domenica 15 aprile 2012
La seduta medianica di Linari con Petrolini
“Che vergogna morire a cinquant’anni”. Sono le parole che pronunciò Petrolini poco prima di andarsene, il 29 giugno del 1936. Aveva 52 anni e soffriva di angina pectoris. Ma non solo. Lui, con il suo spietato umorismo d’avanguardia, diceva di essere “l’Upim delle malattie”. Personaggio fuori norma, difficile, geniale, raffinato scrittore, pieno di rabbia in corpo, e di una tagliente malinconia, Ettore Petrolini. Noi siamo abituati a Proietti che recita Gastone, ma la sua voce vera era più disorientante, come la scrittura, fulminea, rocciosa, dove ogni parola aveva subito un’accelerazione da laboratorio anatomico. Sono pensieri che scorrono seduti in platea, mentre sul palcoscenico un giovane spericolato si cimenta con Petrolini. Gabriele Linari è ossessionato dal Novecento, con i miti delle origini. Lettera al padre di Kafka (il suo precedente spettacolo) non è forse un archetipo, una soglia allucinatoria? E così è la scrittura su pagina/corpo/voce di Petrolini, che con Kafka condivide una dolorosa e inconfutabile conoscenza del mondo, una precoce accettazione di quel “trapassatoio” che è lo stare in vita. Sulla scena, Linari porta un Petrolini giovane anche da vecchio (mentre il performer romano sembrava vecchio anche da giovane), intercettando la corda malata, visionaria, di una figura che sarà impossibile convertire a santino. Macchiette, canzoni, brani di commedie, materiali di un’autobiografia furiosa (che passa anche attraverso il riformatorio), Linari usa materiali eterogenei per evocare con fascinazione scenica lo spirito del comico più tragico del mondo. Sul palcoscenico sale anche l’affabulazione cinica di Antonio Rezza, altro più recente “mito” di Linari, di cui l’attore-regista evidentemente ha assimilato certi scatti nervosi della voce e del corpo esile. E per la prima volta ci viene in mente che sì, come non ci avevamo pensato prima, Rezza, più che con Carmelo Bene, si imparenta con la famiglia petroliniana. Anche Linari passeggia in quello stesso cimitero dove si incontrano gli artisti che dislocano soggetti e verbi (Ho morto Petrolini si intitola, non a caso, lo spettacolo). Ma con uno sguardo da studente kafkiano che guarda “i mostri” e li omaggia, in attesa di tirar fuori la sua propria mostruosità, che non potrà essere né gentile né mite né giovane.
(Ho morto Petrolini replica al Teatro Due di Roma nel mese di maggio).
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