lunedì 25 giugno 2012

Daniele Vicari: "Credo solo alla realtà"




Chiusa la conversazione telefonica, Daniele Vicari ci richiama. Per fare una piccola aggiunta all’ultima risposta sulla moglie Costanza Quatriglio. Vuole dire esattamente quello che li unisce: un certo modo di intendere il cinema e la vita. Un modo eterodosso, di chi non è ossessionato dal cinema ma lo ama infinitamente. Perché è un’arte che può guardare dritto negli occhi la realtà. Poco prima, aveva citato Lukàcs che rispondendo ad Heidegger scriveva: «Non si può godere della bellezza di un paesaggio se gli si voltano le spalle». Ecco, Daniele Vicari non è uno che volta le spalle. Unico regista in Italia, è andato a guardare dritto negli occhi l’orrore conradiano. L’ha trovato a Genova, luglio 2001. L’obiettivo si è stretto sulla scuola Diaz, sulle sue scene di tortura, e lì è andato a fare il suo blow-up. Ingrandimento stordente, netto, incisivo, di un fatto tragico della nostra storia. Un film soglia, Diaz, realizzato da chi non considera chiuso il suo lavoro ma continua a guardare fisso l’orrore. E dice la sua. Anche oggi che arriva la notizia del rinvio al 5 luglio della sentenza definitiva della Corte di Cassazione sulle violenze avvenute nella scuola Diaz il 21 luglio 2001, per cui erano stati condannati in appello 25 imputati tra alti funzionari della polizia ed agenti (quasi il doppio rispetti ai tredici imputati condannati in primo grado).


Vicari, questa notizia ci dovrebbe preoccupare?

Io non mi aspetto chissà che cosa dalla Cassazione. Se le cose vanno come sono andate finora non bisogna farsi illusioni. E’ anche vero che la richiesta del pg è stata quella di confermare la sentenza di secondo grado. E forse questo ha spiazzato un po’ tutti. Ma bisogna stare attenti. Questa non è una gara di calcio che chiama in causa le tifoserie. E’ una questione che riguarda la giustizia. Io non amo le dietrologie e spero che ci sia una motivazione seria.

Qualche giorno fa alla quinta sezione della cassazione il pg Pietro Gaeta ha affermato che l’impianto accusatorio dei due tribunali tiene ma ha negato l’applicazione del reato di tortura al posto del reato di lesioni chiesto dal procuratore generale di Genova perché non previsto dalla nostra legislazione. E’ questa la cosa innominabile che lei nomina e mostra con suo film. In Italia non esiste il reato di tortura.

Noi aspettiamo sempre che accadono le tragedie prima di dire qualcosa. Il problema è uno solo: la classe dirigente italiana, compresa quella di sinistra, non si è mai posta il problema di introdurre il reato di tortura nel nostro codice. Nessuna delle legislature che si sono succedute dall’’84 ad oggi ha posto seriamente la questione. Questo vuol dire che dobbiamo essere tutti più attenti rispetto a questioni che riguardano i diritti civili. E non declinarli ogni volta in base alle convenienze politiche del governo. E’ meglio perdere le elezioni piuttosto che non intervenire con chiarezza su battaglie scomode. Perché altrimenti è inutile vincere le elezioni.

Vedendo “Diaz”, molti di noi hanno pensato: questa opera potrebbe spostare l’immaginario. I fatti di Genova saranno riconosciuti come storia tragica d’Italia e non solo di una sua parte. Non si può più dire: io non c’ero, non mi ricordo, è roba di movimenti che non riguardano le nostre singole vite. Però poi si dimentica tutto facilmente. Specialmente in questo Paese che soffre di disturbi di memoria, o che usa la memoria solo per fare dietrologia.

Sulla memoria, la penso come Walter Benjamin, che è anche il punto di riferimento di Bertinotti nel suo ultimo libro. Più che di memoria, preferisco parlare di “rammemorazione”. Il dovere di un personaggio pubblico (politico o intellettuale) è quello di attualizzare i temi attraverso il proprio operato, considerandoli cose vive. In sé, la memoria non ha senso. Pure piazzare un monumento di Garibaldi in una piazza può essere considerato opera di memoria. Ma a che serve? Se la storia del Risorgimento non ci riguarda, è memoria vuota.


