venerdì 14 ottobre 2011

Sesso e potere: i casi Berlusconi, Marrazzo e Strauss-Kahn



Declinazioni di una relazione lunga quanto la storia dell’uomo. Sesso e Potere. Storie di amore e di violenza. Quando i protagonisti sono noti, si dicono scandali. E quando scoppia uno scandalo, le rotative si fermano per permettere alle penne migliori di fare l’elenco delle più spettacolari e rovinose cadute dei “regnanti”: per debolezza, o evidente abuso camuffato da necessità cruda del corpo. L’indignazione ci regala una smorfia sempre pronta che, al primo sguardo distratto, si tramuta subito in sorriso di levantina complicità - unita ad un farraginoso ma incontenibile senso di sollievo - per non essere noi, ma altri, i protagonisti della vicenda. Se la giornata è “uneventful” (senza eventi) come dicono gli inglesi, allora la notizia di un uomo che non ha saputo controllare i propri istinti, e di una bambolina provocante, si gonfia a dismisura, per sgonfiarsi in genere dopo pochi giorni, all’avvento di una nuova torbida scoperta. Introduciamo insieme la relazione tra potere sesso e racconto mediatico, perché il terzo elemento non fa da semplice cassa di risonanza degli altri due: fa parte di un unico corpo parlante, un piccolo mostro dalla testa voluminosa e vuota, a cui ormai non badiamo più, se non nelle ore di luna piena e di noia mortale.
Già il gesto di scrivere le due parole, “sesso” “potere”, l’una accanto all’altra, trascina simultaneamente con sé i resti cannibalici di tutti quei pasti consumati pubblicamente, tra grasse risate e pruderie voyeuristiche. Le due parole messe a dormire come sorelline sullo stesso letto, richiamano alla memoria involontaria la testatina “costume e società” dei nostri tabloid mascherati da giornali-sentinelle, la sensazione opprimente che niente c’è più da dire quando la chiacchiera mondana ha rosicchiato tutto. Come si fa a scoperchiare le tombe e pretendere che ci sia ancora qualche cosa da vedere, di quell’omicidio a luci rosse, di quel banchetto della carne su cui i riflettori sono stati così sguaiatamente accesi da rendere la scena primaria opaca e nera, più nera della notte da cui per sua natura proveniva?
Come dice Fabrizia Di Stefano, sociologa transessuale, studiosa intransigente di Lacan, e autrice di un libro importante, Il corpo senza qualità, arcipelago queer , “è un po’ difficile essere un voyeur teorico. Certe cose, o si vivono o si vedono. Altrimenti, fanno parte di una parte insondabile della sessualità difficilmente ratificabile dalla ratio” . La considerazione di Di Stefano nasceva da una recente riflessione in merito alle “confessioni” dell’ex governatore della regione Lazio, che in una inattesa intervista rilasciata a Concita De Gregorio aveva dichiarato “Avevo bisogno di suonare a quella porta e che quella porta si aprisse” . Alludeva, Marrazzo, allo scandalo che lo rese protagonista: l’incontro con una transessuale a via Gradoli che raggiunse usando la macchina della Regione, il ricatto, la vergogna, le dimissioni. Due morti legati alla vicenda (Brenda e il pusher Cafasso), l’ombra dei servizi segreti, un’inchiesta ancora in corso.
Era il mese di ottobre del 2009.
Dopo due anni esatti, Marrazzo parla di quella stanza che allora aveva rappresentato il buco nero, la voragine dentro cui un uomo pubblico era caduto: “Avevo bisogno di suonare a quella porta e che quella porta si aprisse”. Quale è la cosa che viene detta con queste scarne parole, e cosa invece non può esser detto? Veniamo a sapere che in quella stanza è facile entrare e che la abitano creature accoglienti, transessuali che avevano attratto il politico e giornalista (due poteri concentrati in un’unica persona) più “per il loro comportamento che per la loro fisicità”.
