Ogni volta che incontriamo il mondo di Paolo Di Paolo, e Di Paolo stesso, ci ritorna tutto l’insano indicibile amore per il Novecento. E pensare che lui è nato alla fine del secolo scorso, nel 1983. Ma è proprio in virtù di questa sua età che dovrebbe essere poco più che acerba, e che invece acerba non è mai stata, che lo scrittore (e critico letterario) riesce a gettare una luce chiara, anomala, molto poco viziata dalla noia (sospettiamo che sia uno stato d’animo a lui sconosciuto), su certi paesaggi storici e vicende umane che comunemente si vanno rottamando con allegria, abituati come siamo a far poltiglia di tutto per tentare di ingrandire noi stessi raccontando la nostra epica quotidiana in qualche stato di fb. Meno che minimali, confusi, opinionisti dell’ultimo secondo, ci siamo ridotti a non sentire nulla non solo di quello che resta ma di ciò che accade, pienamente, intensamente, accade. Parliamo qui del secolo scorso anche perché Paolo Di Paolo ha da poco lanciato una rivista letteraria Orlando, che dedica una pagina intera alle storiche riviste italiane, e nel primo numero si può rileggere l’audace vicenda di 900, la rivista fondata da Bontempelli nel 1926. Ed è proprio il 1926 l’anno che Paolo Di Paolo indaga nell’ultimo suo romanzo, Mandami tanta vita (Feltrinelli, pp.160, 13 euro), che si svolge tra Torino e Parigi, nei giorni in cui, a soli 24 anni, muore Piero Gobetti. Un romanzo storico e intimo, che si dipana attorno ad un doppio transfert.
Per un verso c’è lui, Gobetti, un ragazzo potente che in
pochi anni di vita fu capace di dire no alla retorica, alla tirannide, alla
mediocrità, ai compromessi, ma che qui viene narrato nel momento del trapasso,
con il corpo che ama e che muore.
E dall’altra c’è Moraldo, nella finzione letteraria uno
studente torinese segnato dalla paura che per lui la vita non sia altro che
questo: «ciò che non lascia traccia».
Moraldo vive del mito di Gobetti ma il loro incontro non avverrà secondo piani di logica comprensibile: si sfioreranno su una panchina di Parigi, in un incrocio doloroso di destini che si stende su una delle pagine più belle del libro: « (ndr. Moraldo) ragiona su quanto siano diverse, da vicino, le persone che abbiamo idealizzato. Le abbiamo astratte dalla realtà fino a farne i nostri feticci, i nostri fantasmi. Che ne è, per esempio, dell’aria spavalda che gli attribuiva? Che ne è della forza. Della sicurezza…Adesso, accanto a lui, l’oggetto della sua ammirazione, della sua invidia, del suo rancore sembra sperduto. Fragile al punto che da un momento all’altro potrebbe svanire, dissolversi, lasciando vuoto e inerte sulla panchina, come un guscio, il cappotto stesso».
Moraldo vive del mito di Gobetti ma il loro incontro non avverrà secondo piani di logica comprensibile: si sfioreranno su una panchina di Parigi, in un incrocio doloroso di destini che si stende su una delle pagine più belle del libro: « (ndr. Moraldo) ragiona su quanto siano diverse, da vicino, le persone che abbiamo idealizzato. Le abbiamo astratte dalla realtà fino a farne i nostri feticci, i nostri fantasmi. Che ne è, per esempio, dell’aria spavalda che gli attribuiva? Che ne è della forza. Della sicurezza…Adesso, accanto a lui, l’oggetto della sua ammirazione, della sua invidia, del suo rancore sembra sperduto. Fragile al punto che da un momento all’altro potrebbe svanire, dissolversi, lasciando vuoto e inerte sulla panchina, come un guscio, il cappotto stesso».
Svanirà, Gobetti. Ma non svanirà con lui il segno che ha
lasciato perché, come si dice in un’altra pagina del romanzo, «il segno non è
che questo: essere se stessi dappertutto».
Il nome di Moraldo arriva dal mondo dei Vitelloni, è quel Fellini ragazzo che prende il treno da Rimini e
arriva a Roma per violare un destino che sembrava scritto al vento di un
litorale di precoci decadenze e che invece si compirà sotto tutta un’altra
stella, sotto il cielo di una città gigantesca e labirintica che il regista
“straniero” contribuì a inventare.
