Ci inventiamo vite fittizie con il desiderio di essere
accettati. Gonfiamo il curriculum per fare bella figura. Ci creiamo arabesche
specializzazioni fatte “altrove”, tanto chi lo conosce l’altrove, chi ci è mai
andato a fare un giro oltre questa nostra Italietta malata e arrogante? Il caso
Giannino ci porta a riflettere sulla via “italiana” che prende la bugia. Un
collega forse invidioso (Zingales) ci fa
sapere dagli Stati Uniti che l’ex amico (Giannino), candidato alla direzione di
Fermare il declino, aveva mentito in merito ad un master in economia conseguito
a Chicago. Che poi, diciamola tutta, non ci sarebbe niente da invidiare a chi
avrebbe preso lezioni da quei deliranti pescecani (su cui, per dovere di cronista
teatrale, segnaliamo Chicago’s boys, un
acuto lavoro di Renato Sarti ispirato a Shock
economy di Naomi Klein, che mostra un prototipo di criminale dell’alta
finanza annegare in una paludosa vasca da bagno, dopo aver inferito contro una
donna ridotta a serva). Insomma, Oscar Giannino
a Chicago non c’è mai stato e così scoppia lo scandalo, con tanto di lacrime e
sangue e minacce di dimissioni. In questo caso, la pubblica gogna ha
funzionato. Ma da noi non si sa mai che giri farà la roulette. Uno la fa franca
e l’altro invece — “colpevole” dello stesso “misfatto” — viene impalato in
piazza con tanto di sghignazzate degli spettatori paganti, sollevati dal fatto
di non essere stati scoperti loro nell’atto di mentire. L’unica legge che vale,
lo diceva placidamente, tragicamente Woody Allen in “Match Point”, è la legge
del caos, più che quella del caso. Rimane da ragionare sul perché ci sia sempre
bisogno di far vergognare qualcuno. Che c’è di bello nell’esposizione delle
lacrime di un signore che ammette di aver gonfiato il proprio curriculum?
Niente c’è di bello. Mentre c’è molto di patetico, dove l’aggettivo non ha più
niente del sostantivo che l’ha generato, il compianto pathos. Il patetico va
invece simpaticamente a braccetto col ridicolo. Per via delle sue dimensioni
piccole-piccole. Nella menzogna fatta bene e sostenuta ad arte, invece, ci
sarebbe del grandioso. Il grandioso del comico, quello alto e feroce, innestato
su un meccanismo di critica sociale, che è stato rappresentato così bene da I soliti ignoti e da altri capolavori
del genere. Totò era il principe della truffa, il grande imbroglione lunare, ma
i nostri intellettuali (tranne poche eccezioni) l’hanno sempre trattato con
sufficienza. Per mancanza di immaginazione.
Eppure, la bugia ha tradizioni nobili. Pensiamo alla
dimensione quasi metafisica del Bugiardo di Goldoni, che alla fine viene
lasciato solo, anche se lui ce la mette tutta per dimostrare alla consorteria
dei mediocri che i suoi non sono miseri sotterfugi ma «spiritose invenzioni».
E quanta dinamite creativa c’è in Pinocchio? Infinita. A tal
punto che neanche il suo autore se ne accorse, come sosteneva quel genio di
Carmelo Bene, quando asseriva che Collodi non aveva capito un cavolo di
Pinocchio. E per dimostrarlo, realizzò fantastiche variazioni sulla figura
archetipica del burattino/bambino, incatenandosi ad un banco di scuola, simbolo
di ogni supplizio a venire.
Perché è nell’aula scolastica che va in scena il primo
teatro della mortificazione, è lì che si decide tutto, se da grande sarai un
essere amato (e premiato) oppure un piccolo ladro di attenzioni (e lodi) che al
fondo di te ritieni non meritate. Ed è per questo che i bugiardi in genere
partono sempre da lì, dal curriculum scolastico. Abbiamo imparato presto che se
saremo obbedienti e bravi, se sapremo dire la poesia a memoria, allora sì che
saremo rispettati. In caso contrario saremo sculacciati e bacchettati.
Ma l’autorevolezza non dovrebbe passare dall’esibizione
delle tante cose che ci siamo ficcate in testa. Anche perché, se proprio siamo
costretti a parlare di filastrocche imparate, la poesia saremmo meglio farla
che impararla, e per poesia intendiamo anche una certa possibilità che ci è
sempre data — da qualunque buco del mondo veniamo e qualunque
scuola o non-scuola abbiamo frequentato
— di fare della nostra vita una
piccola opera d’arte. E la storia universale è piena di biografie di grandi
personaggi che vantano alla fine un bel fallimento scolastico, una precoce
caduta che verrà poi interpretata come l’unica grande fortuna della vita.
Rispetto al modello punitivo scolastico, il Lelio di Goldoni
o il Pinocchio di Carmelo Bene o il Totò principe della italiana patafisica,
rappresentano dei modelli di anarchia felice. Ma noi non lo capiamo perché i
cattivi maestri ci hanno insegnato a leggere solo il bignami della storia, per
cui alla fine Lelio resta solo, a Pinocchio crescono naso e orecchie da asino,
e i personaggi di Totò fanno ridere per il loro assurdo che non ci riguarda.
Non siamo allenati, invece, a starcene dalle parti di quelle “spiritose
invenzioni”, a carpire la natura sulfurea, ribelle, esplosiva, del personaggio
di Goldoni. Come ci è difficile immaginare che Pinocchio dovesse essere amato
proprio perché aveva in odio la scuola e in simpatia il paese dei balocchi,
e perché manifestava un rapporto di sana
ambivalenza (e non di sola obbedienza)
rispetto alle figure genitoriali, Geppetto sì, ma soprattutto
l’angosciante fatina turchina, che non perdeva occasione di terrorizzarlo con
le sue apparizioni/sparizioni nei panni della madre-sorella morta.
Dire bugie, come faceva Pinocchio, è alla fine un modo per
evadere dai perimetri mostruosi del sistema scuola-famiglia, è una pura una
strategia di sopravvivenza.
Non vogliamo ovviamente qui affermare che tutti i bugiardi
sono dei grandi artisti, specialmente in un Paese come il nostro che mostra una
tolleranza della menzogna legata al dominio maschile. Ma c’è menzogna e
menzogna. Alcune bugie, come recita il titolo di un bel libro di Irene Dische,
possono anche essere pietose. Pietose bugie. E non patetiche. Ma pietose, cioè
cariche di pietà. Perché si può essere coscienti di non avercela sempre fatta,
di non essere stati bravi ogni volta, e al tempo stesso pensare che non per
questo saremo meno amati, e rispettati. Se arriveremo a fare questo
ragionamento su di noi, non ci dovrebbe essere difficile farlo anche
sull’altro; altrimenti, parliamoci chiaro, che ci siamo andati a fare a scuola,
che ci è servito leggere e scrivere e fare master in America? Per redarre un
curriculum da mandare a qualche Chicago boy in salsa pecoreccia? Se non è così,
di fronte ad una menzogna che non ha l’aspetto di un crimine, magari ci faremo
una bella risata, ma non ci verrà mai voglia di impiccare il bugiardo sulla
pubblica piazza, senza che questo pensiero ci rimandi automaticamente
all’immagine del nostro povero collo appeso all’ultimo laccio.
(pubblicato su Gli Altri)
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2 commenti:
Grazie, Katia. Straordinario pezzo.
"La maggior parte degli uomini preferirebbe morire piuttosto che riflettere. E in effetti è proprio quello che fanno"
B. Russell
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