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Un corpo
esile che oscilla, attraversato dalle correnti interne e dagli strattoni che
arrivano dal mondo. Apre la bocca. La chiude. La riapre. Parla, mangia, divora,
rifiuta il cibo, è masticata viva. Per resistere, gioca. Bambole, piccoli
frigoriferi, parrucche, borsette, le statuine del presepe. Con gli oggetti,
crea un perimetro di umane cose. Ricorda, col corpo. Senza rabbia, ricorda.
Con dolcezza. E si offre in pasto. Con una grazia tutta sua, senza intimidire.
Lei sì, è intimidita. Ma anche coraggiosa, nonostante quella sua fisicità
aerea. Non si farà male? La vedi indifesa, magra, con quei tacchi altissimi,
spaesata di fronte al pubblico, ma anche accogliente, e ti chiedi se si farà
male. No, non si far male, ma è molto probabile che ci farà male. Perché quello
che dice non è indifferente. Non è una cosa qualunque. Elvira Frosini, autrice
regista e interprete di Digerseltz, va a toccare la soglia fisica che delimita il
punto di straripamento del dentro nel fuori e la violazione da fuori dello
spazio interno. Come il personaggio di Bocca in Non Io di Samuel Beckett (a cui non fa volontario riferimento), la
figura inventata e agita da Frosini è una “piccola minuscola bambina”
imprigionata in “questa dannazione di buco”. Ma in questo caso non vediamo solo
il dettaglio della bocca (come voleva Beckett), ma la bambina/donna tutta
intera, presa dentro questo tormento del dire: dire il discorso che ci parla,
esprimere il desiderio ondivago, nominare l’eccedenza, quello spreco
batailliano che ci permette l’invasione del comico dentro la tragedia del
vivere così come si è: gettati in un corpo che sarà sempre troppo piccolo per
contenere tutto questo traffico di pulsioni e ombre che aprono e chiudono porte.
La bocca come apertura verso gli inferi e soglia attraverso cui ci si mostra al
mondo. La bocca come varco potente di sessualità. La bocca che parla e dovrebbe
dire solo quello che vorrebbero che noi dicessimo, ma poi l’inconscio regala un
bel lapsus e tutto va in frantumi. La bocca che prende quel cibo che finirà col
renderci non attrattivi. Il cibo che ci ammala. La società che ci giudica. Noi
che ci giudichiamo. Noi che diventiamo anoressici e bulimici in una carneficina
privata. Nella performance di Elvira Frosini, c’è un mondo. E vale la pena
andarlo a v
domenica 3 febbraio 2013
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