Due uomini che raccontano di donne non come vittime ma come
vendicatrici. Un romanziere (e drammaturgo) e uno sceneggiatore che, andando contro
la corrente, non abbracciano il catastrofismo, non ci seducono doppiando in
forma bella il crimine del reale, ma vanno immaginando quello che potrebbe
accadere se le donne si unissero e si ribellassero. Una rivoluzione,
praticamente. La rivoluzione. Dietro
la quadrilogia di Massimo Carlotto e Marco Videtta (Le vendicatrici, Einaudi), c’è una visione politica, e una
frequentazione del sottosuolo. Un po’ come facevano Baudelaire e gli scrittori
francesi che abbiamo tanto ammirato, i due autori si sono messi ad ascoltare la
lingua del mondo di sotto e, una volta risaliti in superficie, hanno forgiato
le immagini di quattro donne capaci di reazione, attorno alle quali si muove un
esercito di uomini sbagliati. Ksenia, la prima ribelle, ha avuto il suo
personale consenso. E c’è da immaginare che l’avranno anche le altre donne
stanche di subire violenza, Luz, Eva, e anche Sara, che porterà il mistero più
grande, ma solo alla fine della “saga”. Della sua genesi e della sua emersione
parliamo qui con Massimo Carlotto: ed è l’occasione per discutere anche di
altro, di Roma, per esempio, e di questa nuova fase italiana di conflitto
sociale. Ma anche del segreto di una vita come la sua, che al suo punto
d’origine ha una vicenda terribile e rocambolesca (raccontata nel Fuggiasco) ma che è stata poi travolta
da mille altre figurazioni che lo scrittore e l’uomo hanno saputo costruire,
perché «se
di vita ce né una sola, di esistenze ce ne sono tante».
Carlotto, come è
apparsa l’immagine delle “Vendicatrici”?
Tre anni fa con Marco Videtta abbiamo cominciato a ragionare
sulla relazione tra mondo femminile e crisi economica. Abbiamo capito come la
crisi stesse ulteriormente erodendo i diritti delle donne, attraverso il
ricatto economico. E che di conseguenza
l’escalation di violenza contro le donne avrebbe arricchito molto la cronaca
degli anni a seguire. E su questo
abbiamo pensato di costruire un romanzo, anzi quattro romanzi.
Che parlano di donne
abusate ma soprattutto di uomini sbagliati.
Il mondo è pieno di uomini sbagliati. Questi uomini
sbagliati dominano la vita di altrettante donne in maniera assolutamente
devastante. Si, la riflessione era proprio questa: il mondo maschile è
evidentemente in crisi e mostra tutta la sua fragilità. L’uomo non riesce più a
proporsi in maniera positiva e ha bisogno di imporsi attraverso il dominio, il
possesso. Non sa vivere senza punti di riferimento e non è in grado di
ricominciare.
Questa violenta fragilità
del maschile è oggi solo più evidente, nelle sue denunce e narrazioni ,oppure è
esplosa come non era mai successo prima?
Il modello dominante è stato quello patriarcale, e oggi il
fallimento di questo modello è talmente evidente che sono saltati i pilastri e
i lacci che lo reggevano. La contraddizione è esplosa. Quindi l’idea era questa:
scriviamo non un romanzo ma quattro romanzi per raccontare la vita delle donne
ma anche e soprattutto la storia degli uomini sbagliati.
Come e quando
verranno a farci visita le vostre vendicatrici?
Dal materiale che è emerso abbiamo individuato quattro
filoni: la disperazione delle straniere che le spinge a sposare un italiano (le
spose siberiane);il gioco d’azzardo raccontato attraverso la figura di Eva; il
mondo della prostituzione (la colombiana Luz); infine c’è il personaggio di
Sara, che porta in sé un grande mistero. Ksenia e Luz sono straniere, Sara ed
Eva sono romane. A maggio è uscito il primo romanzo, a giugno il secondo, il
terzo uscirà a settembre e il quarto infine è previsto in libreria per
novembre. Era importante che uscissero in tempi ravvicinati.
