venerdì 25 maggio 2012

Emanuele Trevi: "Il nostro bellissimo mondo sta morendo"




Quando lo sentivo parlare in altri contesti, quando non ci conoscevamo ma si era semplicemente negli stessi luoghi assieme tante altre persone che non ci avevamo mai presentato, ammetto di aver pensato: Emanuele Trevi è uno scrittore che mi piace tanto ma parla troppo, se solo parlasse un po’ di meno.... Si è questo che pensavo. Poi una sera ci siamo seduti ad un tavolo e ho messo il registratore in mezzo a noi. Ero convinta di dover solo dire sì e no, che l’intervista se la sarebbe fatta da solo. Anche perché lui è bravo a fare le interviste. Ma poi è bastata una piccola risata scappata fuori (a lui) in un pezzo della conversazione, in un punto strano del discorso, per annunciarmi che non sarebbe andata così. Da quel preciso punto, ho capito che Emanuele Trevi nella testa degli altri ci passeggia davvero, non per finta, che forse parlerà anche tanto ma ascolta tutto quello che accade nell’aperto, dove non sai mai chi incontri e non è detto che ti salverai. Per questo quella che segue è, in un certo senso, una conversazione tra naufraghi.


Nel recensire il tuo libro, “Qualcosa di scritto” (Ponte alle Grazie), dedicato a Laura Betti e concentrato sulla tua esperienza di studioso al Fondo Pasolini, Carola Susani scrive su “Gli Altri”: “si avverte una certa nostalgia del Novecento, di un moderno in primo luogo eroico”. Di cosa hai nostalgia, Emanuele?

Io spero che le cose continuino ad accadere, nella mia vita come nella vita delle arti. Diciamo che mi sento vicino ad una modalità espressiva che univa da Carmelo Bene a Pina Bausch, da Godard a Pasolini stesso....I dischi di Jimi Hendrix o dei Doors....Io sono nato lì. C’è poco da fare. Sono nato piantato in mezzo a quel secolo. Degli oggetti narrativi che si producono oggi tipo come Jonathan Franzen non mi frega niente....Non per questo vorrei che tornassimo a vestire con i pantaloni a zampa d’elefante. Non si possono ripristinare certi modelli, non si torna indietro. Solo che io non mi riconosco nel modo di fare stabilito dai nuovi modelli industriali. La parola chiave del nuovo universo estetico è “funziona”. A me interessa proprio quello che non funziona. Ti faccio un esempio di uno dei più grandi libri del Novecento, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Ecco, quel libro non funziona, è difforme, è noioso, ma è illuminante.

Sul Corriere della Sera (di domenica 8 aprile) Fulvio Abbate dava questo annuncio: “Non scriverò più nel nome di P.P.P.”. Non prima di aver ricordato al pubblico tutte le sue pubblicazioni su P.P.P. Ecco, non credi che si sia una saturazione, un abuso, una violenza direi, nei confronti di Pasolini? Non andrebbe forse lasciato in pace?

Guarda, a me di quello che fanno gli altri non mi importa niente. Quello che penso è che ci troviamo di fronte a un caso che va molto oltre la letteratura, di una tale autenticità umana: un fenomeno di corrosione del castello di buone maniere che ci rende tutti burattini... io a Pasolini gli voglio bene per quello. Se devo pensare a degli esempi di rapporto tra letteratura e senso civile, penso a Gobetti, penso a Carlo Levi, non penso a Pasolini.

Quindi Pasolini come linea della carne, dello scandalo.

Si, come possibilità di buttarsi a corpo nudo nel processo di conoscenza.


Trafficando con le carte pasoliniane, invece di incontrare un fantasma paterno alla fine hai trovato una donna.

Si, ho trovato una donna, Laura Betti, Curioso in effetti. Quando ho iniziato questo libro, esattamente un anno fa, ero in un momento molto doloroso della mia vita. Stava morendo mio padre e quando se ne va la persona che ti ha messo al mondo, cominci a pensare anche alla tua morte. Così il libro nella parte iniziale ha risentito di questo stato d’animo, ma poi pian piano è diventato altro, è entrata più pienamente la figura di Laura.

Sempre per non dimenticare Pasolini, nel 2003 con altri colleghi e scrittori (tra cui Giorgio Cappozzo) avevate lanciato una rivista di culto che si intitolava “Accattone”. ..

Fu una bella esperienza. Più che la definizione precisa di una poetica, “Accattone” aveva l’ambizione di collocare la storia in un luogo. Ci siamo trovati in quel luogo. Ma è durato poco, come tutte le cose belle. Il problema vero è che lo scrittore ha sempre a che fare col tempo, solo che non si vede. Immaginiamo che io e te restiamo a parlare in questo posto per altri dieci anni... diventeremo vecchi ma il tempo non si vedrà mai fuori di noi. Gli uomini sono ciò che rende visibile il tempo.

Scrivi tutti i giorni?

In genere sì, bisogna scrivere tutti i giorni, ma questo momento della mia vita è talmente caotico che non ce la faccio. Sono inquieto. Mi sento sia felice che infelice.

Ci sono delle ore del giorno o delle note destinate alla scrittura?

Mi pace di più la notte ma io ho un principio: non oppongo mai resistenza. Se sto scrivendo rispondo anche al telefono ma nessuno mi obbligherà ad allontanarmi da quello che sto facendo. Alla fine la persona che ha chiamato, sentendo la forza della mia concentrazione, dovrà cedere. Ed io riprenderò esattamente da dove ho interrotto. La gente che va in campagna ad isolarsi alla fine si stanca di più di me. Io sono più forte, non ho bisogno di scappare.

Come è cominciato tutto questo? C’è stato un momento in cui hai detto: sarò critico letterario, sarò scrittore?

Ricordo che da ragazzino leggevo poesie di lirismo spinto, piene di personaggi femminili evanescenti. Ero attratto da quel mondo e ci sono finito presto dentro. Poi col tempo ho cominciato a capire che quello che dicevo al telefono era più interessante di quello che scrivevo (sempre troppo lirico). Ed è stato interessante sperimentare questa nuova modalità sul giornale, soprattutto sulla Talpa, su “Alias” del “manifesto”, ma anche su “La Repubblica” qualche volta. Mi piace molto la scrittura giornalistica. In tutti i miei libri finiscono pezzi di articoli e ho fatto tantissimi libri di interviste.

Il mondo nel quale, noi degli anni Sessanta, siamo nati e cresciuti, sta morendo. I giornali come li abbiamo letti e costruiti stanno scomparendo. Le cose di cui parlavi prima sono archeologia del sapere. Siamo pronti a celebrare questi funerali?

Si, è vero, il nostro mondo sta morendo. Il nostro mondo che è stata una cosa bellissima. E’ stato un mondo di amore e di produzione culturale altissima. Ma non possiamo portarcelo dietro fino alla vecchiaia. Le persone di sinistra della nostra generazione lo devono capire. Qualche cosa la dobbiamo perdere per strada. Questo ci darà la possibilità di custodire la bellezza delle cose. Io non mi dimenticherò mai di “Accattone”. Non mi dimenticherò mai di certi amori nati in quegli anni. I baci di notte, la creatività, tutta quella vita....


Sei spostato?

Sono al secondo matrimonio, ma non ho figli. Beh, vedi, io creo e distruggo. Continuamente. Creo e distruggo. Come dice il mio analista.

Quanti anni ci sei stato?

Ah.... Io ci vado ancora, è un’esperienza liberatoria. E tu ci vai?

Ci sono andata per dieci anni. Ma solo perché ad un certo punto la mia è morta. Sennò avrei continuato.

Beh, certo se uno muore...

Com’è il tuo terapeuta?

Mi piace molto. E’ proprio una persona interessante. Io lo chiamo “scheletrino” perché è magrissimo.

Di scuola...?

Cognitivo comportamentale nutrita di junghismo.

Capisco. L’hai scelto tu?

Mi è stato consigliato.

Tutti gli psicoanalisti alla fine ti vogliono aiutare a ricordare. Ma non sarebbe meglio dimenticare? Insomma, forse bisognerebbe farsi trovare pronti a tutto quello che verrà, magnificamente vuoti.

Mi stai parlando di quello che è la scrittura. La sua ambivalenza. Da un lato vorresti non perdere niente, dall’altra desideri cancellare e ripartire, restare aperto. Una parte di te, è inutile negarlo, vorrebbe che tutto rimanesse come quella sera dell’ottobre del 2000...perché stavi bene, perché la morte era lontana, eri attratto da qualsiasi cosa, amavi. Io non sono religioso ma penso che solo quello che perdiamo un giorno ci tornerà di fronte. L’importante è capire quanto valeva. La cosa colpevole è sprecare.

E tu hai sprecato qualcosa?

Si. Non sono riuscito a dire in tempo “ti voglio bene, sei importante per me”.

Non sei riuscito a dirlo a tuo padre?

Si, anche a lui. Ma con lui ho delle giustificazioni. Invece con altre persone non ho scuse.

Queste persone non ci sono più?

No, è che si sono allontanate per sempre. Gli altri non stanno lì ad aspettare il momento in cui noi ci ripensiamo e torniamo.

La tua più grande paura?

