martedì 22 novembre 2011
Stato d’Italia, i volti e i corpi del paese invisibile
“Canto per chi non ha fortuna, canto per me, canto per rabbia e questa luna contro di te... Penso a tanta gente nell’oscurità, alla solitudine della città. Penso alle illusioni dell’umanità....”. La “canzone arrabbiata” della Piccola Orchestra Avion Travel fa da ideale colonna sonora a questo viaggio di carta dentro la notte di questo paese, con la disperazione che si srotola su paesaggi intrattabili, scavati nelle ossa di chi vive sapendo che questa sua vita la può perdere in qualunque momento. Il libro è un oggetto bellissimo, si intitola Stato d’Italia (Postcart, 35 euro), Lucia Annunziata ne ha scritto la prefazione. I giornalisti che hanno creato le storie sono Laura Eduati, Andrea Milluzzi, Davide Varì e Angela Mauro (tutti collaboratori de “Gli Altri”): le loro parole sono incastonate nella pietra nero/bianca delle immagini di Emiliano Mancuso che, da sole, meriterebbero un libro sul libro: perché ogni foto è un quadro drammatico, creaturale. Non c’è un solo scatto che non colga quello che non abbiamo mai “guardato” veramente anche se abbiamo creduto di “vederlo” da qualche parte. Non è una questione tecnica (peraltro raffinatissima), ma un affare della luce nera lucente che si deposita sui volti e sui corpi facendone, appunto, materia per deposizioni. Arte sacra nella sinfonia accartocciata delle notti - e dei giorni anneriti - su cui veglia chi è stato buttato fuori dal recinto sociale, come spazzatura, cane, paccottiglia senza carta d’identità, meglio morto se vivo. Il fuori si scioglie in paesaggi industriali e pezzi di una natura che sembra essere disabitata da secoli: montagne, nuvole, stormi spaventevoli di uccelli. Ma i veri punti di attrazione sono gli interni - case dormitorio, pavimenti bucati, dettagli di finestre da cui non entra la luce né ne esce - e ancora di più gli esterni che diventano interni soffocati, strade e cortili e spianate di cemento dove sono stati gettati i randagi di questa terra. L’obiettivo fotografico raccoglie e ricompone una serie di corpi buttati a terra o su un materasso, tra corde logore e legni inumiditi. L’essere umano è una cosa che non serve. Il respiro è sempre sul punto di andarsene. Nella sezione “Gli invasori”, Mancuso fotografa un ragazzo disteso a letto sopra una coperta a righe bianca e nera, la maglietta nera un po’ alzata sul petto, su cui sono poggiate le mani pesanti, esauste. Sotto l’ombelico, sulla destra, un tatuaggio informe, come una macchia di acquerello stinto. Il viso si vede a metà, solo un occhio sbarrato e la larga bocca semiaperta: un’invocazione di aiuto dentro la rassegnazione.
Fotografie e reportage non rimandano letteralmente l’uno all’altro. Diciamo che si muovono nella stessa zona notturna, sulla stessa mappa del corpo che raccoglie i migranti di Lampedusa (il corpo al grado zero), i kalifoo (gli schiavi a giornata), i cassaintegrati in protesta web dalle celle dell’Asinara, i vecchi che muoiono a via Prenestina 913, per un infarto provocato dalla notizia di sfratto. Diviso in cinque sezioni – “La terra promessa”, “La dismissione”, “Gli invasori”, “il Belpaese” e “A scena aperta” – Stato d’Italia si stende come lava omeopatica sulla tessitura pulviscolare, tragica, del reale, le cui trame non sono sempre indovinabili. Alla fine del viaggio, non hai la sensazione di aver fatto “la cosa giusta”, quella che probabilmente un indignato farebbe, cioè andare a vedere le cose come stanno al di là della documentazione e narrazione ufficiale. Con questo libro, fotografo e giornalisti fanno un lavoro diverso e controverso. Perché, fin dalle prime righe dei loro reportage, non sappiamo quasi mai dove andrà a finire il discorso. La denuncia passa attraverso il setaccio di una situazione particolare, di una giornata particolare, qualche volta persino di una stanza particolare. L’immagine blues si ingrandisce assieme a chi guarda e chi legge, senza la presunzione che ci sia un insegnamento o una lezione da parte dei narratori, accordati nella volontà di portare là dove migranti, studenti, anziani, cristiani e musulmani sono tutti infilati dentro il pozzo della storia, dove non c’è nessuna corda che porti in superficie i corpi di chi si è fatto male a Rosarno o negli scontri del 14 dicembre 2010. In particolare Laura Eduati (che firma il maggior numero di reportage), immette nel flusso di questa contro-narrazione esemplare, una nota di pìetas tutta sua, la capacità di leggere i volti e le parole di chi incontra, accogliendone le spinte paradossali, umanissime, che una posizione scandalizzata non aiuterebbe a far emergere (la storia dei matrimoni combinati a Brescia, oppure il nuovo senso di comunità nato dopo il terremoto all’Aquila ), perché lo sguardo si muove con delicatezza da fuori a dentro, evitando di identificare subito il colpevole e riservando sempre, nei finali, una frase sospesa, piccola, di suono minore, carveriana per vocazione e non per effetto. Il risultato è una scrittura di sottile perturbazione atmosferica, intima, non troppo vicina né troppo lontana, attaccata ad un ritmo calmo del pensiero che il lettore porterà dentro la sua vita e con cui andrà a dormire, sollevato per non essere stato aggredito ma informato.
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