Il motivo della
vendetta è un motivo ancestrale. Perché avete deciso di lavorare su un elemento
così arcaico, irriducibile ad altro?
E’ vero che il tema della vendetta è un tema arcaico, ma le
nostre vendicatrici non si vendicano solo perché è giusto e necessario. Le loro
azioni sono un primo passo verso il riscatto, verso una vita degna. Per noi la
vendetta è la ribellione delle vittime. Se oggi il mondo femminile non apre un
conflitto con questi uomini sbagliati, avremo sempre e solo una situazione di
difesa ma non la soluzione del problema.
Che è anche un modo
per uscire dal vittimismo.
Esattamente. Sulle
vittime e sul vittimismo il discorso sarebbe lungo. Ma quello che è sicuro è
che le donne vivono una grande solitudine.
Ksenia, Eva, Luz e Sara
che soluzione trovano alla tragedia della solitudine?
Sono un gruppo di donne che si mettono insieme e proprio
nell’unione trovano la forza per salvaguardare i sentimenti più forti: l’amore,
l’amicizia, la solidarietà, il senso della vita. La vita diventa un progetto
che diventa realizzabile solo nell’unione. Il primo passo è affrancarsi da questi uomini
sbagliati e per affrancarsi le donne non possono che passare però attraverso una
inziale difesa.
La solitudine è
l’arteria che infetta l’organismo malato del Paese…
E’ così. Se pensiamo che solo a Roma ci sono 3.500 sale da
gioco, tra slot machine e affini. Per raccogliere il materiale per Le vendicatrici, abbiamo passato molto
tempo dentro i bingo, frequentati da uomini e donne, e lì tocchi con mano
quanto sia devastante la solitudine. Il gioco è diventato un modo per tenere in
piedi un’esistenza che non ha riparo e sostegno da nessuna parte. Quindi, da una parte c’è la tragedia della
solitudine, e dall’altra c’è una generale incapacità di reazione alla crisi. Roma produce grandissima solitudine, è la città
stessa a produrre separazione. Vuol dire che questo modello sociale è
completamente fallito. E le donne sono i soggetti più a rischio. Per superare
la solitudine sono pronte ad accettare situazioni terribili.
Perché poi alle volte
il tuo carnefice si traveste da protettore e ti
fa sentire “in famiglia”, come se la famiglia fosse sempre una cosa
bella, mentre è proprio lì dentro che si sviluppano i sistemi più sofisticati
di potere e sopraffazione.
Nelle Vendicatrici cerchiamo
proprio di mettere a nudo tutti questi
meccanismi di falsa protezione. La cosa nuova è proprio il punto di vita: il
racconto di chi poteva essere una vittima totale e invece, alleandosi con altre
donne, si ribella e in questo modo cambia il proprio destino.
E per costruire i
ritratti degli uomini sbagliati a quale mondo avete fatto riferimento?
In questi quattro romanzi abbiamo definito in maniera molto
chiara quello che non ci piace degli uomini. Ci sono tantissimi personaggi e
ognuno di loro, senza essere uno stereotipo, rappresenta un aspetto che ci
interessava raccontare: il rapporto tra gli uomini e il sesso, per esempio.
Quello che narriamo del mondo della prostituzione si basa sulle innumerevoli
interviste che abbiamo fatto ad alcune professioniste del sesso. Questo per
dire che le figure descritte sono assolutamente reali. Naturalmente c’è anche
molta ironia nella descrizione di una certa romanità.
Crede che questo sia
un momento storico di nuova conflittualità sociale? E come si manifesta
rispetto agli anni caldi della contestazione di cui lei, come giovanissimo
militante di Lotta Continua, negli anni Settanta era stato protagonista?