Quale piacere - o dispiacere - legato a quale precisa forma del potere sta rivelando allora questa scena? “Ciò che sfugge alla presa è l’altra scena che si apre quando quella porta si chiude e ci parla dell’incontro solitario tra i corpi – continua Di Stefano - E’ il vuoto della scena dell’incontro sessuale. Lacan lo diceva chiaramente: non c’è rapporto sessuale. Questo vuol dire che nella sessualità non c’è rapporto, ma incontro. I due godimenti stanno l’uno di fronte all’altro, disinteressati e soli” .
Questo è il dato brutale, della scena primaria. Un dato che vale per tutti. Ma in quel preciso momento del tempo. Marrazzo aveva un ruolo pubblico, oltre che una famiglia. Infatti l’ex presidente della Regione Lazio si scusa con i suoi elettori e con le sue donne. Lo fa in una maniera confessionale, drammatica, ancora vittima evidentemente di un dolore infestante e di irredimibili sensi di colpa.
Sottraendosi alla morale corrente, che legge in quelle confessioni un modo strategico per tornare in campo, oltre che una offesa alle donne “normali”, le mogli, le figlie, le madri, Lea Melandri fa una domanda spiazzante: perché Marrazzo si scusa?: “La relazione consumata fuori dalla “normalità” familiare, eterosessuale, sembra aver costretto Marrazzo a riconoscere che potere e fragilità maschile, desideri sessuali e bisogni affettivi, responsabilità pubbliche ed esperienze personali, sono meno separate di quanto si creda e si preferisca pensare ... Se c’è un errore in tutta questa vicenda, è di non aver avuto il coraggio di porre la sessualità – rapporto tra i sessi, orientamento sessuale – come questione in sé politica” .
Questo è un esempio (raro) di ragionamento che ci aiuta ad uscire fuori dalla trappola dell’indignazione (è sempre l’Altro che compie il gesto osceno, noi siamo invece morali), dal tono sarcastico e consolatorio di tanta nostra pubblicistica che non fa che vedere ladri e ballerine dappertutto tranne che nella propria stanza.
Se il caso Marrazzo immette nel discorso su sesso e potere un elemento cosciente di fragilità, l’affare Berlusconi si snoda ovviamente su un altro binario. Il nostro presidente del Consiglio non solo non si dimette né si scusa (capiamo solo nel confronto quanto le scuse pubbliche di Marrazzo in realtà siano state indispensabili a creare il solco che separa i due fenomeni), ma non fa che rappresentarsi come la vittima di un potere giudiziario smisurato e di una ossessione mediatica, avendo parzialmente anche ragione, ma ignorando l’enorme favore che il partito voyeuristico del dissenso gli ha fatto in tutto questo tempo. Pubblicare per mesi la foto della bella Ruby e delle altre ragazze coinvolte nello scandalo, insistere maniacalmente su ogni dettaglio sessuale, solleticare il piacere morboso di spiare dentro le stanze del potere, non aiuta il processo di liberazione morale e intellettuale: ci costringe, al contrario, a galleggiare, impotenti, nel torbido. Questo non vuol dire che l’affare Berlusconi, in virtù della carica istituzionale e politica che riveste, non sia anche affare nostro, certo che lo è. Ma perché giocare una battaglia di narcisismi riflessi allo specchio, se non serve al mantenimento delle forme ibride del potere che sul sesso e la sessualizzazione della notizia giocano le loro partite quotidiane? I modi del racconto, l’uso della parole e dell’immagine, il tono esasperato, indignato, o pacato, della ricostruzione (politica e analitica) possono svolgere un ruolo determinante nell’ascesa o nella caduta del nostro Ubu Re.
In un certo senso, Berlusconi non esiste. O meglio, esiste un corpo sociale, un dispositivo psicologico che lo ha partorito. Esiste una domanda collettiva di incoscienza e incolumità. Esiste la garanzia che nessuno ci punisca se si tocca il culo alle donne o o si fa cucù a un capo di Stato.
Mentre lo impalano e lo additano come esempio di vergogna sociale, tutti ci invidiano un po’ Berlusconi. Perché nessuno si è spinto “fino a questo punto” senza farsi mai male. Tutto ciò è stato possibile perché, semplicemente, Berlusconi, non porta con sé un corpo reale, capace di soffrire e di provare dolore o vergogna, ma un corpo-monstre.
