venerdì 7 ottobre 2011

Luca Ronconi: "Con il lavoro del teatro ho sconfitto la mia fragilità"


Viaggio nel bianco. La luce delle colline umbre. Le pareti di Santa Cristina (Gubbio), il centro di alta formazione teatrale diretto da Luca Ronconi che sembra costruito in Nord Europa. Il silenzio e le parole. Quelle che passano, sottili, come manufatti preziosi, dal maestro agli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica, e che si sciolgono attorno ai dialoghi del Pilade (di Pasolini) e dei Sei personaggi in cerca d’autore (di Pirandello). Dopo la prova aperta al pubblico, si cena tutti insieme. Il cuoco, che è moldavo, cucina cose fantasiose. Alla fine, i ragazzi fanno un’imitazione di una scena inventata: il loro direttore Lorenzo Salveti che dice ad un giovane Massimo Popolizio: tu non sai recitare i pensieri, vuol dire che non reciterai mai con Ronconi. Ronconi sta passando proprio in quel momento per andare a dormire. I ragazzi si intimidiscono e cambiano discorso, ma lui sorride. Un maestro più benevolo di così. Si, ma è pur sempre Ronconi. Già, è pur sempre Ronconi, Me lo ripeto anche io l’indomani, prima di questa intervista. Il regista (e direttore di stabili: l’ultimo è il Piccolo di Milano) che ha attraversato l’ultimo mezzo secolo di storia teatrale con opere colossali. Un serio filologo della scena. Un intellettuale che fa un teatro di grandi macchine. Un maestro troppo venerato o troppo detestato. Per alcuni, un mito. Per altri, uno scialacquatore di soldi pubblici. Esiste l’aggettivo “ronconiano” per dire una certa maniera di recitare, ricostruire il mondo sul palco, esagerare. Esiste “ronconiano” come esiste l’aggettivo “viscontiano”. Un po’ di soggezione la mette per forza. Ma poi scopri che ad essere intimidito dalla forma-intervista è lui: “Vede, io la ringrazio, ma la cosa che mi fa meno piacere al mondo è rendermi visibile”. Ronconi è un uomo timido che ha bisogno di tempo per dire quello che deve dire. Questo il significato della sua leggera afasia, della sua parola piana, di suono diffuso. Un suono bianco.


Lei definisce questo luogo un luogo di libertà creativa dove si può fare quello che altrove è impensabile fare.

Questa era una fattoria disabitata, confinante con la mia casa, dove continuo a stare quando non lavoro. In questa forma che lei vede, la struttura esiste da sei anni. E’ confortevole ed entusiasmante lavorare qui. Anche se per i ragazzi è tutt’altro che una vacanza. Ma abbiamo il tempo dalla nostra parte, il tempo della ricerca.


Durante le prove, lei incoraggiava agli allievi ad andare in una direzione anti-sentimentale e anti-psicologica, per incontrare l’altro - e non se stessi - inseguendo la traccia di una logica “cosale”, “oggettiva”, della scena.

Certo, bisogna cercare la logica della scena se c’è la logica della scena. E questo è chiarissimo con Pirandello. Ma se poi affrontiamo il “Pilade”, che è un testo di un impegno civile fortissimo, non possiamo non constatare quanto un discorso civile debba essere assimilato in termini anche di conoscenza e non soltanto di partecipazione generica o sentimentali. Non c’è nessuno che non si dichiari democratico, ma nel momento in cui si parla di democrazia pochissimi sanno quali possono essere le ragioni, i rischi e le coordinate di un fenomeno così importante.

Torna spesso sul “Pilade” e in generale su Pasolini...

Si, “Pilade” l’avevo fatto già a Torino con altri giovani attori, perché è un testo che chiama a sé proprio la giovinezza. Comunque, il teatro di Pasolini l’ho fatto quasi tutto a “Affabulazione” a “Calderon”...Quest’anno avrei voluto fare come clou della stagione del Piccolo un’edizione integrale di “Petrolio” ma gli eredi non mi hanno concesso i diritti.

Con quale motivazione?

Questo bisogna chiederlo agli eredi.

Negli “Appunti per un’Orestiade africana”, Pasolini andava interrogando i volti dei giovani nelle università africane per trovare il nuovo Oreste. Lei dove lo trova Pilade tra i volti e le storie dei nostri contemporanei?

Non è facile, perché il “Pilade” come tante altre opere di Pasolini, è insieme una riflessione su se stesso (una specie di autobiografia intellettuale e personale), e un dramma civile. Ed è difficile scindere i due aspetti. Dovendo fare un film, Pasolini cerca un volto. Per fare bene Pilade a teatro oggi, bisognerebbe trovare non tanto qualcuno che corrisponda, ma qualcuno che possa avere la curiosità di arrivare a conoscere profondamente quei temi. Quando parlo della tendenza di tanti giovani a parlare solo di se stessi, parlo della loro tendenza ad auto-rappresentarsi più che a conoscersi. La chiamata del Pilade va proprio nella direzione della conoscenza di sé.

Stiamo parlando della scissione tra ragione e autobiografia della carne. A questo proposito, possiamo dire che lei è arrivato a 78 anni mantenendo sempre uno straordinario, e rispettabile, riserbo sulla sua vita. Ma ci sono stati momenti in cui un amore, un abbandono, una ferita, un fatto improvviso, hanno incrinato le sue certezze e rischiato di sabotare la creazione stessa?

Non è facile rispondere a questa domanda. La mia vita è stata molto lunga e il sabotaggio invece è stato molto precoce. Se devo pensare ad un momento particolare della mia vita in cui qualcosa che è successo (e che non so neanche che cosa sia) ha rischiato di lavorare in senso distruttivo, allora devo pensare alla mia adolescenza, la mia primissima giovinezza, a Roma. Da quando ho affrontato il lavoro teatrale, il fantasma della distruzione non si è più presentato. In realtà io sapevo già da bambino che avrei fatto teatro, avevo delle precise premonizioni in questo senso, ma gli anni dell’adolescenza sono stati più tormentati, difficili. Anche dopo i vent’anni ho avuto degli sbandamenti, e so di essere anche molto vulnerabile, ma a quel punto ci avevo fatto il callo.


Come sceglie un testo?

Io ho messo in scena di tutto, dalla tragedia greca a Pirandello, da un romanzo a un articolo di giornale. Mi piace pensare al teatro come un’attività onnivora, che può alimentarsi di un’infinità dei materiali, senza obbligatoriamente consumare quello che è pronto per essere consumato teatralmente. Quest’attività onnivora è la mia: ho avuto un’adolescenza molto vorace di letture.

Nella sua casa paterna c’era una importante biblioteca?

Si, ma era la biblioteca di mia madre.

Chi erano i suoi genitori?

Mio padre non l’ho praticamente mai visto perché se ne è andato quando io avevo due anni, ha vissuto all’estero ed è morto quando io ne avevo dieci. Mia madre era un insegnante di lettere e a casa c’erano tanti libri. Io leggevo, leggevo, leggevo.... Questa era la mia attività da ragazzo. Leggevo quello che capivo e anche quello che non capivo.

In effetti, assistere ai suoi spettacoli, di qualunque genere essi siano, è come leggere un libro di capacità volumetriche. Lo spettatore si muove negli spazi d’aria tra le parole.

A me piace immaginare lo spettatore come un lettore, e questo mi ha procurato anche parecchie difficoltà e diversi attriti. Il teatro non deve essere una cosa coercitiva. A partire dall’ Orlando Furioso, che era proprio un attestato della libertà del pubblico, il teatro che ho fatto dopo è stato un tentativo non sempre riuscito e quasi mai riconosciuto di mantenere quel tipo di libertà di fronte all’opera. Non mi riferisco alla mobilità fisica, ma alla mobilità mentale.

Lei è un analogico o un digitale?

Il computer non ce l’ho, e neanche il cellulare. Quando scrivo, scrivo a mano, ma scrivo pochissimo, pochi appunti sintetici o qualche schizzo.


Non abita a Roma da tanti anni. Ma quale è la traccia della romanità che ancora le abita dentro?

Quando parlo con gli allievi, mi esprimo in romano. Gli esempi che faccio, le analogie che trovo, vengono da lì. Fondamentalmente, penso in un modo scanzonato.

Come è invece la sua Milano?

Nel mio caso, è difficile prescindere dalla memoria che si ha dei luoghi e delle persone. Quando parlo di Milano, è la Milano che ho conosciuto negli anni Sessanta, e poi negli anni Settanta e Ottanta, la Milano che non ho mai frequentato negli anni Novanta (perché stavo a Torino e a Roma), e infine la Milano in cui mi sono ritrovato negli ultimi dieci anni.

Quale è oggi il compito fondamentale di Pisapia?

Pisapia sindaco di Milano è l’occasione che la città aspettava da anni per cercare di ricostituire quel tessuto reale, serio, fondativo, che era stato distrutto da un’idea di immagine appiccicaticcia e consolatoria. Per Pisapia, è una grande responsabilità. Non sarà facile. E qui ci torna utile proprio il “Pilade”, dove Pasolini parla dei pericoli e dei rischi del consenso, della necessità del consenso in democrazia.

Non le sembra che Nichi Vendola abbia dei tratti che lo imparenta a Pilade: la differenza e il senso dell’amicizia, per esempio?

Si, sono d’accordo. L’amicizia, l’affettività, la spinta all’utopia. E una specie di naturale ingenuità, che può essere anche una forza.


Come vive lei i rapporti d’amicizia?

Nelle mie amicizie e nei miei affetti sono sempre stato costante. Viceversa, mi è venuta a mancare qualche volta la fedeltà. Essere costanti è meno difficile che essere fedeli, perché riguarda esclusivamente noi. E’ un fatto psicologico, non è un fatto relazionale.


Quante ore lavora al giorno?

Fino a tre anni fa, lavoravo dalle dieci alle dodici ore al giorno. Adesso non posso più, ma quando non devo fare le mie cure, sono all’opera.

Non si stanca mai?

Il teatro l’ho sempre pensato come un lavoro. E’ il mio lavoro. Se sono con gli attori, cerco di essere utile agli attori. Se scelgo un testo, penso che possa essere utile agli spettatori conoscere quel testo. E’ così che mi oriento. Mi reputo un intermediario tra il pubblico e il testo. Non può non esserci un mio filtro, ma cerco di essere ogni volta il più possibile oggettivo. Per me il teatro non è creazione, non è invenzione, ma operatività. Questo mi dà equilibrio, mi fa star bene, mi toglie dalle fluttuazioni del successo-insuccesso.

Diceva Pasolini che la più grande tragedia che possa capitare ad un essere umano è un grande successo.
Se hai il successo e hai paura di perderlo, stai male. Se non ce l’hai, soffri ugualmente. Io ho avuto una lunga vita professionale. In certi momenti ho avuto grandi successi, in altri non ne ho avuti per niente. Ho avuto dei periodi in cui dominava un sentimento di insofferenza nei miei confronti. Ma questa insofferenza che sentivo non mi ha demolito. Metto sempre tutto in conto e affronto tutte le conseguenze possibili perché il mio vero rapporto è con il lavoro. Mi piace. So che lo so fare. So che lo so comunicare. E soprattutto so comunicare il piacere di lavorare, e non l’esteriorità, la fama, la visibilità.

Come vive il fatto di essere, che lei lo voglia o no, un monumento (anche controverso) del teatro italiano?

Lo vivo con ironia. Guai a non essere ironici con se stessi.

L’ho sempre pensato: è l’umorismo alla fine che ci salverà.

Personalmente, mi ha salvato....

Quante lingue conosce?

Adesso una sola, che è il francese. Da bambino, parlavo benissimo il tedesco perché ho fatto qualche anno in un collegio in Svizzera, ma l’ho dimenticato. Caparbiamente, l’inglese non l’ho voluto mai imparare. Fa parte delle rinunce della mia vita. Vuole sapere quali sono le altre?

Si, lo voglio sapere.

Una è l’inglese, un’altra è il computer (perché sono troppo vecchio). Un’altra ancora è il cinema, cioè fare un film: mi sono sentito sempre inadeguato ad affrontare l’esperienza cinematografica,. L’ultima rinuncia è l’orologio. Non l’ho mai portato. Però sono la persona più puntuale del mondo.

A proposito della lingua straniera, mi viene in mente il flusso della lingua inglese che lei decise di usare in “Lolita”, facendo doppiare a Galatea Ranzi la giovane Elif Mangold che recitava le battute della sceneggiatura originale...

Il fascino di “Lolita” è che c’è la storia d’amore ma anche l’innamoramento di uno scrittore per una lingua non sua. Lo spessore del libro è in questo. E’ una storia d’amore che è metafora di un’altra storia.


Emanuele Severino, che a ottant’anni ha appena scritto una autobiografia, dice che i ricordi sono falsi...

Falsi, falsissimi. Nel corso di un dibattito, mi capitò di parlare del mio primo spettacolo. Io feci un racconto molto dettagliato dicendo che avevo incontrato Luigi Squarzina alla Biblioteca Nazionale di Roma e che non gli avevo detto di aver fatto l’Accademia d’Arte Drammatica. Squarzina rispose dicendo che non era vero niente, che la biblioteca sì c’era ma non era quella e che la cosa andò in tutt’altro modo. Detto questo, penso che sia una fortuna che nel funzionamento della memoria ci sia una protezione selettiva.

Il lavoro sui “Sei personaggi in cerca d’autore” che si sta facendo qui a Santa Cristina porterà ad un debutto la prossima estate a Spoleto. Quello che vediamo attualmente è una stanza bianca, disadorna, una vita creaturale, niente metateatro. E’ un Pirandello sguarnito di tutta la cerebralità?

L’obiettivo è quello di portare in scena contemporaneamente l’esistenza quasi abortiva, fetale, di alcune figure, e di sottolineare il loro seme, che è provinciale, italiano, anzi italiota. E’ come se l’autore rivestisse certe figure reali di panni finti. Questo è un punto. L’altro punto è che l’esperienza teatrale è labile, perché è l’incontro di due mondi fantasmatici, quello teatrale che è votato ad una rappresentazione che non si riesce a fare, e quello dell’autore.

Lei veste spesso di bianco e questo posto è avvolto nel bianco, a cominciare dalle pareti....

Il bianco attira tutti i colori. Qui la sera diventa rosa, la mattina è arancione, d’inverno è grigio e azzurrino....Quando passa la luce in mezzo agli alberi, tutto diventa verde.

Cosa pensa dell’occupazione del Valle?

Mi sembra una cosa necessaria. Non ci sono andato finora perché qualcuno mi ha detto che lì mi vogliono morto.

E se gli occupanti le chiedessero invece di andare a parlare con loro e con la città?

Compatibilmente con i miei problemi (i miei infermieri sono a Perugia o a Milano), si, mi piacerebbe un pomeriggio andare a Roma per fare una chiacchierata con questi ragazzi, ma una conversazione tranquilla, ecco una cosa così come la stiamo facendo io e lei adesso...

(Pubblicato su "Gli Altri" del 7 ottobre 2011)

Nessun commento: