Un’aggressione a Ponte Sisto, nel cuore di Trastevere. Siamo
a Roma, di notte. L’aggredito ha con sé un libro: simbolo di anarchia, di
disordine. Nel linguaggio muto e intraducibile della strada, un libro può
suonare anche come una provocazione. Per questo quattro balordi picchiano
l’uomo. Perché sta leggendo un libro. In una Roma che pare una scenografia
vivente, dove ogni atto dell’esistenza è pura rappresentazione. E’ Il film sbagliato, l’atto unico con il
quale Tommaso Pincio partecipa alla maratona pensata da Antonio Calbi, direttore
del Teatro di Roma, assieme al regista Fabrizio Arcuri, “Ritratto di una capitale
- ventiquattro scene di una giornata a Roma” (gli altri scrittori sono Eraldo
Affinati, Ascanio Celestini, Eleonora Danco, Giancarlo De Cataldo, Anna Foa,
Valerio Magrelli, Giuseppe Manfridi, Lorenzo Pavolini, Paola Ponti, Christian
Raimo, Lidia Ravera, Ricci/Forte, Andrea Rivera, Letizia Russo, Elena
Stancanelli, Roberto Scarpetti, Igiaba Scego, Francesco Suriano, Daniele
Timpano/Elvira Frosini, Emanuele Trevi,
Mariolina Venezia, con la partecipazione di Corrado Augias, Claudio Strinati e
Franca Valeri), che dal 18 al 22 novembre vedremo scorrere come un nastro
magnetico sul palcoscenico del Teatro Argentina: <un polittico di Roma, un
racconto a più voci trans-generazionale, che descrive la città nei suoi vari
aspetti: un ritratto che ha i modi dell’epica, della poesia e della
trasfigurazione> (come dice Calbi). E’ l’ultimo tributo che Tommaso Pincio
(ma lui si chiama Marco Colapietro: deve il suo pseudonimo all’italianizzazione
del nome dello scrittore statunitense Thomas Pynchon) fa a Roma, la città in
cui è nato nel 1963 e da cui non s è mai allontanato e che ha narrato in vari
modi: città crudele, nera, aliena, metafisica, desolata, apocalittica, oziosa,
superba, ibrida, ironica, angelica, infernale. Arrivando a coniare, qualche
anno fa, con Cinacittà, forse uno dei
simboli letterari più potenti e sconcertanti della capitale.
Innanzitutto, come
vuole essere chiamato?
Decida lei.
Allora Tommaso, è
così in fondo che la conosciamo. Tommaso Pincio. E’ lei l’aggredito di Ponte
Sisto?
Quando Calbi e Arcuri mi hanno parlato di questo progetto
che mi ha entusiasmato moltissimo (anche perché mi ricorda altre maratone
teatrali del passato e che adesso non si fanno quasi più), mi è venuta
quest’idea sulla quale stavo lavorando anche per un romanzo. E così ho pensato
di raccontare, cambiandolo un po’, quello che mi era recentemente successo.
Diciamo che io non sono stato così sfortunato come il mio personaggio, perché
sono riuscito ad evitare le botte…Io ho questo vizio, di portarmi sempre dietro
un libro. E proprio il libro è stata la causa scatenante dell’aggressione. Perché Il
film sbagliato è la storia di un pestaggio per futili motivi. Il mio protagonista sta tornando a casa a
piedi. A Ponte Sisto incrocia quattro persone che, solo per il fatto che lui
sta leggendo un libro, prima lo dileggiano e poi lo picchiano. La voce narrante
è la voce della persona che, dopo essere stata picchiata, si rianima. Perché riceve una
telefonata dalla ex moglie con la quale aveva un appuntamento e comincia a
raccontarle la sua disavventura.
Chi sono gli
aggressori?
Nell’atto unico rimangono senza nome. Sono presenti come se
fossero degli angeli.
Angeli?
Sì, angeli senza nome. Lo picchiano forse solo perché
avevano voglia di picchiare qualcuno. Mentre parla alla moglie, lui si fa anche
una ragione del perché viene malmenato.
Solo perché legge un
libro?
Apparentemente sì. Però si dà anche delle colpe: in fondo non
ha rispettato un copione non scritto ma condiviso. Roma è una grande
scenografia e c’è una sproporzione tra quella che è Roma come architettura,
come distanza tra il tempo simboleggiato dalle pietre e gli abitanti che la
vivono. I romani sono come dei gatti rispetto al posto che abitano. Questo ci
porta a vivere la città come se fossimo in un set, come se dovesse sempre
avvenire una rappresentazione. Per cui il problema delle risse, dei bulli,
nasce anche da questa natura della città. Ci si diverte a venire alle mani
perché c’è un copione che fa parte di questa scenografia. Se non si recita la
propria parte, a Roma si finisce male.
