La prima volta che ci sentimmo, Franco Rella parlò da una stanza d’ospedale. L’11 marzo del 2011 il giappone era stato devastato dallo tsunami e ci aiutò a dipanare il significato di quelle immagini d’apocalisse, le conseguenze che avrebbero portato anche in Occidente. Qualche tempo dopo, discutemmo con lui il tema dell’eutanasia e il film di Bellocchio che con Bella addormentata, aveva voluto seguire una traccia scomoda del nostro rimosso. Questa volta, non c’è un libro in uscita, né un film che fa scandalo, da commentare. Ma c’è un sentimento tragico del tempo, uno smarrimento grande, una nuova ondata di barbarie che ci porta a interrogarci su alcune cose fondamentali. Autore di opere centrali del pensiero filosofico contemporaneo (Il silenzio e le parole, Ai confini del corpo, La responsabilità del pensiero, L’enigma della bellezza), professore di Estetica, con il suo ultimo libro, Forme del sapere (Bompiani, 20 euro) Franco Rella ha indagato proprio gli intrecci tra eros, morte e violenza. Consapevole del fatto che la questione del male, così come la questione del potere, intreccia Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo, e ci chiama ad un nuovo processo di ricognizione identitaria.
Non
siamo mai stati così correlati e il rumore della testa che cade sotto la mannaia del boia John entra dopo
un solo
istante nella nostra vita, ovunque noi siamo. Come legge
lei queste immagini
di barbarie?
Sono immagini che sembrano venire da un tempo remoto, preistorico, e al tempo stesso sono modernissime, perché si servono di strumenti di tecnologia raffinata. Sono immagini esibite che
servono per
attirare gli adepti. Questi soggetti che
vengono presentati privi di
identità personale,
privi di riferimento, privi di nazione e di nazionalità e
di memoria, si ritrovano nell’espressione di una violenza che diviene reale. Da che cosa
dipende l’enormità
del suo valore simbolico? Dal fatto
che è estrema. E’ qualcosa che
individua, appunto.
Qualcosa che
permette di ricostruire una identità attorno al gesto violento e
a quello che
sta
dietro il gesto violento.
Paradossalmente, invece di ritirarci,
le
andiamo incontro, la amplifichiamo, irrobustiamo l’immagine barbarica
con tutti gli strumenti che abbiamo a
disposizione. La esibiamo doppiamente. Perché?
Quel gesto ormai appartiene
intimamente al nostro tessuto esistenziale. L’11 settembre ha inserito
nella nostra vita quotidiana
quello che era latente ma che
era difficile cogliere,
cioè una violenza che
entra quasi nelle molecole del nostro vissuto. E
così, anche questa violenza della testa decapitata fa intimamente parte di noi.
Viene così enfatizzata perché ci si riconosce. Ci fa orrore ma nell’orrore riconosciamo qualcosa che
è anche nostro.
C’è un tratto specifico, un sentimento
dominante che allaccia Oriente e Occidente in questo momento del tempo?
Non c’è un tratto precipuo, un punto in cui tutto converge
e spiega tutto. Siamo in un’epoca in cui la velocità assoluta
di tutte le comunicazioni, la rapidità degli spostamenti finanziari
che provocano crisi immani e
improvvise, si accompagna, per un
verso, ad un senso di impotenza, e per l’altro verso ad una sensazione di stagnazione, e quindi di ripetizione. Mi viene in mente quando Baudelaire, di fronte all’emergere della metropoli, della folla assordante, accanto a questa immagine esprimeva l’esperienza di un
corpo immobile che la neve copre. Questa duplicità che racconta il tempo del moderno si è ulteriormente radicalizzata ai nostri giorni.
Accanto a questa velocità
del movimento del
capitale e delle tecnologie al lavoro tutte insieme,
c’è un
accumulo enorme di dati di memoria. Ma è la memoria di nessuno, una memoria anonima. Mentre sembra che gli
individui singoli facciano fatica
ad accumulare una propria memoria.
Questi soggetti senza memoria quale modello di società vanno disegnando?
