lunedì 21 novembre 2011

Il velo nero del pastore: la rivoluzione umana di Romeo Castellucci


Nel volto di Cristo che emette non lacrime non sangue ma feci (finte, naturalmente), gli ultra-integralisti cattolici di Civitas hanno visto la bestemmia. E con le loro facce da demoni sono arrivati fin dentro il Théatre de la Ville di Parigi, dove si stava rappresentando Sul concetto di volto nel figlio di Dio per insultare Romeo Castellucci, il regista della Socìetas Raffaello Sanzio. E non hanno visto, i demoni, quanta passione religiosa ci fosse in quel primo quadro dello spettacolo, là dove un figlio accudisce il vecchio padre incontinente, e come gli umori del corpo di un vecchio diventino gli umori del corpo di Cristo, il loro correlativo drammatico. A distanza di pochi giorni dal linciaggio dei neo-lefebrviani, debutta a Roma la seconda parte del dittico di Castellucci, ancora una volta all’interno di RomaEuropa. Il velo nero del pastore è ispirato alla stessa novella di Hawthorne, The minister’s black veil, ma in un modo più enigmatico. Nel Concetto sul volto di Dio dominava un sentimento di pìetas che trovava nel marrone delle feci creato con vernici in un laboratorio, la sua dimensione fisica, umana. Qui invece ritorna quel sangue tante volte esibito nei precedenti spettacoli, in particolare in Bruxelles (Tragedia Endogonidia), dove due poliziotti torturavano un altro poliziotto fino allo strazio, per dimostrare come la violenza fosse tutta interna alla legge. La pasta rossa con cui la ragazza (Silvia Costa) si ferisce ora la faccia, le scosse di luce elettrica che la fanno sobbalzare, quel suo essere costretta a poggiare il corpo esile sul vetro dentro cui topini da laboratorio stanno impazzendo, è una specie di timbro di fabbrica della Socìetas, come lo sono le lampadine fulminate e i corpi stesi a terra. Ma c’è, in questa ultima opera, un dispositivo ermetico che rimanda a simboli d’arte contemporanea (Abramovic, Cattelan, Bill Viola), consegnandosi come montaggio di quadri in sé assoluti e non consequenziali. Una locomotiva- su cui paiono innestarsi un carro armato e un sottomarino - avanza sul palcoscenico con il respiro affannoso e terrorizzante di un animale preistorico. Immagine che non si spiega, come tutto il resto. Perché nella novella di Hawthorne quel pastore che chiama a raccolta i fedeli, non si toglie mai il velo nero? E’ da questa domanda che nascono le figurazioni crudeli di Castellucci: la ragazza torturata, una tempesta che sconvolge il pianeta, la guerra. Lo spettacolo traslittera il mistero dello sguardo negato, mentre noi spettatori siamo costretti a svelare impudicamente il nostro.
(Pubblicato su "Gli Altri")

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