Perché ha voluto
scegliere la scena di un pestaggio per rappresentare Roma?
Perché penso che uno degli aspetti tipici della cultura
popolare romana siano proprio le botte. Spesso si finisce alle mani. Ormai
tutti i fine settimana a Campo dei Fiori c’è qualcuno con un coltello che vuole
scazzottare. Ma è un motivo, se vogliano, storico: penso a Caravaggio e ai
bulli dell’Ottocento…Però i miei bulli, ripeto, menano per motivi futili, sono
vestiti bene, è un sabato sera in pieno centro.
Di fronte al fermo
immagine che si può avere dai fatti di Tor Sapienza, quale è il dettaglio che
lei porterebbe in primo piano? Le ronde dei cittadini/teppisti? I minorenni
“stranieri” che chiedono riparo alla cooperativa “Il Sorriso”? I poliziotti feriti?
Vivere questi eventi attraverso i mezzi d’informazione è
deformante. Sono cose troppo delicate. Io vivo una realtà privilegiata. Abito
in un quartiere come l’Esquilino, che per la presenza di cinesi e indiani, è
considerato erroneamente pericoloso. Però ho la sensazione che invece quando si
va in quei quartieri come Tor Sapienza, lì c’è una difficoltà vera, e quindi
bisogna avere un po’ d’umiltà prima di esprimere un giudizio. Quello che mi sembra evidente è che la città
non è preparata da tutti i punti di vista - sia a livello istituzionale che
come popolazione - ai momenti di difficoltà che sta vivendo. E questa
impreparazione ci rende, da un lato, paurosi, e dall’altro violenti. Non c’è
niente di più pericoloso di un animale che ha paura. Roma è ancora una città aperta e
accogliente, ma è come se si avvertisse
nell’aria una nuova bruttezza nata appunto dalla paura.
Come racconterebbe lo
spirito della romanità?
Stendhal aveva notato tanto tempo fa che i romani non
sopportano le seccature. Sono talmente refrattari alle rotture di scatole, che
non vogliono avere neanche la rottura di scatole di essere educati
nell’esprimersi. In realtà, essere
diretti funziona finché le cose vanno bene. Nel momento in cui le cose non
vanno bene, diventa un limite.
Non ha mai avuto la
tentazione di trasferirsi altrove?
Sono rimasto a Roma perché come scrittore devo vivere della
lingua che parlo, della cultura che racconto. La mia famiglia invece da un po’ vive
in Asia, in un’isoletta del golfo del Siam.
E come ci sono
finiti?
Per colpa mia.
Cioè?
Avevo consigliato a mio fratello di passare lì le vacanze. Il
posto gli è piaciuto così tanto che ci si è trasferito e ha aperto lì un
ristorante. Dopo di che abbiamo convinto i nostri genitori a trasferirsi anche
loro perché con le loro due modeste pensioni lì avrebbero potuto farcela, qui
invece in prospettiva sarebbe stata una catastrofe. E’ la storia di una
migrazione al contrario. I vecchi che vanno nel Terzo Mondo, quando invece il
terzo Mondo viene qui.
Nel 2008 uscì il suo
“Cinacittà - memorie del mio delitto efferato”. Le immagini di quella città
bestiale e irriconoscibile si leggono forse anche meglio oggi che allora.
In effetti quello ho immaginato in Cinacittà (che avevo scritto in realtà nel 2007), è puntualmente
accaduto. Oltre a parlare di catastrofe climatica, parlavo di catastrofe economica:
il libro è andato in libreria una settimana dopo che gli impiegati della Lehman
Brothers riempivano le scatole per dichiarato fallimento. E siamo entrati in
quella spirale di crisi da cui fatichiamo a uscire. Stesso ragionamento per
quello che riguarda l’emigrazione. Quando ho scritto il romanzo,
sull’emigrazione cinese c’erano molte leggende urbane ma di fatto non c’era una
vera e propria tensione sociale che invece c’è oggi. Non a Roma. Io non credo che sia un problema
tipicamente romano. Le tensioni scoppiano in qualsiasi parte d’Italia e del
mondo quando non si sta bene, quando si vive un forte disagio.
(Pubblicato sul "Garantista")
Nessun commento:
Posta un commento