Un uomo che vive il disagio della civiltà, ma che a questo
disagio oppone l’unico rimedio che conosce: il teatro. Un artista dall’aria
eternamente ragazzina che ha avuto subito il successo (chi c’era ricorda le
risse al botteghino al Teatro Eliseo negli anni Ottanta) e che negli anni ha
continuato a trafficare tra le cose che amava, sempre le stesse. Gabriele
Lavia, 70 anni, direttore del Teatro di Roma, parla qui di sé con pudore ma
anche con ardore. Con quelle pause che siamo abituati ormai riconoscere. La
voce, quella voce, che va a rovistare
nelle trame di un desiderio oscuro: sparire, obliarsi, dimenticarsi. Mentre
alla Fenice di Venice debutta la sua versione dei Masnadieri di Verdi (dal 18 gennaio), all’Argentina di Roma
arrivano due opere di Pirandello da lui dirette e interpretate, la ripresa di Tutto per bene (dal 16 gennaio) e la
prima de La Trappola (dal 9 marzo). Partire
dalle ragioni di questa autentica venerazione (”Pirandello è il più grande
autore di tutti i tempi, più grande di Sofocle, di Eschilo”) ci aiuta ad
entrare nelle segrete di una grande casa siciliana là dove un bambino di tre
anni spiava una compagnia di attori fare le prove dei loro spettacoli dentro il
salotto blu di nonna Carmela ….
Come è avvenuto il
suo apprendistato teatrale? Come “Willhelm Meister” costruiva il suo teatrino
di marionette per un pubblico familiare?
Quando ero bambino a Catania, avevo una nonna che si
chiamava Carmela ed era d’origine spagnola. Il nonno era Francisco Martinez De
La Rosa, grande poeta drammaturgo filosofo e rivoluzionario ... La stessa nonna
Carmela era un personaggio leggendario: aveva scritto racconti, teatro,
sceneggiature per il cinema muto. Mi ricordo che subito dopo la guerra (io avrò
avuto tre anni), nel salotto blu della nostra grande, si spostavano tutti i
mobili per accogliere una compagnia semi-dilettante e semi-professionale che
faceva da noi le prove dei suoi spettacoli. Era il nucleo originario di quella
che molti anni più tardi sarebbe diventa la compagnia del Teatro Stabile di
Catania. Io mi ricordo che (avrò avuto tre anni), me ne stavo in un
angolino a guardare questi attori che provavano. Non pensavo ancora che avrei
fatto teatro. Non pensavo niente. Guardavo ammirato e basta.
Nasce da lì anche il
suo transfert con Pirandello?
Mia nonna però aveva una collezione dell’opera integrale di
Pirandello che poi mi ha regalato e che oggi è in possesso di mio figlio
Lorenzo. Da lì mi è venuto questo rispetto verso Pirandello. Poi da grande ho
letto tutto Pirandello più e più volte. Soprattutto le novelle, che preferisco
al teatro. Per me Pirandello è il più grande autore di tutti i tempi. Più
grande di Sofocle, Eschilo, Euripide, più grande di tutti. Perché non c’è
nessuno al mondo e non ci sarà mai più nessuno che farà entrare dal fondo della
platea dei signori che avranno con altri signori sul palcoscenico questo tipo
di dialogo. “Signori, che cosa vanno
cercando?”. “Cerchiamo un autore, uno qualunque”. “Ma chi siete?”. “Siamo dei
poveri personaggi”. Ecco, questa piccola scena qui chiude le porte al teatro. Dopo
questo, che cosa scrivi? Sono state scritte altre opere teatrali, anche belle,
anche bellissime, ma sono sempre di un passo indietro rispetto a questa scena
dei Sei personaggi in cerca d’autore.
Mi viene in mente un
fossile levigato sopravvissuto a un maremoto e lanciato verso il futuro come il
monolite di Kubrick….Una cosa così?
Si, una cosa così. Comunque Pirandello deve ancora essere
scoperto. Sono stato quest’anno in America e ho visto il lavoro di una
compagnia che si avvicinava alla sua filosofia del buio come se si trattasse,
giustamente, di una scoperta, di una iniziazione. In fondo, cosa racconta
Pirandello? Pirandello racconta una storia semplice: ne La trappola si dice a chiare lettere cos’è la trappola. Per un
verso è il sesso femminile, per l’altro è la vita. La vita al buio. L’uomo
rimane intrappolato nel buio. Ma la verità si dà solo al buio. Ora, il mito
fondante della civiltà occidentale che è il mito platonico della caverna,
racconta come dentro la caverna si veda l’ombra del reale, di un “certo” reale,
mentre la verità del reale si manifesta fuori dalla caverna, alla luce del
sole. Pirandello ribalta questo concetto e abbraccia la poetica della
conoscenza nel buio. In “Tutto per bene” la scoperta della verità accade al
buio.
