lunedì 28 novembre 2011
Quando la cultura degenera in lavoro culturale: la profezia di Bianciardi a 40 anni dalla morte
“L’aggettivo agro sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato”. Così scriveva Luciano Bianciardi ad un amico nel 1962. Si riferiva, lo scrittore toscano, all’aggettivo che depose accanto al sostantivo “vita”, per render conto di quanto accadeva (e ancora accade) nell’operosa Milano, la Milano dell’industria culturale, la città che fabbricava (e fabbrica) idee appendendo cartellini col prezzo sul collo dei suoi creativi, piegando la rabbia rivoluzionaria in combustile pubblicitario. Bianciardi moriva quarant’anni fa (era il 14 novembre del 1971) solo quattro anni prima di Pier Paolo Pasolini. Al primo (che non era milanese), la storia aveva posto il compito di narrare Milano, all’altro (che non era romano), la missione di ri-fabbricare a modo suo il mito di Roma. Ma il destino della due mitopoiesi è stato molto diverso. Mentre l’aggettivo “pasoliniano” viene tuttora usato/abusato in qualsiasi ambito, culturale e sub-culturale, da sinistra e da destra, abbinato in genere a immagini di periferia urbana e ad un linguaggio crudo, diretto, indistintamente profetico, l’immaginario legato alle variazioni della Vita agra conserva una sua aura più segreta. Vivere nel limbo dei non completamente dimenticati e dei mai veramente compresi, è forse il destino migliore che possa capitare ad un grande scrittore, a colui che per sua vocazione dovrebbe portare da vivo e da morto una perturbazione costante, un vento freddo di dissenso. Il fatto che Bianciardi non sia citato tutti i giorni in qualunque dibattito - non solo televisivo - ci permette di fargli visita senza avere la presunzione di conoscerlo. Cosa scopriamo allora se andiamo a compiere questo semplice gesto (che andrebbe fatto con un una certa frequenza, e non solo allo scadere di un luttuoso anniversario)? Scopriamo, per esempio, che l’aggettivo “agro” ha mantenuto la sua natura straniante, inabitale. Per questo, si proietta come la perfetta linea d’ombra che ad occhio nudo si percepisce come il massimo grado della (finta) integrazione. L’integrazione è, non a caso, il titolo che Bianciardi diede al suo libro precedente, scritto nel 1959 in soli dieci giorni di sigarette e grappa (come ricostruisce nel suo bel libro Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Feltrinelli, 9 euro), “uno schizzo sarcastico dell’industria culturale all’alba del boom” dove ancora una volta lo scrittore si divide in due, lasciando all’immaginario fratello Marcello il compito di rappresentare il rifiuto delle regole marce della produzione e riservando a Luciano l’accettazione ai fini della sopravvivenza. Procedendo a ritroso, ritroviamo Luciano e Marcello Bianchi nel primo capitolo della camuffata autobiografia di Bianciardi, Il lavoro culturale (pubblicato nel 1957). Qui Luciano si riserva la parte dell’osservatore, del fratello più piccolo destinato ad attività sportive, delegando a Marcello la parte dell’apprendista “operatore culturale”. Riavvolgiamo il nastro della memoria e ricominciamo là dove tutto è cominciato, dalla vita di provincia a Grosseto, dai cineclub dalle fazioni divise tra eruditi, archeologici e giovani iconoclasti, questi ultimi innamorati della città stessa, della sua allargata e sbilenca spirale che dal centro si irradiava in periferia. E’ qui che incontriamo gli austeri funzionari di partito, i professori miopi e razzisti, i professionisti delle conferenze-spettacolo, personaggi e “topoi” di un dispositivo che negli anni si è perfezionato fino al punto tale da non produrre più nessun Bianciardi in grado di disinnescarlo con l’intelligenza di chi parla solo di ciò di cui ha fatto esperienza (non era questa la grande lezione di Hemingway: scrivere di quello che si conosce e di nient’altro?).
Rileggere Il lavoro culturale è forse uno dei consigli più sovversivi che si posano dare agli studenti e agli occupanti d’Italia. Non solo per difendersi dai professionisti della cultura, ma per evitare di correre il rischio di diventarlo a loro volta. Perché non basta porre al centro del discorso un operaio, non è sufficiente rivendicare diritti sindacali per chi si fa massa. Non è rilevante atteggiarsi ad intellettuale o critico che partecipa ogni giorno a conferenze politically correct. Per vigilare sulla degenerazione del senso (e della vita stessa) occorre ben altro, e la rivoluzione è anche linguistica. Le pagine che Bianciardi dedica all’analisi di chi fa “il lavoro culturale” e usa orgogliosamente termini come “problema”, “nuovo”, “estremo interesse”, “concreto”, “dibattito”, “prospettiva di lotta”, andrebbero rilette ogni sera prima di andare a dormire, affinché nel sonno vengano eliminate come materiale superfluo. Bianciardi non voleva certo abbattere ogni genere di investimento in processi vivi della cultura, ma ci invitava a vigilare sulla sclerotizzazione delle forme, sulla tentazione, fortissima negli ambiti intellettuali, di trasformare un sostantivo in innocuo e spento aggettivo. Perché la metamorfosi della “cultura” in “culturale” assicura il mantenimento dei professionisti – convegnisti, conferenzieri, critici, opinionisti – e il definitivo oscuramento della classe sempre oppressa in quanto non parlante e non scrivente: “In mezzo a noi che volevamo una cultura moderna e spregiudicata, Marcello insisteva a dire che niente è moderno e spregiudicato se non lascia davvero dietro di sé i pregiudizi e i residui di maggior peso, se non tiene conto di questa fondamentale esperienza dei nostri giorni, e che la cultura non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, a evitare il male”.
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