Avere qualcosa di invalidante che mi metta alla mercè degli altri: non poter più dare, non sentire niente...Poi, guarda, la vita è bellissima. Io ho avuto una vita meravigliosa. Quello che mi chiedo è: dove è andato tutto? Dove sta?

Ci sarà un posto dove tutte queste cose che noi siamo stati vivono.

Quando avevo sedici anni, avevo una amica della mia età, non era la mia fidanzata, ma una ragazza che amavo molto. Abbiamo cancellato dalle nostre carte d’identità “non valida per l’espatrio” e siamo partiti per Micene. Abbiamo fatto l’autostop, siamo arrivati alla Porta dei Leoni...Era bello. La tenevo per mano. Mi sentivo un uomo. Mi sentivo un Dio. Dov’è quel giorno? Cos’è successo? Dov’è la vecchia che ci ha ospitato a casa sua perché ha capito che eravamo troppo piccoli per stare in giro? Dov’è andata?

Pensi che sia da qualche parte?

Penso che si trovi in una specie di museo dove le cose che una volta sono state mie ora sono chiuse per sempre.

Non si può rompere la vetrina di un museo?

Si, ma per far questo bisogna fare in modo che accada di nuovo, bisogna non chiudersi nelle famiglie. Vedi, io non sono nostalgico del Medioevo, voglio dire del Novecento.

Bel lapsus.

Beh, noi in quell’epoca non avevamo niente. Penso alla prima casa in cui ho vissuto. Non avevo niente. Con la mia ragazza andavamo a campo de Fiori, che era diversa da oggi. Poi quando ti metti a casa la televisione, è finito tutto....Insomma , voglio dire noi andiamo avanti e non ci possiamo legare a niente.

Questo lo dici perché ti senti ancora giovane. Ma se immaginiamo la vecchiaia, non vogliamo essere soli, perché non ci saranno più “entusiasmi che ci faranno pulsare il cuore”. Ci sarà solo il passato seduto alla nostra tavola.

E allora a quel punto del tempo speriamo che ci saremo legati a delle persone che concretamente possano aiutarci, perché tutte le fasi della vita sono belle e sono degne di essere vissute.

Cosa metti al primo livello della tua scala di valori?

Tutto quello che la gente fa di bene: la carità prima di tutto. Maria Teresa di Calcutta è al primo posto ...La politica sta quasi alla fine. Le trasmissioni di politica in particolare. “Ballarò” mi fa venire il mal di pancia.

Ho visto al Teatro India “Karenina, prove aperte d’infelicità” che hai scritto assieme a Sonia Bergamasco, con la regia di Giuseppe Bertolucci. Dato che questo è il tavolo delle verità, ti dirò cosa ho pensato all’inizio: ecco l’ennesimo spettacolo dell’elite intellettuale che parla di cose ininfluenti. Ma poi ho capito che una cosa interessante c’era: nello scrivere la gestazione di “Anna Karenina”, tu ti sei fatto attrice e Sonia si è fatta scrittore.

E’ proprio quello che abbiamo fatto. Hai scoperto il nostro segreto. E mi interessa molto stare in mezzo a questo processo, nello spazio tra me e lei. Sonia è una persona meravigliosa, io la guardo come Pinocchio guarda la fatina turchina. A me piace perché non è completamente realizzata. E’ inquieta. A me interessa la gente che non ce la fa, che arranca, che cerca.

E Fabrizio Gifuni, il marito di Sonia, com’è invece?

Fabrizio è una persona eccezionale a sua volta. Vorrei fare lavoro con tutt’e due. Sonia ha l’impronta forte di Carmelo Bene, Fabrizio può fare tutto.

Di chi è stata l’idea?

Sonia voleva fare Anna Karenina, poi abbiamo trafficato tra i “Diari” di Tolstoj....lavoravamo nella cucina di Sonia..Insomma, ad un certo punto ci siamo trovati alla prima. Che paura. Era tutto vero. Se penso alla sera dell’11 gennaio, quando abbiamo debuttato al Franco Parenti, eravamo io, Sonia, Giuseppe, vivi, quella sera, tutti vivi, e faceva un freddo terribile. La sera prima di partire per Milano ero andato da mia madre e avevo preso una giacca di mio padre dall’armadio. Volevo indossarla. Ma poi siccome c’erano dieci grado sotto zero, non me la sono sentita d’andare in albergo a cambiarmi. Non l’ho più messa quella sera, la giacca di mio padre.

Quale è la cosa che ti preme più di dire adesso, in questo momento del tempo?

Penso che questa nostra vita vada vissuta in fondo. Non bisogna fare i paraculi. E’ bello andare in territori che non si conoscono, e non avere paura. Si, è questo che volevo dire.

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