Nella “Trappola” si
dice che “ogni genitore è il boia della creatura che genera”. Come vive lei il
rapporto con i suoi figli, e come è stato lei da figlio rispetto al padre?
Ai miei tempi i rapporti con i genitori erano molto
diversi…Mi rendo conto che parlo come se fossi decrepito….
Decrepito?
Beh, forse non sono così decrepito, ha ragione. Forse parlo
così perché questo è uno di quei giorni che mi prende la malinconia.
Soffre spesso di
“malinconia”?
Ogni mattina. Mio padre pensava che fossi gay perché ero
sempre triste.
Ecco, il padre….
Il rapporto con mio padre era molto diverso da quello che
posso avere io adesso con mio figlio (che ha 40 anni) e con le mie figlie, che
hanno poco più di vent’anni. C’è un abisso. I miei genitori non sapevano nulla
di me. Io so tutto dei miei figli. Perché i miei figli me lo dicono.
E’ un sapere troppo?
Non lo so. Mio padre non sapeva niente e lui non voleva
sapere niente. Era bello vivere il sesso come un’iniziazione, e non come una
cultura. Come l’arte. Come il teatro. Mi vuoi spiegare perché da quando c’è la
Facoltà di Architettura, l’architettura è così brutta? Mi vuoi spiegare perché
da quando ci sono così tante scuole di recitazione, gli attori sono tutti cani?
Che poi le scuole di
recitazione eccedono il numero degli attori, che sono già tantissimi…
Appunto. Ci sono alcune cose che non possono essere
insegnate. Quando Socrate diceva “Io so di non sapere”, insegnava soltanto il
non sapere.
E una volta imparate
le cose, forse vanno dimenticate....
L’oblio è fondamentale. L’essere è rammemorazione, e quindi
nasce tutto dalla dimenticanza.
Però i suoi discorsi
sono pieni di citazioni colte….
Il sogno della mia vita: andare a scuola….
A scuola?
Si, proprio a scuola.
Per studiare bisogna
andare a scuola?
Sono vecchio purtroppo, sennò come mi piacerebbe tornare a
scuola, e studiare su quei quaderni, su quei libri! Poi io ho una così bella
scrittura…
Scrive a mano?
Non ho mai usato né la macchina da scrivere né il computer.
E se volessi mandarle
una email?
Può farlo, ma prima mi deve telefonare e dire: ho mandato
una email….
Perché è così
sospettoso nei confronti della tecnologia?
Mi aiuta forse a imparare la parte a memoria? No. Mi insegna
a fare la parte? No. Mi insegna a fare la regia? No. Mi insegna a spiegare agli
attori come devono recitare? A che mi serve? A perdere tempo.
Chi sono per lei “I Masnadieri”
?
Questo edizione dei Masnadieri
di Verdi è molto lontana dalla prima edizione che ne feci nel’86, mentre si
avvicina alla messa in scena che ho fatto dell’opera di Schiller. I masnadieri sono dei ragazzi che vivono il
disagio della civiltà contemporanea. Lo vivono, questo disagio, come privazione
della libertà. Ma hanno una idea sbagliata della libertà. Non si rendono conto
che la libertà è limitatezza, è confine. La libertà è rispetto delle regole che
si dà chi è libero.
Quando nel ’63 entrò
all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” per fare l’attore, che idea
aveva della libertà?
La mia idea della libertà non è mai cambiata. Io non so per
quale ragione, forse per una questione di carattere familiare, di educazione
ricevuta, non ho mai considerato la libertà come arbitrio. Una rana è libera di
essere una rana, ma non può essere il bue come insegna Fedro nella sua favola
sulla rana che vuole essere il bue. Il varcare il limite nell’Antica Grecia
veniva detto yubris. Bisogna accettare i propri limiti, accettare di essere
rana o essere bue. Per quanto riguarda me, mi sarebbe piaciuto essere alto come
Gregory Peck, essere bello come Alain Delon, ma non è andata così. Tuto sommato
non ho mai avuto la tentazione di essere diverso dalla ranocchia che sono.