Questo è Berlusconi. Ora, quale potere sessuale incarna un uomo così? E’ un potere che veramente possiamo dire “maschile” e “patriarcale”?.
Voglio citare ancora una volta Lea Melandri, che identifica in Berlusconi l’esempio di un processo di femminilizzazione della politica. “Il tratto esibito di seduttore sedotto – dalla propria immagine, dal riflesso che ne mandano i volti plaudenti dei suoi estimatori – lo avvicina alla figura, accattivante per entrambi i sessi, di una mascolinità che non sdegna inclinazioni femminili, che alla prova muscolare preferisce l’abbellimento, alla voce imperiosa la battuta di spirito e l’allusione malinconica o il gesto impertinente dell’eterno fanciullo” .
La messa in scena di corpi immolati all’altare di un “papi” che si abbellisce e ride, in modo da confondere i ruoli e il confine tra attività e passività, non equivale alla rappresentazione di un potere fortemente sessuato e maschile. Al contrario, instaura un regime in cui la legge del Padre cade, e con essa la legge del desiderio. Nella sua rilettura del fenomeno Berlusconi, lo psicoanalista Massimo Recalcati scrive della fine del Padre e di un certo modo di intendere i rapporti tra sesso e politica. “Mentre l’epoca dominata da figure come quelle di De Gasperi e Berlinguer appariva caratterizzata da una tensione etica tra Legge e Godimento, ancora edipica (si pensi solo alla politica dell’austerità teorizzata negli anni Settanta da Berlinguer), l’azione di Berlusconi appare completamente svincolata da questo dissidio. Non c’è vergogna, senso di colpa, senso del limite, perché il luogo della Legge coincide con quella del Godimento” .
Se, nei due opposti versanti, Marrazzo e Berlusconi rappresentano, nella loro differente ma speculare declinazione della relazione tra sesso e potere, un movimento inedito di femminilizzazione della politica (e in questo senso l’Italia offre, a sua insaputa, un nuovo modello simbolico nei rapporti tra pubblico e privato), il caso Strauss Kahn si salda invece su un vecchio sistema che sancisce la pretesa del padre-marito di affermare la sua legittima aspirazione alla proprietà dei corpi.
Un po' diversa dalle “schiave radiose” di Berlusconi (la felice intuizione è ancora di Lea Melandri),
“Nafi” Diallo, la trentaduenne cameriera del Sofitel Hotel di New York, porta nel proprio volto e nalla propria storia la cupezza di una storia che parte dalla lontana Guinea e che si sviluppa in quella zona di confine tra “dentro” o “fuori” - “lavoratrice precaria americana” o “immigrata clandestina” - che rende l’archiviazione del caso quanto meno problematica.
Qui stiamo parlando di uno degli uomini più potenti del mondo. Il presidente del Fondo Monetario Internazionale non può subire processi, non può essere messo in ridicolo, non può cadere per una storiella di sesso (rubato o consenziente che sia). E’ questa la morale che si è affermata in merito al caso Strauss Kahn. E se è vero che il suo arresto, per le modalità spettacolari con cui si è svolto, ha violato qualsiasi principio garantista, è altrettanto legittimo porsi delle domande in merito alla veloce archiviazione del caso.
“La parola di una donna nera, immigrata, socialmente disagiata, viene valutata con gli stessi criteri di quella di un uomo bianco, potente, ricco, prestigioso con al fianco una moglie bianca, potente, ricca e prestigiosa come Anne Sinclair, che non esce da questa vicenda meglio di suo marito?” si chiede Ida Dominjanni (intitolando il suo pezzo “Il caso non è chiuso” ). La risposta, naturalmente, è no.