Per molti anni, il noir per me è stato uno strumento
straordinario per raccontare la crisi, il suo arrivo e la sua conclamazione. In
questa fase della storia italiana, è importante però passare dalla letteratura della crisi alla letteratura del conflitto. Questi quattro romanzi raccontano proprio il
conflitto nato dalla crisi, che non è solo un conflitto di tipo sociale ed
economico, ma è anche antropologico, culturale. Perché la crisi sta modificando
tutto. Parlare esplicitamente della condizione femminile significa entrare nel
cuore della letteratura del conflitto. Io penso che il conflitto oggi sia una
dimensione generalizzata che però ha molte sfaccettature. Per esempio il come le persone vivono le crisi è in sé
e per sé una forma di conflitto perché porta modificazioni antropologiche. Per
quel che riguarda la condizione femminile, l’emergenza della cronaca è solo la
punta dell’iceberg. Perché quando tre anni fa avevamo intuito che si sarebbe
arrivato a questo tipo di violenza contro le donne, ci eravamo posti
l’obiettivo di raccontare quello che c’è sotto. Quello che c’è in superficie,
la cronaca, non basta. Molti autori e molte autrici stanno narrando questi
fatti di cronaca, ma a noi non sembrava sufficiente. Quello che a noi premeva era
di dire in maniera molto chiara che oggi le donne devono aprire un conflitto nei
confronti di questo mondo maschile sbagliato. Questo è un compito che si devono
assumere sia uomini che donne. L’idea delle vendicatrici è un’idea politica.
Nel primo romanzo si
parla di via Merulana. E’ lì che avete vissuto per fare la vostra ricerca sul
campo?
La nominiamo soprattutto come omaggio a Gadda, al Pasticciaccio brutto di via Merulana.
Diciamo che la protagonista è la città di Roma, una città in cui la violenza è
riesplosa a livelli incredibili.
Il film di Sorrentino
ha fatto puntare i riflettori di nuovo su Roma e sui suoi feroci e sublimi
contrasti. Roma della grande bellezza e Roma delle grandi miserie. Che Roma è
quella che conosce lei?
Anche se vivo a Padova, Roma la conosco bene perché l’ho
frequentata fin da bambino (ci vivono alcuni parenti), e poi ci lavoro perché
l’agenzia , le case editrici e le case di produzione con cui collaboro sono
tutte a Roma. E’ una città che amo moltissimo. Ma è anche una città che mi ha
colpito nella sua trasformazione negativa. Il mio è un giudizio anche politico,
perché penso che la giunta Alemanno abbia spalancato le porte al peggio. Con
una congiuntura criminale di un certo tipo: riciclaggio, corruzione anche nelle
istituzioni. Imprenditoria, finanza e politica sono diventati i luoghi dove
meglio si infiltrano le mafie. Roma è
stata la prima città d’Italia che ha reso palese e profonda per esempio la
trasformazione del mondo dell’usura. Non è più una dimensione di quartiere, ma
è diventato un collettore di soldi che poi vanno a finanziare determinate
situazioni: così l’usuraio si è trasformato in una banda. Nato a Roma, questo
modello si è espanso e ha infettato tutto il territorio nazionale. Questo per
dire che evidentemente a Roma c’è una situazione sociale allarmante che ha
portato a una trasformazione criminale
diventata un prototipo.
C’è una domanda che avrei sempre voluto farle. Quale è stata la chiave di volta affinché la sua lunga e travagliata vicenda originaria che ha raccontato nel “Fuggiasco” non arrivasse a schiacciarla ma diventasse invece combustibile per una svolta autoriale, consapevole? Come è diventato lucido testimone dell’assurdo?
Non lo so. Sono passati quarant’anni dall’inizio della
vicenda e vent’anni dalla fine. E’ una vita fa. Io non ci ho più pensato. Nel
momento in cui ho scritto l’ultima pagina del Fuggiasco, ho chiuso con quella vicenda. Ho chiuso con quella
esistenza. Perché c’è una vita sola ma le esistenze possono essere molte.
Cosa rappresenta il
teatro per lei?
Una cosa di cui ho bisogno per vivere. Io devo scrivere
almeno un testo teatrale all’anno. E’ una gioia incredibile. Credo che il
teatro sia la forma artistica più vitale e interessante. Oltre alla letteratura,
ovviamente.
(Pubblicata sul settimnale "Gli Altri")
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