mercoledì 31 dicembre 2014

"Sempre daccapo": la consapevolezza del limite



Certo, Papa Francesco, c’entra qualcosa. Nel senso che il suo Pontificato sta scompaginando le attese e le locuzioni fisse. E non si tratta di essere dei fan. Qui è in campo la possibilità di un qualcosa che ci faccia uscire dall’obitorio delle coscienze atomizzate dalla vita partitica e post-politica. E sì, Papa Francesco che apre cristianamente (il socialismo delle origini) ai differenti, ai reietti, agli appestati, a coloro che prima erano tenuti fuori dalla porta, c’entra qualcosa, eccome. E’  la prima considerazione che viene spontaneo fare subito dopo la lettura dell’ultimo libro di Fausto Bertinotti, “Sempre daccapo” (Marcianum Press, 121 pp. 16 euro), che rinuncia alla forma saggistica, affidandosi alla forma-conversazione. Ora, di libri-interviste è pieno il mondo. Ma la singolarità di questo preciso oggetto, è che vi si deposita la conversazione tra un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla politica e un uomo di Chiesa, il sacerdote Roberto Donadoni. La prefazione la firma un cardinale, Gianfranco Ravasi. Una conversazione attuale fatta da tre uomini, se vogliamo, inattuali, ma che non può non risentire, dicevamo, del clima di rinnovamento che sta creando Bergoglio. Di questa nuova temperie culturale coglie il residuo, la scoria immaginativa che potrebbe dare i suoi frutti in un tempo lungo. Ma che si sceglie di affrontare oggi. Nella forma del dialogo che ovviamente richiama il dialogo platonico, ma a Platone deve non tanto la struttura (ovvero il dialogo stesso) quanto la concezione dell’ “idea”: <la dicibilità (dell’idea platonica) resta non detta in ciò che si dice di ciò di cui si dice> (Agamben, La potenza del pensiero). E che cos’è, in questo libro, la cosa non detta, l’idea autentica? A noi sembra che la parola non detta di questa affascinante avventura intellettuale sia la parola “spirituale”, che viene declinata nella sua versione temporale, quando Bertinotti esprime una preoccupazione storica: <Sul versante dei credenti e del cristianesimo, credo che vada sorvegliata la propensione, magari attraverso l’integralismo, a far sì che il potere terreno venga sovraordinato da quello spirituale, tentazione tutt’altro che trascurabile>. In questo caso, l’aggettivo “spiritale” sta accanto a “potere”, ma l’intera conversazione è, nella sua ossatura logica, una decostruzione potente del potere. E cos’è un potere spirituale privato di potere? Una forza spirituale, che rende conto della interezza dell’essere umano, della sua malvagità come della sua vocazione a tendere verso un modello sociale che debelli la diseguaglianza, verso un <non ancora>. Più una <profezia> che una <speranza>. Più una necessità spirituale - non necessariamente religiosa – di compiuta felicità per tutti, che una vaga idea di provvidenza che liberi i popoli dall’oppressione. Un desiderio che ha avvicinato socialisti e cristiani, anche se con sfumature molto diverse. E si cita a questo proposito Dom Helder Pessoa Camara: <Quando dò da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista>. L’immagine che ci si profila davanti è una immagine dickensiana: una umanità che affolla i bassifondi, schiacciata ai bordi, mentre una piccolissima parte del mondo abita tutto un altro cielo: <Il reddito annuale degli 85 uomini più ricchi è pari a quello della metà della popolazione più povera, cioè 3,5 miliardi di persone. 85 uomini ne valgono 3,5 miliardi>. E’ un <capitalismo ottocentesco>.
Nel disegnare questi nostri paesi occidentali pietrificati nella legge della diseguaglianza, fortificati sulla convinzione che la minaccia venga sempre da fuori (e non piuttosto, da dentro), Bertinotti suggerisce all’Europa di <farsi aiutare>, di riconoscere la propria mancanza, dichiarare il fallimento di un modello che ingrassa 85 uomini e ne affama 3 miliardi e mezzo.  Solidarietà, fratellanza, aiuto, profezia: sono termini in bilico tra un universo di senso e l’altro, più spostati sul fronte della carità cristiana che sul piano di una utopia socialista a cui però non si può rinunciare chi ama riferirsi sia a San Paolo che a Walter Benjamin. La “strada terza” si staglia persistente sull’orizzonte non ancora annerito dalle polveri di una umanità  morente.