Nei primi giorni del
suo incarico come direttore del Teatro di Roma, mi ricordo che abitava quella
stanza con un certo divertito smarrimento….
Infatti in quella stanza non ci sto tanto. Un direttore non
è il padrone del teatro. Questo mi è molto chiaro. Io sono provvisorio, specialmente
in una città come Roma dove la filosofia è quella di cambiare direttori in
continuazione. Non che io approvi questa cosa. L’arte non è democratica, l’arte
è umana e complessa. In tre anni, cosa mai vuoi fare?
Intanto ha lasciato
le chiave a diciotto compagnie di ricerca che si sono incontrate e perdute nell’isola del Teatro India (il
progetto “Perdutamente” che si è acceso a dicembre).
L’unica cosa che si può fare è di fare gesti di cui poi non
ci si può dimenticare. È stato un primo gesto a cui spero seguirà qualcosa di
più importante l’anno prossimo..
Ma iniziano i lavori
al Teatro India…
Non dobbiamo costruire l’abazia di Westminster. Se
dipendesse da me, in tre mesi i lavori sarebbero anche conclusi.
In “Art you lost”
(dentro “Perdutamente”, la mega-installazione
firmata da Santasangre, Muta Imago e Matteo Angius), il pubblico era
invitato a lasciare un oggetto, privandosene per sempre. Lei che cosa avrebbe
lasciato?
Avrei lasciato me. Non chiedo che di smarrirmi.
Sarebbe finito dentro
uno scatolone e qualcuno avrebbe buttato via le chiavi.
Sono pronto a rimanere lì abbandonato per sempre. Chissà poi
magari qualcuno mi avrebbe ritrovato un giorno.
E’ per via di questo
suo desiderio di perdersi che ha voluto intitolare l’evento “Perdutamente”?
Tutto nasce dalla privazione o dalla perdita. Ho preferito la
parola “perdita” a “privazione”. Se lei dovesse recitare deve Silvia Gala,
dovrebbe privarsi di se stessa, ma la privazione di se stessa non vuol dire non
c’è più lei come persona, anzi vuol dire che dovrò tenerne ancora più conto.
Voglio dire: senza perdita, non c’è possibilità di trovarsi, e senza ritrovarsi
non c’è la possibilità di conquistare faticosamente quella strana cosa che è l’”ipseità”,
l’essere se stessi. E’ paradossale ma è così. Bisogna perdersi ad ogni istante,
e ritrovarsi ogni sitante.
Cosa può il teatro in
questo momento di crisi e caduta?
Il teatro ha una grande fortuna: quella di essere obliato,
dimenticato. E la dimenticanza conserva. Il teatro non è morto. E’ morta la televisione.
E’ morto il cinema.
E’ morto il cinema?
Si, ai miei tempi c’era il cinema.
L’ha anche fatto, il
cinema: ce lo ricordiamo tutti il protagonista di “Profondo rosso” di Dario
Argento…
Ma si, il cinema mi piace molto. Però è come la letteratura. Sono arti
limitate rispetto al teatro. Il teatro è l’unica arte che non si coniuga al
passato. Il teatro accade al tempo presente. Per questo non morirà mai.
Che rapporto ha con
il potere?
Io, a differenza di quello che alcuni possono pensare, non
ho alcun rapporto con il potere.
Cosa è per lei il
successo?
C’è stato un periodo nella mia vita (avevo circa 40 anni) in
cui facevo il tutto esaurito e facevamo più incassi di Gassman. Oggi i ragazzi
mi dicono: ai tuoi tempi era più facile. Ma non è così. Ai miei tempi c’era la
Compagnia dei Giovani, c’erano Albertazzi e la Proclemer, c’era Gassman, c’era
Tino Carraro, un finimondo. Io ho combattuto
in questo campo di battaglia, con i giganti.
In che modo si
combatte?
Bisogna studiare.
E se si è troppo timidi
per non soccombere?
Anche io sono timido, sono stato timido. C’è una sola cosa
che conta: studiare. Tutto il resto sono stronzate.
Cosa avrebbe voluto
fare se non avesse fatto teatro?
Avrei voluto disegnare cartoni animati. Oppure fare il pittore.
Dipingo benissimo.
(pubblicato su Gli Altri)
Nessun commento:
Posta un commento