sabato 9 marzo 2013

Elogio delle pietose bugie

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Ci inventiamo vite fittizie con il desiderio di essere accettati. Gonfiamo il curriculum per fare bella figura. Ci creiamo arabesche specializzazioni fatte “altrove”, tanto chi lo conosce l’altrove, chi ci è mai andato a fare un giro oltre questa nostra Italietta malata e arrogante? Il caso Giannino ci porta a riflettere sulla via “italiana” che prende la bugia. Un collega forse invidioso (Zingales)  ci fa sapere dagli Stati Uniti che l’ex amico (Giannino), candidato alla direzione di Fermare il declino, aveva mentito in merito ad un master in economia conseguito a Chicago. Che poi, diciamola tutta, non ci sarebbe niente da invidiare a chi avrebbe preso lezioni da quei deliranti pescecani (su cui, per dovere di cronista teatrale, segnaliamo Chicago’s boys, un acuto lavoro di Renato Sarti ispirato a Shock economy di Naomi Klein, che mostra un prototipo di criminale dell’alta finanza annegare in una paludosa vasca da bagno, dopo aver inferito contro una donna ridotta a serva).  Insomma, Oscar Giannino a Chicago non c’è mai stato e così scoppia lo scandalo, con tanto di lacrime e sangue e minacce di dimissioni. In questo caso, la pubblica gogna ha funzionato. Ma da noi non si sa mai che giri farà la roulette. Uno la fa franca e l’altro invece — “colpevole” dello stesso “misfatto” — viene impalato in piazza con tanto di sghignazzate degli spettatori paganti, sollevati dal fatto di non essere stati scoperti loro nell’atto di mentire. L’unica legge che vale, lo diceva placidamente, tragicamente Woody Allen in “Match Point”, è la legge del caos, più che quella del caso. Rimane da ragionare sul perché ci sia sempre bisogno di far vergognare qualcuno. Che c’è di bello nell’esposizione delle lacrime di un signore che ammette di aver gonfiato il proprio curriculum? Niente c’è di bello. Mentre c’è molto di patetico, dove l’aggettivo non ha più niente del sostantivo che l’ha generato, il compianto pathos. Il patetico va invece simpaticamente a braccetto col ridicolo. Per via delle sue dimensioni piccole-piccole. Nella menzogna fatta bene e sostenuta ad arte, invece, ci sarebbe del grandioso. Il grandioso del comico, quello alto e feroce, innestato su un meccanismo di critica sociale, che è stato rappresentato così bene da I soliti ignoti e da altri capolavori del genere. Totò era il principe della truffa, il grande imbroglione lunare, ma i nostri intellettuali (tranne poche eccezioni) l’hanno sempre trattato con sufficienza. Per mancanza di immaginazione.
Eppure, la bugia ha tradizioni nobili. Pensiamo alla dimensione quasi metafisica del Bugiardo di Goldoni, che alla fine viene lasciato solo, anche se lui ce la mette tutta per dimostrare alla consorteria dei mediocri che i suoi non sono miseri sotterfugi ma «spiritose invenzioni».
E quanta dinamite creativa c’è in Pinocchio? Infinita. A tal punto che neanche il suo autore se ne accorse, come sosteneva quel genio di Carmelo Bene, quando asseriva che Collodi non aveva capito un cavolo di Pinocchio. E per dimostrarlo, realizzò fantastiche variazioni sulla figura archetipica del burattino/bambino, incatenandosi ad un banco di scuola, simbolo di ogni supplizio a venire.
Perché è nell’aula scolastica che va in scena il primo teatro della mortificazione, è lì che si decide tutto, se da grande sarai un essere amato (e premiato) oppure un piccolo ladro di attenzioni (e lodi) che al fondo di te ritieni non meritate. Ed è per questo che i bugiardi in genere partono sempre da lì, dal curriculum scolastico. Abbiamo imparato presto che se saremo obbedienti e bravi, se sapremo dire la poesia a memoria, allora sì che saremo rispettati. In caso contrario saremo sculacciati e bacchettati.
Ma l’autorevolezza non dovrebbe passare dall’esibizione delle tante cose che ci siamo ficcate in testa. Anche perché, se proprio siamo costretti a parlare di filastrocche imparate, la poesia saremmo meglio farla che impararla, e per poesia intendiamo anche una certa possibilità che ci è sempre data   da qualunque buco del mondo veniamo e qualunque scuola o non-scuola abbiamo frequentato   di fare della nostra vita una piccola opera d’arte. E la storia universale è piena di biografie di grandi personaggi che vantano alla fine un bel fallimento scolastico, una precoce caduta che verrà poi interpretata come l’unica grande fortuna della vita.
Rispetto al modello punitivo scolastico, il Lelio di Goldoni o il Pinocchio di Carmelo Bene o il Totò principe della italiana patafisica, rappresentano dei modelli di anarchia felice. Ma noi non lo capiamo perché i cattivi maestri ci hanno insegnato a leggere solo il bignami della storia, per cui alla fine Lelio resta solo, a Pinocchio crescono naso e orecchie da asino, e i personaggi di Totò fanno ridere per il loro assurdo che non ci riguarda. Non siamo allenati, invece, a starcene dalle parti di quelle “spiritose invenzioni”, a carpire la natura sulfurea, ribelle, esplosiva, del personaggio di Goldoni. Come ci è difficile immaginare che Pinocchio dovesse essere amato proprio perché aveva in odio la scuola e in simpatia il paese dei balocchi, e  perché manifestava un rapporto di sana ambivalenza (e non di sola obbedienza)  rispetto alle figure genitoriali, Geppetto sì, ma soprattutto l’angosciante fatina turchina, che non perdeva occasione di terrorizzarlo con le sue apparizioni/sparizioni nei panni della madre-sorella morta. 
Dire bugie, come faceva Pinocchio, è alla fine un modo per evadere dai perimetri mostruosi del sistema scuola-famiglia, è una pura una strategia di sopravvivenza.
Non vogliamo ovviamente qui affermare che tutti i bugiardi sono dei grandi artisti, specialmente in un Paese come il nostro che mostra una tolleranza della menzogna legata al dominio maschile. Ma c’è menzogna e menzogna. Alcune bugie, come recita il titolo di un bel libro di Irene Dische, possono anche essere pietose. Pietose bugie. E non patetiche. Ma pietose, cioè cariche di pietà. Perché si può essere coscienti di non avercela sempre fatta, di non essere stati bravi ogni volta, e al tempo stesso pensare che non per questo saremo meno amati, e rispettati. Se arriveremo a fare questo ragionamento su di noi, non ci dovrebbe essere difficile farlo anche sull’altro; altrimenti, parliamoci chiaro, che ci siamo andati a fare a scuola, che ci è servito leggere e scrivere e fare master in America? Per redarre un curriculum da mandare a qualche Chicago boy in salsa pecoreccia? Se non è così, di fronte ad una menzogna che non ha l’aspetto di un crimine, magari ci faremo una bella risata, ma non ci verrà mai voglia di impiccare il bugiardo sulla pubblica piazza, senza che questo pensiero ci rimandi automaticamente all’immagine del nostro povero collo appeso all’ultimo laccio.
(pubblicato su Gli Altri)



2 commenti:

Unknown ha detto...

Grazie, Katia. Straordinario pezzo.

SoloUnaTraccia ha detto...

"La maggior parte degli uomini preferirebbe morire piuttosto che riflettere. E in effetti è proprio quello che fanno"

B. Russell