Ma chi avrebbe interesse a riaprire un caso come questo? A chi conviene guardare nelle viscere dei poteri forti? Nell’intervista rilasciata a “Newsweek”, Diallo descrive il comportamento animalesco di un uomo che non riesce a controllarsi, “uno scimpanzè in calore”, descrizione che coincide con quella di alcune donne ritenute più attendibili della cameriera afro-americana. Il dna si è rivelato essere quello di Strauss Kahn, ma sembrerebbe che il rapporto fosse consensuale e non rubato, e che fosse addirittura stato consumato la sera prima. Non sono pochi i punti oscuri della vicenda, che evidentemente è stata chiusa con troppa fretta. La sintesi a cui si è arrivati è la seguente: questa serva è una bugiarda. L’inattendibilità della donna, la sua “coazione” a mentire, sarebbe fondata su una serie di racconti falsi che la giovane immigrata ha fatto in vari momenti del tempo, nel corso di quegli interminabili passaggi identitari che significano essenzialmente ricerca di una cittadinanza e di un lavoro, e che chiunque abbia vissuto in America sa quanto siano surreali e dolorosi. La frase che non a caso Diallo ripete ossessivamente è “Ho paura di essere cacciata via, ho paura di perdere il lavoro”.
“E’ possibile che Diallo sia una donna che è vissuta per alcuni anni ai margini della società, nella comunità di creature semi-illegali che popolano il Bronx, e che sia in amicizia con dubbi personaggi e mezzi artisti che tentano di sopravvivere in questo paese. Ma questo non preclude il fatto che lei sia stata vittima di un predatore, di un uomo potente. Né significa che lei stia tentando di guadagnare da questa situazione”. E’ l’onesta sintesi che hanno fatto i due giornalisti di “Newsweek”, Christophert Dickey e John Solomon, dopo avere incontrato Diallo e aver registrato in maniera puntuale il suo sconvolgente racconto .
Sul tavolo anatomico di questa scena che già nessuno vuole vedere più e che nell’immaginario collettivo è stata archiviata come errore giudiziario, tentativo di una serva di ricattare un padrone, osserviamo i resti di un massacro. Un banchetto a cui hanno partecipato gli uomini più potenti di questa terra e la moglie stessa di Strauss-Khan, Anne Sinclair, perfetta first lady in un impero che si fonda su una triplice alleanza: potere politico/finanziario, potere mediatico (Anne Sinclair è stata una delle più venerate star della tv francese) e potere intellettuale.
All’indomani dell’arresto di Strauss-Khan, il filosofo francese Bernard Henry Lévy giurava e tuonava a mezzo stampa (internazionale) in merito alla rispettabilità del suo amico Dominique Strauss-Kahn, usando come prove d’innocenza gli stessi strumenti del potere. In poche parole, il discorso era: può il futuro presidente di Francia essere trattato come un delinquente comune? Come si fa a non aver rispetto della sua legittima moglie, “ammirevole per amore e coraggio”? Che male c’è ad essere “uno charmeur, amico delle donne” ? Come vi permettete voi tutti - americani, oppositori politici, gente di classe sociale inferiore - di giudicare un re che sta dalla parte buona (la sinistra) del mondo? Il discorso di classe emergeva, d’altro canto, già dalle prime dichiarazioni di William Taylor, l’avvocato di Strauss Kahn, quando bollò la vicenda come “street theatre”, teatro di strada.
Il drammaturgo Neil Labute debuttò al cinema nel 1997 con un film bello e scabroso. Si intitolava “The company of men” (titolo italiano “La società degli uomini”), e raccontava il cinismo di una società maschile compattatta contro una donna sordomuta su cui si esercitava violenza sessuale e psicologica. “Let’s hurt somebody”, “Feriamo qualcuno” era la loro parola d’ordine. Vale la pena di andarselo a rivedere, quel film, magari lo stesso giorno in cui nel buio di una sala cinematografica capiremo, attraverso gli occhi di un sensibile e corrosivo George Clooney (ne Le idi di marzo la donna violata si suicida), di cosa sono veramente capaci gli uomini quando la posta in gioco è il governo assoluto delle anime.

(Pubblicato su ALTERNATIVE PER IL SOCIALISMO, ottobre-novembre 2011)

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