mercoledì 1 maggio 2013

Daniele Timpano: e caddi come corpo Mor(t)o cadde. La "liberazione" il 9 maggio

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La cella è un po’ più lunga di tre metri e anche un po’ più larga di un metro. Quella originale era esattamente tre metri per uno, e tre metri per uno sono meno di uno sgabuzzino, meno di un corridoio, un po’ di più di una bara, un po’ meglio di un bagagliaio. Tre metri per uno sono «un’intercapedine, un pannello artificiosamente ricavato alzando un pannello di gesso tra due stanze». Questa nuova cella è sottoterra, a quindici metri sottoterra. Ci vive un tipo con gli occhiali neri. Non somiglia ad Aldo Moro, cioè fisicamente non gli somiglia, se non per via di una nuova magrezza con cui sta modellando il suo corpo, da quando si è messo in testa di entrare in transfert con Aldo Moro e di sparire dalla scena romana facendosi inondare dalle proprie stesse ossessioni. Dal 16 marzo il performer Daniele Timpano si è chiuso volontariamente in una cella ricostruita nel retropalco del Teatro dell’Orologio di Roma. Ci resterà fino al 9 maggio. Il 9 maggio del 1978 era stato ritrovato il cadavere di Aldo Moro a via Caetani.  Dopo 54 giorni di prigionia. 54 e non 55. Ci tiene ad essere preciso, Timpano, perché su questi numeri c’è stata confusione. Per questo la performance live (che si può seguire in streaming www.aldomorto54.it) si  intitola Aldo Morto_54.  Detta così, sembra spaventevole, la cosa, un’azione estetica di pessimo gusto. Come si fa a scherzare su Aldo Moro l’insepolto? Le reazioni di sconcerto, infatti, non si contano. Maria Fida Moro ha scritto una lettera al Corriere della Sera, sostenendo di non essere stata informata su tutta l’operazione Aldo Moro e decretando: «Non mi sembra che simili operazioni possano sublimare in nessun modo la verità». (Timpano le ha risposto ma la sua lettera non è stata pubblicata dal quotidiano milanese) Perché esiste un’ “operazione Aldo Moro”, insomma la storia è più lunga di così. Comincia nel 2011, da un primo studio un po’ oscuro che l’artista romano presenta al teatro India, lasciando tutti di stucco. Che si è messo in testa, Timpano, dove vuole andare a parare (questo era il sentimento collettivo del momento, anche fra chi lo conosceva e gli voleva bene)? Ma poi studiando e archiviando e provando e scrivendo, si era arrivati l’anno scorso allo spettacolo Aldo Morto, che invece sembrava una cosa fatta bene, anzi benissimo, uno spettacolo di un’ora e mezza che suonava quasi come un omaggio ad Aldo Moro, un testo sovraccarico di referti storici, testimonianze, citazioni, ma anche di annotazioni quasi tenere, quando si parlava del figlio che perde un padre, e della vedova e di tutte quelle lettere (novantasette) che Moro aveva scritto dalla prigione, insomma una cosa potente, visionaria, terribile, controversa certo, ma furiosa nella sua avanguardistica ritualità. Ora questo stesso spettacolo va in scena tutte le sere al Teatro dell’Orologio, quando alle ore 21 Daniele Timpano esce dalla sua cella artificiale e fa il suo one man show con tanto di Renault 4 rossa in miniatura, per ritornare subito dopo a dormire sulla brandina scomoda con la copertina grigia. Nella cella, c’è anche la stella rossa, però naturalmente non è la vera stella delle Br, è una lampada tutta illuminata e fosforescente.  Poi c’è un lavandino piccolo-piccolo. Daniele Timpano si è appena lavato i denti. Ci tiene lui a farsi trovare bello pulito, anche se la faccia è davvero stanca, emaciata. Poi nella cella ci sono i libri che legge Timpano per aggiornarsi continuamente con gli anni Settanta: Rosso totale di Fabio Calenda, Corpo di Stato di Marco Baliani (che l’altra sera è andato in teatro),  Le polaroid di Moro di Sergio Bianchi e Raffaella Perna. Poi c’è Pinocchio, proprio quello di Collodi, che l’attore legge in streaming allo spettatore che vuole sintonizzarsi su quanto accade nella cella di Aldo Morto. Ma insomma, a lui, a Timpano, chi glielo fa fare di mandare all’aria la sua buona “reputazione”, perché va a parlare così impunemente con un morto che solo a nominarlo ci fa sentire male? Dopo aver toccato altri cadaveri eccellenti della nostra storia (Mussolini e Mazzini), attraverso cui raccontava a modo suo i miti di fondazione della storia italiana (Risorgimento, Resistenza), l’attore/regista che nel ‘78 aveva solo quattro anni  ha voluto mettersi in una posizione rischiosa, non innocente («Si sono anche io uno sciacallo»), ma pura negli intenti: “Siccome non te lo dice nessuno chi sei, me la sono andata a ricostruire da solo la mia identità di italiano. Nel 1978, mentre il mio Paese viveva questa tragedia, io guardavo i cartoni animati giapponesi (che sono oggetto di un altro mio spettacolo, Ecce robot). Oggi sono voluto entrare in questa cella e in questa storia con molto rispetto ma anche prendendomi direttamente la responsabilità di un lavoro su corpo. Tutto il resto è materiale immaginario e lo tratto proprio come tale: cos’è più vero, il volto di Aldo Moro dalla sua cella o la faccia di Volontè nel film di Petri? Per “immaginario” non intendo soltanto i film ma anche gli atti processuali perché con tutta la buona volontà non li posso considerare attendibili. Tant’è vero che ci sono stati cinque processi con esisti diversissimi. L’unica cosa reale in tutta questa storia è il corpo morto di Aldo Moro”.
Che il corpo del leader Dc, come tutti i cadaveri della storia. sia il quid, il mistero originario e irredento, è cosa indiscutibile. Ce l’aveva dichiarato anche Valerio Morucci quando eravamo andati a intervistarlo e, parlando con tutta la prudenza, ma anche la rabbia e la delicatezza del caso, ci aveva raccontato quella sua ultima drammatica telefonata del 9 maggio 1978, assieme all’altra del 30 aprile di Mario Moretti: «In entrambi i casi, due minuti che ci eravamo dati non sono stati rispettati, ci siamo presi molto più tempo, indugiavamo.. Come Mario non voleva abbandonare la possibilità di salvare Moro, io non volevo abbandonare il suo cadavere. Come se continuare a parlare non mettesse la parola “fine”. Cioè la fine di quella telefonata ci sembrava la fine della storia».
Ed è proprio dal sentimento di fine della storia  che Daniele Timpano è partito per questa sua bulimica, sconcertante, chirurgica e pura passeggiata nelle viscere della nostra storia: «Si, un senso di stallo, che sicuramente è personale forse è generazionale… il senso di tramonto, di sconfitta, di mediocrità che mi circonda e mi pare di occludere l’orizzonte da qualunque scenario diverso che non sia alla fine multinazionali, banche mondiali, finanziarizzazione del mondo. Non vedo altro nel futuro. Tutti quelli che c’erano e mi raccontano gli anni Settanta mi dicono (te l’avrà detto lo stesso Morucci): “Immaginavano una cosa diversa e adesso è una merda”. Io non ho mai immaginato una cosa diversa. lo sono cresciuto nei peggiori anni della storia italiana. Ho sempre e solo immaginato questo Paese come una merda».
(Pubblicato sugli Altri)





1 commento:

Anonimo ha detto...

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