Effettivamente forse l’aggressione
al concetto stesso di soggetto che è stata fatta
da Foucault e
poi da Deleuze, e che io ho criticato moltissimo nella mia
vita, alla fine
era invece profetica rispetto a quello che
sta avvenendo. Quando Deleuze distruggeva il concetto di soggetto, lo sostituiva con questi flussi, con
queste macchine molari e
molecolari, forse vedeva una dimensione che emerge anche nel
soggetto singolo
e nei macro-soggetti che possono essere le comunità, quelle
che fanno fatica a
riconoscersi in una identità che le
definisca rispetto all’altro.
Non
si può parlare di violenza senza analizzare le forme del potere che si esprimono a
vari livelli, e che lei vede in atto addirittura nella volontà di “dare una forma stessa alle cose”. C’è violenza nell’arte, nella letteratura stessa, e non solo nella vita nuda.
Il potere è una delle cose
più pervasive del mondo, fa parte della cultura e della nostra società. Cito spesso una frase da Petrolio di Pasolini che dice: «Io analizzo il potere. Lo combatto. Lo odio. Ciononostante, nel
momento in cui scrivo questo romanzo e organizzo la
realtà in un
ordine, in una forma, esercito un potere». In una maniera magari mite ma è comunque un potere. Sembra
difficile sfuggire al
potere e
quindi l’unico modo per
gestire un rapporto che non sia subalterno al potere, è
quello di riconoscere un potere anche in noi stessi, di riconoscerlo in ciò
che ci è più vicino. Di vederlo nei suoi aspetti più anonimi, anche più neutri. Canetti parlava di Kafka che
rifiuta il potere in tutte le
sue forme. Ma come rifiuta il potere Kafka? Kafka ci dice che
per rifiutare il potere bisogna diventare
insetti, cani, topi. Però lui a questa libertà
ci arriva con Josephine la cantante o il popolo dei topi
che non ha più voce,
ma
già l’insetto della Metamorfosi, quando spaventa la madre, esercita un potere attraverso l’orrore.
Nelle pagine iniziali del suo
libro, “Forme del sapere”, lei
pone la questione del come sottrarsi a questo istinto di sopraffazione
e di controllo. E’ alla
ricerca di «qualcosa che non
porti a un dominio, neanche a una
volontà di sapere, ma ad una esperienza di sé».
Un modo per
sottrarsi sta nel
riconoscere la presenza e
il fascino
del potere. Si tratta di gestire questo rapporto aprendo un conflitto con
il potere e anche con il fascino che questo potere può esercitare dentro di noi. Anche nella vita quotidiana. Parlo della violenza familiare, della violenza negli stadi, della violenza in
tutte le forme di affermazione di
potere anche micologico. Parlo del potere su
una donna, su un
figlio, su un bambino, o
anche semplicemente su un
oggetto. Un soggetto che si riconosca in tutta la propria complessità – nel
bene e nel
male che coltiva dentro di sé – può realizzare un confronto con
il potere che non lo veda subalterno.
Recensendo il suo “Ai
confini del corpo” (che è
stato ristampato quest’anno), Lea Melandri mette a fuoco la singolarità della sua opera, guardare, la
sua disponibilità a
«il cambiamento
che lei introduce e che riguarda il soggetto maschile, il suo lasciarsi guardare la sua
capacità a lasciarsi raccontare...”.
Forse proprio in virtù di queste ragioni di cui parla Lea Melandri, io sono in realtà un filosofo demodè. Ormai funzionano di più i
filosofi che parlano di Dio come Mancuso. Libri come i
miei non sono visti molto bene. Per
esempio dell’ultimo mio libro sono state stampate poche copie. A
Milano un amico l’ha cercato in sette librerie prima di trovarlo. Non è una lamentela la mia.
Io
ho lavorato tanto, ho scritto tanto, ma effettivamente in
questo periodo mi trovo ad essere marginale
rispetto alle cose
che vengono discusse adesso come il nuovo realismo…
Non
può essere un privilegio?
Essere isolato?
No,
essere inattuali.
Da questo punto di vista, può essere stato un privilegio andarmene anticipatamente dall’Università perché mi dava fastidio come si stava organizzando. Un privilegio dire e
fare le cose
che mi piacciono.
Su questo punto non c’è dubbio. Arriverà il momento magari per cui, in
virtù di questo privilegio, non mi daranno più spazio per parlare e per
esprimermi.
Mai
tentato dalla vita metropolitana?
Non mi sono mai spostato da
Rovereto.
Dove vive
con
la stessa donna di sempre.
Si, da cinquant’anni la stessa moglie… La cosa
fondamentale per me,
a parte i rapporti umani, che hanno sempre una grande
pregnanza e una grande
densità, è stata quella di potermi concentrare su me stesso, su quello che
voglio fare. Io ho rifiutato di andare a insegnare in
America quando me l’hanno proposto. Rovereto è un
posto in cui economicamente potevo permettermi di avere una casa e
uno studio separato, un luogo in cui
sono da solo
con quello che
penso, con
quello che scrivo.
Com’era la
sua famiglia d’origine?
Mio padre era
un artigiano, che però aveva una biblioteca che era fornita di molti libri a cui io ho attinto clandestinamente nella tarda infanzia e nella primissima adolescenza, portandomi
via Maupassant, Dostoevskij, Dickens… C’erano i
grandi classici assieme ad alcuni scrittori moderni come Hemingway e
come Steinbeck. Mia madre aveva lavorato a lungo come operaia prima di
fare la casalinga, aveva frequentato solo
le scuole elementari, ma
era una donna di una intelligenza
strepitosa. Aveva una acutezza assoluta nel penetrare le cose.
Ha
figli?
Una figlia di 35 anni, che fa la coordinatrice psicopedagogia e lavora negli asili nidi.
Quando l’hanno influenzata le opere di Freud?
I tre
saggi sulla teoria sessuale li ho letti quando facevo la quinta ginnasio. Freud è
stato il mio ingresso nella filosofia. Quando
ho scoperto Nietzsche, è stata un’accoppiata strepitosa. Freud,
Nietzsche e Platone sono state
le tre figure che hanno segnato, polemicamente o in adesione, il mio pensiero.
Si
è mai avvicinato ad un credo religioso?
No. Io avevo un famiglia religiosa e ho seguito la religione fino a quando avevo 15 anni, e
poi mi sono allontanato e
direi che non ho più avuto alcun riavvicinamento. Ogni
tanto penso che dovrei pormi questo
problema, ma è qualcosa di esteriore, non lo sento intimamente.
Le chiamerebbe guerre di religione
quelle a cui
stiamo assistendo?
A me fa orrore qualsiasi fondamentalismo. Quello islamico, quello cristiano, tutti. E il fondamentalismo si manifesta ovunque. Qua nella mia provincia, il vescovo è
intervenuto perché non si voti una legge
sull’omofobia. Non è una forma di fondamentalismo? Ma detesto anche il fondamentalismo iperlaicista. Attualmente direi che la violenza con la quale si esprimono il mondo islamico, la Jihad, non si può leggere
in termini religiosi. E’ una semplificazione. Ci sono più cose
che determinano questa deriva. Sono le questioni religiose, le questioni etniche, ma sono anche gli effetti della
polverizzazione del mondo data dalla globalizzazione. I
jihadisti della Nigeria,
i combattenti dell’Isis
in Iraq e in Siria, quelli
che sono in Afghanistan, quelli che sono in
Inghilterra, in Francia,
in
America, sono delle cellule tutte collegate in una rete. Questa è la faccia violenta del mondo che è stato costruito negli ultimi trenta, quarant’anni.
Lei abbina
alla politica il
genere neutro, nel
senso che opacizza tutto, le grandi
questioni delle vita,
del desiderio, della morte.
Dobbiamo rassegnarci a questo
o lei intravede ancora una possibilità altra di fare politica?
Credo che sia necessario riaffermare la soggettività, dare più peso ai soggetti per toglierlo
alla neutralità.
Ho un moto di rifiuto quando sento espressioni del tipo “I mercati ci daranno ragione!”, “L’Europa
dice..”. Parlare in nome di questi soggetti anonimi ci impedisce di riconoscere che
lì
c’è un avversario
che posso combattere, che
da qualche parte c’è un’idea che posso condividere. Credo che sia veramente qualcosa di
orrendo che costituisca
una
forma di fondamentalismo interno all’Occidente, interno alla
cultura dell’Europa e dell’America. Parlo di questa dimensione in cui il dominio è quello di soggetti neutri. Soggetti che non sono individuati né individuabili. Dove
esiste il capitale lavoro? Chi
lo
detiene? La de-localizzazione è tremenda. La Fiat che
incorpora una ditta americana,
prende sede ad Amsterdam, paga
le
tasse a Londra e
si quota sulla Borsa
di
New York è un esempio dello sfuggire continuo di
qualsiasi soggetto
che diventa così inafferrabile.
