La malattia mentale è forse l’ultimo dei tabù, e anche dire che è un tabù potrebbe significare rassegnarsi all’idea che lo sia. Il confine è sottile. Quando per strada incontriamo qualcuno che non ha tutte le rotelle a posto e ci si rivolge in maniera “strana”, giriamo l’angolo, o sorridiamo ebeti dicendoci mentalmente: “speriamo che sparisca al più presto” (ed è un pensiero che facciamo più per noi che per lui). Se invece il matto ce l’abbiamo in famiglia, tendiamo a nasconderlo, perché ce ne vergogniamo. In qualche caso, finiremo per scoprire che quel matto siamo noi. E senza arrivare a quest’estremo, capiterà almeno una volta nella vita di sentire cosa significa poter precipitare nella follia. E’ per tutte queste ragioni che l’evento appena concluso a Pesaro (oggi è l’ultimo giorno) ma le cui tracce potremo trovare sul sito www.homessoletuescarpe.it, si delinea come una delle poche occasioni per fare un processo di reenactment, mettendoci letteralmente nei panni dell’altro. Studiato come un percorso di avvicinamento alla malattia mentale, Stamattina ho messo le tue scarpe è una iniziativa direata e diretta da Elena Mattioli e Flavio Perazzini del collettivo LeleMarcojanni e prodotta dalla Cooperativa sociale Alpha. Si svolge in tre tappe: assenza, scoperta, ritorno. E ci chiama a immaginare veramente chi siano queste persone che vivono nella struttura residenziale di Bevano, da dove vengono, cosa hanno perso, cosa desiderano, se desiderano ancora qualcosa. «Con questo progetto vogliamo raccontare questa realtà della ma- lattia mentale che è costellata di tabù e sterotipi - dice Flavio Perazzini, che ha 31 anni e fa il documentarista - in una maniera dif- ferente che permettesse alle persone che non hanno di solito a che fare con questa realtà di avvicinarsi attraverso un percorso, per provare a mettersi nei panni di chi vive ogni giorno questo disagio. Abbiamo pensato di rivolgerci ad artisti, sperti della comuni- cazione, narratori, e quindi non solo a coloro che si muovono nel campo specificamente della psichiatria, per raccontare le storie di queste persone disagiate o attraverso racconti illustrati e progetti installativi. Stamattina ho messo le tue scarpe per il secondo anno si fa a Pesaro, ma ogni due anni si sposta in una città diversa».
Di Centri Diurni e Residenziali avanzati non
ce ne sono molti in Italia. E quello di Bevano è
un modello unico se non
altro per- ché le trenta persone che
ci vivono (coloro che non
subiscono un trattamento sanitario obbligatorio in ospedale psichiatrico) non de- vono pagare nulla. In tutte le altre strutture invece c’è il contributo economico delle famiglie. Ma per quanto eccellente, è
pur sempre un luogo in cui la malattia mentale si confronta drammaticamnete sempre solo con se stessa. Per una volta, quindi, i suoi
”abitanti” sono usciti per
lasciare entrare
gli spettatori. Arrivano
avvocati, stu- denti, opeari, persone
di tutti i
ti- pi per vivere quella
tremenda ”assenza”: «Il percorso si sviluppa in tre parti -
spiega Perazzini -
La prima parte si chiama ”assenza” dove i partecipanti si immergono nella struttura
che è stata svuotata il giorno prima. Non
è un
racconto mediato,
per cui ciascuno decide cosa vuole vedere, cosa vuole toccare, il tempo in cui vuole rimanere a
contatto con gli assenti/presenti. Nella seconda parte della ”scoperta”, i visitatori iniziano un percorso in città, a Pesaro, dove viene mostrato
il documentario che
abbiamo fatto, in cui parlano le persone che vivono a Bevano e raccontano le loro storie di vita.
La terza parte finale è
quella del ”ritorno” in cui
l’esperienza vissuta nei primi due momenti viene rielaborata in un momento di confronto collettivo». Mentre l’illustratore Giordano Poloni ha raccontato in immagini le storie raccolte
a Bevano (si possono vedere sul
sito),
Matteo Fari - nella, neuroscienziato con la passione del fumetto che
vive a Londra, ha parlato di quello che
succede all’interno della nostra mente, usando le illustrazioni del graphic novel Neurocomic realizzato assieme alla
collega Hana Ros. Viene sempre da chiedersi quanto le persone ”oggetto di narrazione” riescano ad avere una diversa e migliore percezione di sé, in seguito ad iniziative come queste.
«Mentre lavoriamo, restiamo sempre di restituire la consapevolezza di quello che
stiamo facendo alle
persone le cui storie raccontiamo. Ci confrontiamo con la realtà del
disagio mentale
che è molto complicata - conclude Perazzini - Io ho solo
una chiave narrativa e non
scientifica, ma posso dire che si crea
un meccanismo positivo, teso
a valorizzare la
persona ”isolata”
che al di
là del proprio cerchio
ristretto di
psicologi e medici, non ha mai
la possibilità di raccontare la
propria storia.
E questo bisogno,
le
assicuro, è vitale, è anch’esso cura».
(Pubblicato su "Il Garantista")
(Pubblicato su "Il Garantista")
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