Mi viene in mente che quando Agnoletto se la prende con il suo film e dice: non sono stati fatti i nomi dei colpevoli, il Social Forum non è venuto fuori bene, forse si appella proprio a questo concetto “memorialistico” della memoria abbastanza diffuso e condiviso. La cosa difficile invece è far capire che Carlo Giuliani non è un morto del Movimento, ma un cittadino ucciso.

Prima di tutto un essere umano, non un militante politico, che è stato ucciso. Ma io devo dire la verità, quando si nomina Carlo io ho un pudore che quasi mi impedisce di parlarne.

Infatti in “Diaz” non mostra l’omicidio. Manca il corpo del sacrificato.

Comunque sì, l’ipostatizzazione di Carl che diventa simbolo del militante ucciso in piazza, lo fa diventare automaticamente un morto che appartiene ad una piccola comunità, quella dei militanti appunto. Diventa un omicidio politico e la polizia assume il ruolo di controparte politica. Riguardo alle polemiche, quando parliamo di classe dirigente non all’altezza dei propri compiti, non possiamo limitare il discorso solo ai partiti politici o alla Confundustria o agli apparati dello Stato: dobbiamo allargarlo anche ai movimenti. Il discorso che Agnoletto porta avanti non va “oltre il giardino”.


Il suo film ha suscitato reazioni imprevedibili: pianti, grandi silenzi, malesseri, indignazione. Cosa vorrebbe che restasse di tutto questo traffico di emozioni?

Io credo, con Fortini, che la questione dello stile ruoti intorno a un principio fondamentale: lo stile è sempre il precipitato di un contenuto, ma non si esaurisce mai nel contenuto stesso. Se fra 50 anni qualcuno guarderà il mio film e penserà che ciò che sta guardando è un’ingiustizia, allora io avrò realizzato il mio obiettivo. L’opera è autonoma rispetto all’autore. Faccio un esempio mostruoso. Un film nazista realizzato con lo scopo di dimostrare che gli ebrei sono una razza inferiore (Süss l’ebreo) finirà con il diventare un atto di accusa involontario contro il nazismo stesso, una volta che, finita la guerra, verranno letti libri e film con occhi diversi. Questo per dire che ogni opera diventa autonoma e da un certo punto in poi noi non ne abbiamo più il controllo. Chi produce un’opera ponendosi solo il problema della denuncia, deve sapere che un giorno la sua stessa opera gli si rivolgerà contro.


Negli anni dell’apprendistato critico e poi come cineasta, lei è rimasto fedele alla scuola realista...

C’è una nuova insorgenza della realtà di fronte alla quale non puoi più chiudere gli occhi, da qualunque strada tu venga. E la cruda realtà fa nascere il desiderio di guardare di nuovo in faccia le cose. Così come è accaduto con guerra mondiale, che ha spazzato via ogni forma di ripiegamento su se stessi. Io penso che la forma documentario stia rivoluzionando il cinema italiano. Questo non significa che d’ora in poi faremo solo film documentari. Diaz non è un film documentario. Come non lo è Gomorra. Dico solo che finora abbiamo vissuto tutti in un reality show che ci ha fatto perdere il contatto con noi stessi. E tutto ciò è finito.

Se oggi dovesse rigirare “Nel mio Paese”, cosa sceglierebbe mostrare dell’Italia del lavoro (o del non lavoro)?

C’è una sola cosa che è rimasta fuori da quel documentario (che ho girato nel 2005) ed è la crisi della politica. Le fabbriche abbandonate che si vedono nel film sono il correlativo oggettivo della crisi economica. Nel 2006 l’Italia era già un Paese a crescita zero. Oggi varrebbe la pena raccontare anche la crisi delle organizzazioni politiche che indica la fine di un secolo intero, la messa in soffitta del Novecento.

E’ d’accordo con l’analisi che Bertinotti e Danti fanno nel loro libro sulle occasioni mancate?

