Un uomo lega un altro uomo a una sedia e lo tortura. La scena si svolge in un interno, la porta è chiusa a chiave. Tutto intorno la vita scorre. Il torturato urla, ma nessuno può sentirlo. L’uomo che brucia i testicoli di quell’altro uomo non è un torturatore di professione, e forse mai fino a questo momento aveva pensato che sarebbe accaduta una cosa così. L’uomo che sevizia un uomo inerme questa cosa qui l’ha premeditata. Almeno così confessa alla polizia, dopo essersi costituito. Il dispaccio d’agenzia recita: «un indiano di 36 anni originario di Khajoori Khas, agglomerato urbano situato nel distretto di Dehli Nord Est, è riuscito a invitare a cena il presunto stupratore della figlia quattordicenne e lo ha torturato fino alla morte. Poi si è recato nella più vicina stazione di polizia e si è autodenunciato del delitto».
Cosa ci ricorda questa scena? Facciamo un passo indietro nel tempo. E’ il 1977. Mario Monicelli gira Un borghese piccolo piccolo piccolo, dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, pubblicato l’anno prima. La storia di un uomo che si fa giustizia da solo. Anche qui il torturatore non è un professionista del crimine. Ha il volto e i gesti di Alberto Sordi, forse la sua più bella interpretazione. Quest’uomo è un uomo qualunque, un impiegato che accetta le angherie del suo capoufficio, disposto ad entrare pure nella massoneria, pur di realizzare il suo unico desiderio: sistemare il proprio figlio, il ragioniere che ha fatto studiare tra sacrifici grandi. Ma quella mattina qualcosa va storto. Quella mattina un rapinatore uccide per sbaglio il ragazzo che stava andando a sostenere l’esame del concorso che gli avrebbe messo in forma la vita, nel nome del padre e della madre. Il borghese piccolo piccolo raccoglie il figlio in una macchia troppo grande di sangue. Si piega su di lui, e in quel momento qualcosa scoppia nella sua anima. «Fu insieme un batter d’occhio e un’eternità» (così scrive Cerami). La madre viene colta da un ictus. La vita in mille pezzi, per un colpo di pistola direzionato male. Il borghese piccolo piccolo impazzisce. Niente di tutto ciò che ha accompagnato la sua nascita e disegnato i confini del suo mondo fino a quel momento - l’educazione, i valori, le abitudini, il volto di sua madre, i merletti della sala da pranzo, la cucina spoglia, le villeggiature risicate - avrebbe potuto annunciare il crimine di cui un giorno si sarebbe macchiato. Il borghese di Cerami riconosce il volto di chi gli ha ucciso il figlio e non accetta di chiedere giustizia alla giustizia. Sequestra l’uccisore, lo porta in un luogo abbandonato, là dove andava a pesca con il figlio. Lo lega a una sedia. Lo sevizia. Giorno dopo giorno. Un po’ per volta. Quell’ uomo tranquillo, che aveva sempre chinato il capo di fronte a chiunque, massacra un ragazzo. Lo tortura. E si rammarica che la morte sia arrivata troppo presto: spettacolo angosciante a cui fa assistere anche la moglie che ha perso la parola, in un delirio compensatorio. Nel ”film” della cronaca indiana che scorre oggi davanti ai nostri occhi, il movente è molto diverso. L’uomo di 45 anni che è morto in una casa di periferia era stato inseguito, adescato e invitato a cena da quello che diventerà il suo carnefice. La sua colpa sarebbe quella di aver stuprato una ragazza (ora forse incinta di lui). Il giudizio arretra, e vacilla. Sembra che il codice medievale dell’onore interessi questa nuova variazione del borghese piccolo che si fa giustizia da solo. Ma identico deve essere stato il passaggio dal giorno alla notte più nera, quando il crimine è arrivato senza preavviso a fargli visita: «Fu insieme un batter d’occhio e un’eternità».
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