Bertinotti non fa cadere certe parole come <rivoluzione>, ma le àncora al senso del <limite>, alla nostra finitezza: <Il carattere finito dell’uomo comporta un elemento di dramma, per l’uomo che se ne va, negli affetti che lo circondano, di privazione dell’intimità del rapporto d’amore, tuttavia questo resta un esito totalmente giustificato da quello che a me pare il connotato più profondo della nostra esistenza, cioè appunto il carattere del limite>.
Non rinuncia all’idea che la politica possa ancora fare da mediazione frenando l’avanzata del capitalismo finanziario globale. Né scioglie nell’impotenza l’utopia della giustizia sociale (e questo è forse il passaggio più statico, quando guarda ai movimenti come Occupy Wall Street) immaginando che essa si realizzi un giorno senza sovrano. La questione, e torniamo al punto di partenza, è quella del potere. Bertinotti parla da una posizione che oggi non è di potere, ma di riconosciuta autorità intellettuale. Questo, indubbiamente, gli facilita il compito. Esercitare la critica nella legittimazione sociale del proprio domandare e rispondere (ad altre domande), è ben altra cosa rispetto al dubbio che può prendere un legislatore, o un presidente della Camera, o un leader sindacale, nel pieno delle sue funzioni. Obama è stata dimezzato perché, per certi versi, ha avuto troppi dubbi,  per altri versi nessuno. Un presidente non può avere dubbi. Ma può farsi aiutare. Può agire accettando il proprio limite, dichiarandolo. Può testimoniare e in una certa misura anche ribellarsi. Papa Francesco lo sta facendo.
Ma, al di là del modello che può esercitare una figura di autorità “spirituale” come quella di Bergoglio, che ci resta da fare? <Camminare facendo domande> è un buon suggerimento. Aspirare alla libertà è un desiderio inalienabile. Ma, ci fa capire il nostro autore, non basta nominare la libertà. E’ come pronunciare senza rete la parola “post-moderno” (è al post-moderno che l’ex presidente della Camera attribuisce una responsabilità morale pari a quella del liberismo sfrenato <poiché considerano le diseguaglianze dei fatti naturali>).
Peraltro la questione della libertà è complessa. <Non so cosa impedisce la libertà dell’uomo – dice Bertinotti – ma so cosa limita la sua libertà>. Impegnarsi per la cancellazione di queste limitazioni - simbolizzate bene dall’articolo 3 della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana> - è molto. Ma non è tutto. Ed è in questo residuo, nella cosa non detta che si cela il vero oggetto della ricerca.  In quel <non so> –  <Non so cosa impedisce la libertà dell’uomo> – passa il punto di domanda più importante.
Nelle ultime pagine, Bertinotti affronta la questione dell’amore e della morte, soffermandosi su certi riti di passaggio: <Per molti di noi, le domande sul senso della vita hanno trovato una prima risposta nella militanza politica, una militanza non priva di tonalità religiose: si pensi soltanto al funerale di un compagno o di una compagna nei momenti più intensi della nostra storia>. Entriamo, senza che venga detto, nel territorio del sacro quotidiano, e quindi della violenza che ad esso sempre si accompagna. Per evocare la fine dell’oppressione, bisognerà guardare in faccia il volto della Medusa. Così come ha fatto il grande fotografo Salgado, raccontato nel documentario di Wim Wenders, Il sale della terra. Testimoniare la ferocia di cui è capace la specie umana. Piegarsi a guardare bene i volti di quegli esseri abbandonati, bruciati, uccisi, denutriti, ammassati. Andare fino in fondo all’inferno e camminarci dentro. Per fare un discorso sull’uguaglianza, e sulla pace, va fatto il discorso sulla violenza.  Appoggiare quel <non ancora> alla vista dell’orrore. E questo non è un “altro” discorso. 

Nessun commento: