martedì 28 ottobre 2014

Il filosofo Franco Rella: "Per dire no alla violenza bisogna dire no al potere"


La prima volta che ci sentimmo, Franco Rella parlò da una stanza d’ospedale. L’11 marzo del 2011 il giappone era stato devastato dallo tsunami e ci aiutò a dipanare il  significato di quelle immagini d’apocalisse, le conseguenze che avrebbero portato anche in Occidente. Qualche tempo dopo, discutemmo con  lui il tema dell’eutanasia e il film di Bellocchio che con Bella addormentata, aveva voluto seguire una traccia scomoda del nostro rimosso. Questa volta, non c’è un libro in uscita, né un film che  fa scandalo, da commentare. Ma c’è un sentimento tragico del tempo, uno smarrimento grande, una nuova ondata di barbarie che ci porta a interrogarci su alcune cose fondamentali. Autore di opere centrali del pensiero filosofico contemporaneo (Il silenzio e le parole, Ai confini del corpo, La responsabilità del pensiero, L’enigma della bellezza), professore di Estetica, con il suo ultimo libro, Forme del sapere (Bompiani, 20 euro) Franco Rella ha indagato proprio gli intrecci tra eros, morte e violenza. Consapevole del fatto che la questione del male, così come la questione del potere, intreccia Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo, e ci chiama ad un nuovo processo di ricognizione identitaria.

Non siamo mai stati così correlati e il rumore della testa che cade sotto la mannaia del boia John entra dopo un solo istante nella nostra vita, ovunque noi siamo. Come  legge lei queste immagini di barbarie?
Sono immagini che sembrano venire da un tempo remoto, preistorico, e al tempo stesso sono modernissime, perché si servono di strumenti di  tecnologia raffinata. Sono immagini esibite che servono per attirare gli adepti. Questi soggetti che  vengono presentati privi di identità personale, privi di riferimento, privi di nazione e di nazionalità e di memoria, si ritrovano nell’espressione di una violenza che diviene reale. Da che cosa dipende l’enormità del  suo valore simbolico? Dal fatto che è estrema. Equalcosa che individua, appunto. Qualcosa che  permette di ricostruire una identità attorno al gesto violento e a quello che sta dietro il gesto violento.

Paradossalmente, invece di ritirarci, le andiamo incontro, la amplifichiamo, irrobustiamo l’immagine barbarica con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. La esibiamo doppiamente. Perché?
Quel gesto ormai appartiene intimamente al nostro tessuto esistenziale. L’11 settembre ha inserito nella nostra vita quotidiana quello che era latente ma che era difficile cogliere, cioè una violenza che entra quasi nelle molecole del nostro vissuto. E così, anche questa violenza della testa decapitata fa intimamente parte di noi. Viene così enfatizzata perché ci si riconosce. Ci fa orrore ma nell’orrore riconosciamo qualcosa che è anche nostro.

C’è un tratto specifico, un  sentimento dominante che allaccia Oriente e Occidente in questo momento del tempo?
Non c’è un  tratto precipuo, un punto in cui tutto converge e spiega tutto. Siamo in un’epoca in cui la velocità assoluta di tutte le comunicazioni, la rapidità degli spostamenti finanziari che provocano crisi immani e improvvise, si accompagna, per un verso, ad un senso di impotenza, e per l’altro verso ad una sensazione di stagnazione, e quindi di ripetizione. Mi viene in mente quando Baudelaire, di  fronte all’emergere della metropoli, della folla assordante, accanto a questa immagine esprimeva l’esperienza di  un  corpo immobile che  la neve copre. Questa duplicità che racconta il tempo del moderno si è ulteriormente radicalizzata ai nostri giorni. Accanto a questa velocità del movimento del capitale e delle tecnologie al lavoro tutte insieme, c’è un accumulo enorme di dati di memoria. Ma è la memoria di nessuno, una memoria anonima. Mentre sembra che gli individui singoli facciano fatica ad accumulare una propria memoria.

Questi soggetti senza memoria quale modello di società vanno disegnando?
Effettivamente forse l’aggressione al concetto stesso di soggetto che è stata fatta da  Foucault e poi da Deleuze, e che io ho criticato moltissimo nella mia vita, alla fine era invece profetica rispetto a quello che sta avvenendo. Quando Deleuze distruggeva il concetto di soggetto, lo sostituiva con questi flussi, con queste macchine molari e molecolari, forse vedeva una dimensione che emerge anche nel soggetto singolo e nei macro-soggetti che  possono essere le comunità, quelle che fanno fatica a riconoscersi in una identità che le definisca rispetto all’altro.

Non si può parlare di violenza senza analizzare le forme del potere che si esprimono a vari livelli, e che lei vede in atto addirittura nella volontà di “dare una forma stessa alle cose”. C’è violenza nell’arte, nella letteratura stessa, e non solo  nella vita nuda.
Il potere è una delle cose più pervasive del mondo, fa parte della cultura e della nostra società. Cito spesso una frase da Petrolio di Pasolini che dice: «Io analizzo il potere. Lo combatto. Lo odio. Ciononostante, nel momento in cui scrivo questo romanzo e organizzo la realtà in  un ordine, in una forma, esercito un potere». In una maniera magari mite ma è comunque un  potere. Sembra difficile sfuggire al potere e quindi l’unico modo per gestire un rapporto che non sia subalterno al potere, è quello di riconoscere un potere anche in noi stessi, di riconoscerlo in ciò che ci è più vicino. Di vederlo nei suoi aspetti più anonimi, anche più neutri. Canetti parlava di Kafka che rifiuta il potere in tutte le sue forme. Ma come rifiuta il potere Kafka?  Kafka ci dice che  per rifiutare il potere bisogna diventare insetti, cani, topi. Però lui a questa libertà ci arriva con Josephine la cantante o il popolo dei  topi che non ha più voce, ma già l’insetto della Metamorfosi, quando spaventa la madre, esercita un  potere attraverso l’orrore.

Nelle pagine iniziali del suo libro, “Forme del sapere”, lei pone la questione del come sottrarsi a questo istinto di sopraffazione e di controllo. E alla ricerca di «qualcosa che non porti a un dominio, neanche a una volontà di sapere, ma ad una esperienza di sé».
Un  modo per  sottrarsi sta  nel  riconoscere la presenza e il fascino del potere. Si tratta di gestire questo rapporto aprendo un  conflitto con  il potere e anche con  il fascino  che  questo potere può esercitare dentro di noi. Anche nella vita quotidiana. Parlo della violenza familiare, della violenza negli stadi, della violenza in tutte le forme di affermazione di  potere anche micologico. Parlo del potere su una donna, su  un  figlio, su un bambino, o anche semplicemente su un  oggetto. Un soggetto che si riconosca in tutta la propria complessità nel  bene e nel  male che coltiva dentro di sé può realizzare un confronto con  il potere che  non lo  veda subalterno.

Recensendo  il suo “Ai  confini del  corpo” (che è stato ristampato  quest’anno), Lea Melandri mette a fuoco la singolarità della sua opera,  guardare, la  sua  disponibilità a «il cambiamento che lei introduce e che riguarda il soggetto maschile, il suo lasciarsi guardare la sua capacità a lasciarsi raccontare...”.
Forse proprio in virtù di queste ragioni di cui parla Lea Melandri, io sono in realtà un filosofo demo. Ormai funzionano di più i filosofi che  parlano di Dio come Mancuso. Libri come i miei non sono visti molto bene. Per  esempio dell’ultimo  mio libro sono state stampate poche copie. A Milano un  amico l’ha cercato in sette librerie prima di trovarlo. Non è una lamentela la mia. Io ho lavorato tanto, ho  scritto tanto, ma effettivamente in  questo periodo mi trovo ad essere marginale rispetto alle cose che vengono discusse adesso come il nuovo realismo…

Non può essere un privilegio?
Essere isolato?

No, essere inattuali.
Da questo punto di vista, può essere stato un  privilegio andarmene anticipatamente dall’Università perché mi dava fastidio come si stava organizzando. Un privilegio dire e fare le cose  che  mi piacciono. Su questo punto non c’è dubbio. Arriverà il momento magari per cui, in virtù di questo privilegio, non mi daranno più spazio per parlare e per esprimermi.

Mai tentato dalla vita metropolitana?
Non mi sono mai spostato da Rovereto.

Dove vive con la stessa donna di sempre.
Si, da cinquant’anni la stessa moglie… La cosa fondamentale per me, a parte i rapporti umani, che hanno sempre una grande pregnanza e una grande densità, è stata quella di potermi concentrare su me stesso, su quello che voglio fare. Io ho rifiutato di andare a insegnare in America quando me l’hanno proposto. Rovereto è un  posto in  cui economicamente potevo permettermi di  avere una casa e uno studio separato, un luogo in cui sono da solo con quello che penso, con quello che scrivo.

Com’era la sua famiglia d’origine?
Mio padre era un artigiano, che però aveva una biblioteca che era fornita di molti libri a cui io ho attinto clandestinamente nella tarda infanzia e nella  primissima adolescenza, portandomi via Maupassant, Dostoevskij, Dickens… C’erano i grandi classici assieme ad alcuni scrittori moderni come Hemingway e come Steinbeck.       Mia madre aveva lavorato a lungo come operaia prima di fare la casalinga, aveva frequentato solo le scuole elementari, ma era una donna di una intelligenza strepitosa. Aveva una acutezza assoluta nel penetrare le cose.

Ha figli?
Una figlia di 35 anni, che fa la coordinatrice psicopedagogia e lavora negli asili nidi.

Quando l’hanno influenzata le opere di Freud?
I tre  saggi  sulla teoria sessuale li ho  letti quando facevo la  quinta ginnasio. Freud è stato il mio  ingresso nella filosofia. Quando ho scoperto Nietzsche, è stata un’accoppiata strepitosa. Freud, Nietzsche e Platone sono state le tre figure  che hanno segnato, polemicamente o in adesione, il mio pensiero.

Si è mai  avvicinato ad un credo religioso?
No. Io avevo un famiglia religiosa e ho seguito la religione fino  a quando avevo 15  anni, e poi mi sono allontanato e direi che non ho più avuto alcun riavvicinamento. Ogni tanto penso che dovrei pormi questo problema, ma è qualcosa di esteriore, non lo sento intimamente.

Le chiamerebbe guerre di religione quelle a cui stiamo assistendo?
A me fa orrore qualsiasi fondamentalismo. Quello islamico, quello cristiano,  tutti. E il fondamentalismo si manifesta ovunque. Qua nella mia provincia, il  vescovo è  intervenuto perché non si voti  una legge  sull’omofobia. Non  è  una forma di fondamentalismo? Ma detesto anche  il fondamentalismo iperlaicista.  Attualmente direi che  la violenza con la quale si esprimono il mondo islamico, la Jihad, non si può leggere in termini religiosi. E’ una semplificazione. Ci sono più cose  che determinano questa deriva.  Sono le  questioni religiose, le questioni etniche, ma sono anche gli effetti della polverizzazione del mondo data dalla globalizzazione. I  jihadisti della Nigeria, i combattenti dell’Isis in Iraq e in Siria, quelli che sono in Afghanistan, quelli che sono in Inghilterra, in  Francia, in   America, sono delle cellule tutte collegate in una  rete. Questa è la faccia violenta del mondo che è stato costruito negli ultimi trenta, quarant’anni.

Lei abbina alla politica il genere neutro, nel senso che opacizza tutto, le grandi  questioni delle vita, del desiderio,  della morte. Dobbiamo rassegnarci            a questo o lei  intravede ancora una possibilità altra di fare politica?
Credo che  sia necessario riaffermare la soggettività, dare più peso ai soggetti per toglierlo alla neutrali.  Ho un moto di  rifiuto quando sento espressioni del  tipo I mercati ci daranno ragione!”, L’Europa dice..”.  Parlare in nome di questi soggetti anonimi ci impedisce di riconoscere che lì c’è un  avversario  che  posso combattere, che  da qualche parte c’è un’idea che posso condividere. Credo che sia veramente qualcosa di orrendo che costituisca una forma di fondamentalismo interno all’Occidente, interno alla cultura dell’Europa e dell’America. Parlo di questa dimensione in cui il dominio è quello di soggetti neutri. Soggetti che non sono individuati né individuabili. Dove esiste il capitale lavoro? Chi lo detiene? La de-localizzazione è tremenda. La Fiat che incorpora una ditta americana,  prende sede ad Amsterdam, paga le tasse a Londra e si quota sulla Borsa di New  York è un esempio dello sfuggire continuo di  qualsiasi soggetto che diventa così  inafferrabile.

Il suo prossimo libro sarà sul tempo…
,  io  sto  scrivendo sul  tempo… Con la vittoria del  tempo lineare, cumulativo, della scienza e dello storicismo, il tempo perde la forma dell’umano. Il tempo umano è un  tempo che  ha  un  inizio e ha una fine.  Questa fenomeno porta tutta una serie di perversioni nell’esperienza  del   tempo. Parlavo prima della velocità che contiene in  sé lestraniazione, e i tentativi  fatti per ri-umanizzare il  tempo. Penso per  esempio al “grande attimo di Nietzsche che arresta il tempo. Penso al “tempo ripetizionedi Freud in cui si possono esperire le cose del passato facendole tornare. Penso a Proust. Penso al tempo della narrazione: il romanzo ha un inizio e una fine,  quindi dà una misura umana al tempo. Vorrei arrivare a parlare anche del tempo dell’esilio, cioè a Kafka che come dice Hannah Arendt vive  in  una specie di  “lacuna del tempo”. E del  tempo della fine  di Thomas Mann, quando dice che dopo il diluvio non c’è più niente da dire se non ricapitolare i miti dell’Occidente. Per arrivare, infine, a parlare del tempo di cui abbiamo parlato io e lei fino  a un attimo fa.

Fin da ”Il silenzio e le parole”, lei ha molto riflettuto sul problema della morte.     Non le sfugge, appunto. Ma c’è una strana calma in quei discorsi che fa.
Il  pensiero della morte è un pensiero che mi ha sempre accompagnato da quando io avevo 8, 9 anni. Ricordo che già allora mi angosciava molto l’idea. Poi sono arrivato a convivere con il pensiero della morte.
La morte fa così  profondamente  parte della vita che possiamo riuscire ad avere un  rapporto autentico con  la vita  solo  se riusciamo a comprendere in questo rapporto anche l’idea della morte, che  invece in genere viene allontanata. Come dice Freud, il nostro inconscio non crede alla  nostra morte. Oppure, come dice Bataille, l’esperienza completa della vita comprende la morte ma è impossibile perché quando muoio non ho più esperienza. Credo che sia  necessario avere un  rapporto con  la vita  che  riesca a comprendere in sé anche solo un frammento che si avvicini all’idea della morte.

C’è qualcosa che l’angoscia?
No, direi di no. Ci sono molte cose che mi preoccupano. Ci sono molte cose che  mi irritano, che non mi piacciono...

Quali sono queste cose che la irritano, che non le piacciono?
Mi irritano molto, aldilà dei fondamentalismi, certe cose della politica attuale. Quando sento parlare Angelino Alfano, mi innervosisco. Quando sento lo stesso  Renzi parlare delle “magnifiche sorti e progressive ho un  urto, perché è una bugia, una falsi. Ho delle idiosincrasie. Non ho delle angosce.

Che giornali legge la mattina?
Leggo un  quotidiano locale e la Repubblica.  Leggevo spesso L’Unità finché non è scomparsa, e me  ne  sono dispiaciuto. Leggo  Il Corriere  del  Trentino perché con- tiene un  inserto su cui  ogni  tanto pubblico qualche riflessione.

C’è forse una sola frase nel suo ultimo libro che ci fa sperare. E’ una frase di Kafka che lei fa sua e che dice: «Uscire dalla schiera degli  uccisori. Osservare i fatti».
E , questa è la grandezza di Kafka.  Ed è qualcosa che vorrei anch’io per la mia  vita. Uscire dalla schiera degli uccisori anche mentalmente. Kafka non uccideva, come non uccido io e come non uccide lei.  Ma si può ugualmente diventare un uccisore per procura. Ed è per questo che odio i fondamentalisti.
Perché non voglio essere un  uccisore. E vorrei anche avere una mente in grado  di ascoltare i fatti, di non nascondere i fatti, non occultarli.

(intervista pubblicata sul quotidiano "IL GARANTISTA")

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