E mentre leggiamo di questo nuovo Moraldo e di questo
inedito, vulnerabile Gobetti, vediamo anche il volto di Paolo Di Paolo, quella
serenità del combattente che non ama la lamentazione e preferisce lottare per
lasciare anche lui il proprio segno. Ma, a differenza di molti suoi coetanei
languidamente affezionati ad un orfanismo solo dichiarato, per essere
completamente se stesso Di Paolo ha sempre sentito il bisogno di dialogare: con
i personaggi del Novecento, i vivi e i morti. Una inclinazione costruttiva che
nella preparazione di questa solidissima, matura, a tratti struggente, opera,
trova il suo più chiaro compimento: «Mi
porto dietro l’idea di questo romanzo dal 2008: stavo per compiere gli anni che
Piero Gobetti (1901-1926) non ha compiuto. Non sapevo molto di lui, ma quel
poco mi ha spinto a immaginare. Nel gennaio del 2009, a Parigi, sono andato al
cimitero del Père-Lachaise in cerca della sua tomba. Era – accade di rado –
chiuso per ghiaccio e neve. Antonio Tabucchi, che avrei incontrato quello
stesso pomeriggio, mi incoraggiò a non abbandonare questa storia…Per la
scrittura, invece hanno contato molto due fotografie torinesi. La prima porta
la data del 15 febbraio 1926. Si vede un banco di vini, è una fiera di
carnevale. È il giorno in cui, lontano dalla sua città, a Parigi, muore
Gobetti. L’altra l’ho scattata io stesso: al numero 52 di corso San Maurizio,
la casa in cui abitò Giacomo Debenedetti. Le lunghe conversazioni con il figlio
Antonio, che in La fine di un addio e in Giacomino ha fatto
rivivere il clima degli anni Venti e Trenta a Torino, mi hanno aiutato a
indagare in quelle giovinezze prodigiose» scrive Di Paolo nella postfazione di Mandami tanta vita.
La
documentazione storica viene assorbita nella narrazione come se non ci fosse
rottura né baratro tra le due sfere, pubbliche e private, realistica e
immaginaria. Anche se la luce che fa l’una aiuta l’ombra dell’altra a tradirsi
e rivendicare il suo diritto ad essere, la sua inequivocabile bellezza di ombra
che fa, appunto, luce.
Ma come riesce un’ombra a fare così tanta luce? Se c’è un segreto nella scrittura e nella vita intellettuale di Paolo Di Paolo, a noi sembra che questa sua qualità si stagli nella sfera dell’esattezza, in un cortocircuito tra zone inconsce e attività consce. Non c’è mai approssimazione nel suo modo di operare. Come rivela questo dettaglio fornito dallo stesso autore: «Ad un certo punto, sentivo il bisogno di Moraldo camminasse per Torino sotto la pioggia. Il romanzo si ambienta nei freddi giorni di febbraio del 1926. Era probabile che piovesse. Probabile, ma non certo. Mi sono fermato. Poi, sfogliando i giornali dell’epoca, ho trovato un riferimento alla pioggia che a dirotto aveva funestato quei giorni di Carnevale del 1926. Così ho finito di scrivere serenamente la mia scena».
Ma come riesce un’ombra a fare così tanta luce? Se c’è un segreto nella scrittura e nella vita intellettuale di Paolo Di Paolo, a noi sembra che questa sua qualità si stagli nella sfera dell’esattezza, in un cortocircuito tra zone inconsce e attività consce. Non c’è mai approssimazione nel suo modo di operare. Come rivela questo dettaglio fornito dallo stesso autore: «Ad un certo punto, sentivo il bisogno di Moraldo camminasse per Torino sotto la pioggia. Il romanzo si ambienta nei freddi giorni di febbraio del 1926. Era probabile che piovesse. Probabile, ma non certo. Mi sono fermato. Poi, sfogliando i giornali dell’epoca, ho trovato un riferimento alla pioggia che a dirotto aveva funestato quei giorni di Carnevale del 1926. Così ho finito di scrivere serenamente la mia scena».
(pubblicato sul settimanale "Gli Altri")
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