1956)
vince il Golden Globe come attrice emergente. Giunta per la prima volta in
Italia per sostituire Arlene Dahl nel cast del kolossal Guerra e pace di King Vidor
(1955), si stabilì definitivamente nel
nostro Paese nel 1958. A questo punto, potremmo fermarci, perché quello che
accadde dopo è entrato così fortemente nell’immaginario collettivo da renderne
impossibile la traduzione. Fellini la sceglie per La Dolce vita (1960). Dobbiamo
descrivere la scena? Il regista continuò a riprenderla come simbolo di una
bellezza incantatrice. Ci torna alla mente
il volto turbato di un bigotto Peppino De Filippo di fronte alle maestose
(ingigantite) forme di Anita in un cartellone che pubblicizza una marca di latte: Le tentazioni di Sant’Antonio,
episodio del film collettivo Boccaccio 70 (1962). E la richiamerà due volte per chiederle di interpretare
se stessa: ne I clowns (1971) e in Intervista (1987). Nel 1979 Anita posa per
una copertina di Playmen in cui le sue forme erano molto cambiate. Inizia una fase
declinante, in cui la sua bellezza differente, prematuramente trasformata e
sfiorita, viene usata sullo schermo:
recita in Cicciabomba (1982) con Donatella Rettore, nel Conte Max di Christian
De Sica (1991), in Cattive ragazze di Marina Ripa di Meana (1992) e Bambola
(1996) di Juan José Bigas Luna con Valeria Marini. Declinazioni in minore di
uno stesso tema che ha un unico compositore un po’ stregone alle spalle. Anita
resterà sempre la donna vista attraverso lo sguardo incantato di Federico. Una apparizione
che in un certo senso lui stesso disegnò, smembrando l’icona dell’attrice
svedese in un corpo più una voce. E ci
piace immaginare che se Mastroianni/Fellini avesse potuto sentire quella
voce chiamare Marcello, («Marcello, come here!»), adesso, in questi ultimi anni
in cui Anita aveva veramente bisogno che qualcuno andasse da lei e la togliesse
fuori da una condizione infernale, ecco, sì, Fellini e il suo alter ego
Marcello l’avrebbero fatto sicuramente, sarebbero andati da lei. Anche se Anita
aveva ormai perso da tempo le sue forme rotonde e la sua pelle bianca era più
ruvida di un tempo. Pure ammettendo che se la sua sensualità che l’aveva
trascinata dall’empireo delle modelle al mondo del cinema d’autore e poi
discendendo verso la parodia, ecco, quella fatale capacità di chiamare a sé il
desiderio, quella cosa lì, quella femminilità pazzesca, quasi disturbante nel
suo candore, era svanita da tempo. Invece. Invece Anita se ne è andata
impotente, condannata alla materia di una vecchiaia dolorosa che non ha avuto
consolazione, né cura. Ma solo la distrazione del mondo.
(Pubblicato sul "Garantista")
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