Il
suo prossimo libro sarà sul tempo…
Sì, io
sto scrivendo sul
tempo… Con la vittoria del tempo lineare,
cumulativo, della scienza e
dello storicismo, il tempo perde la forma dell’umano. Il tempo umano è un
tempo che ha
un inizio e
ha una fine. Questa fenomeno porta tutta una serie di perversioni nell’esperienza del tempo. Parlavo prima della velocità
che contiene in sé l’estraniazione, e i tentativi fatti
per ri-umanizzare il tempo. Penso per
esempio al “grande attimo” di Nietzsche che arresta il tempo. Penso al “tempo ripetizione” di Freud in cui
si possono esperire le
cose del passato facendole tornare.
Penso a Proust. Penso al
tempo della narrazione: il romanzo ha un
inizio e una fine,
quindi dà
una misura umana al tempo. Vorrei arrivare a
parlare anche del tempo dell’esilio, cioè a Kafka che come dice Hannah
Arendt vive in
una specie di “lacuna del tempo”. E del tempo della fine di Thomas Mann, quando dice che dopo il diluvio non c’è più niente da dire se non ricapitolare i
miti dell’Occidente. Per arrivare, infine,
a parlare del
tempo di cui abbiamo parlato io e lei fino a un attimo fa.
Fin
da ”Il silenzio e
le parole”, lei ha molto riflettuto sul problema della morte. Non
le sfugge, appunto. Ma c’è una
strana calma in quei discorsi che fa.
Il pensiero della morte è
un pensiero che mi
ha sempre accompagnato da
quando io avevo 8, 9 anni. Ricordo che
già allora mi angosciava molto l’idea.
Poi sono arrivato a
convivere con il pensiero della morte.
La morte fa così profondamente
parte della vita che
possiamo riuscire ad avere un rapporto autentico con la vita solo
se riusciamo a comprendere in questo rapporto anche l’idea della
morte, che invece in genere viene allontanata. Come dice Freud, il nostro inconscio non crede alla
nostra morte. Oppure, come dice Bataille, l’esperienza completa
della vita comprende la morte ma è impossibile perché quando muoio non ho più esperienza. Credo che sia necessario avere un rapporto con
la vita che
riesca a comprendere in
sé anche solo
un frammento che si avvicini all’idea della morte.
C’è
qualcosa che l’angoscia?
No, direi di no. Ci sono molte cose che
mi preoccupano. Ci sono molte cose
che mi irritano, che non mi piacciono...
Quali
sono queste cose che la
irritano, che non le piacciono?
Mi irritano molto, aldilà dei fondamentalismi, certe cose della
politica attuale. Quando
sento parlare Angelino Alfano,
mi innervosisco. Quando sento lo stesso Renzi parlare delle “magnifiche
sorti e progressive” ho un
urto, perché è una bugia, una falsità. Ho delle idiosincrasie. Non
ho delle angosce.
Che
giornali legge la mattina?
Leggo un quotidiano locale e la Repubblica. Leggevo spesso L’Unità finché non è
scomparsa, e me
ne sono dispiaciuto. Leggo
Il Corriere del
Trentino perché con- tiene un
inserto su cui ogni
tanto pubblico qualche riflessione.
C’è
forse una sola frase nel
suo ultimo libro che ci fa sperare. E’ una frase di Kafka che lei fa sua e che dice: «Uscire dalla schiera
degli uccisori. Osservare
i fatti».
E sì, questa è la grandezza di Kafka. Ed è qualcosa che
vorrei anch’io per
la
mia vita. Uscire dalla schiera degli uccisori anche mentalmente. Kafka
non uccideva, come non uccido io
e come non uccide lei.
Ma si può ugualmente diventare
un uccisore per procura. Ed è per
questo che odio i fondamentalisti.
Perché non voglio essere
un uccisore. E
vorrei anche avere una mente in grado di ascoltare i
fatti, di non nascondere i fatti, non occultarli.
(intervista pubblicata sul quotidiano "IL GARANTISTA")
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