Sicuramente quel libro è molto più complesso della sua dimensione. Viene fuori che stiamo danzando sull’orlo dell’abisso. Si dice che si è passati dalle rivoluzioni alle rivolte. Ma le rivolte per certi versi non hanno nemmeno una caratterizzazione politica. Hanno delle spinte necessitanti che nessuno riesce a categorizzare. Il dissolvimento del desiderio dell’organizzazione politica è una prateria immensa. E non sentendosi rappresentate da nessuno, le “moltitudini” trovano nella rete il contenuto, e la forma, del loro agire collettivo. E’ questa l’intuizione di Bertinotti, che però si ferma qui. Questo fenomeno gassoso è ancora tutto da interpretare.

Uno dei suoi primi cortometraggi raccontava l’omicidio di sacerdoti cattolici per mano dei partigiani nell’immediato dopoguerra. Da “Comunisti” a “Diaz (Don’t clean up this blood)”, ha spesso mostrato quel sangue che non va pulito e invece è stato cancellato: il rimosso della storia. Toccare i partigiani allora e la polizia oggi è scoperchiare dei tabù, i grandi divieti paterni. Quali sono gli altri tabù di questa società?

Il tabù macroscopico è legato alla fine del benessere. Mi sembra che i movimenti recenti come quello di Grillo (che giudico positivi) nascono non solo da una frustrazione sociale, ma da una inconscia visione del paradiso perduto, di cui però si fa fatica a discutere. L’unico dubbio che ho su questi movimenti è la loro spinta originaria: hanno la paura di perdere i privilegi acquisiti. Questo sentimento lega l’uomo di destra e l’uomo di sinistra e si traduce in questa paura diffusa: mio figlio vivrà peggio di me. Sentiamo che l’affermazione “L’Italia non è un paese povero” non è più vera.
Gli altri tabù che seguono a catena sono legati all’irresolutezza delle democrazie nelle quali viviamo. Ecco perché per me Diaz doveva essere com’è. Perché parte dalla domanda che, leggendo gli atti processuali, mi ero fatto: siamo sicuri che questa è una democrazia?

Lei è sposato con la regista Costanza Quatriglio. Si parla sempre e solo di cinema in casa?

Noi non facciamo cinema perché siamo ossessionati dal cinema. Lo amiamo come mezzo espressivo. Quello che lega me e Costanza è una certa idea di cinema. Lei fa documentari sulle persone in difficoltà: la questione delle adozioni, il fenomeno degli immigrati. I suoi lavori contribuiscono a realizzare quella idea che la rivoluzione culturale passi attraverso un certo modo di vedere in faccia le cose, ma anche attraverso una certa forma del vivere. Le nostre formazioni sono eterogenee rispetto al cinema . Costanza nasce come avvocato. Io invece sono un perito in telecomunicazioni. Ho visto il primo film a diciotto anni. E non pensavo di fare il cinema.

Cosa voleva fare da ragazzino?

Volevo studiare fisica o ingegneria.

E poi cosa è successo? Perché è stato deviato?

Io mi sono diplomato a metà degli anni Ottanta, in un momento storico che poneva già le basi della crisi attuale. La mia generazione, che è quella della Pantera, ha preso consapevolezza del fatto che noi saremmo stati i primi a vivere la crisi del sistema democratico. A metà degli anni Ottanta era chiaro a tutti che la stria del comunismo era entrata completamente in crisi e che il capitalismo aveva raggiunto un livello di contraddizioni di una violenza assoluta. Questo mi ha spinto ad abbandonare il desiderio di affermarmi professionalmente in un territorio specialistico come l’ingegneria nucleare o la fisica, e a interessarmi presto ai fatti sociali. A quegli anni risale anche il mio impegno nei movimenti ambientalisti.

Anche vostra figlia comincia già a interessarsi al cinema?

Ha undici anni. Non vorrei attribuire a Margherita delle idee mie. Diciamo che ha una passione per Charlot. Per il resto, ha la fortuna di crescere in un ambiente dove ci sono tanti libri. Io sono figlio di contadini e operai (sono nato a Rieti da una famiglia di origini abruzzese e siciliane) e a casa mia non c’era neanche un libro. Forse è per questo che ho amato tanto i libri. Il primo che ho regalato Margherita è stato un libro sulla vita di Charlie Chaplin.
(Pubblicato su "Gli Altri")

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