lunedì 3 ottobre 2011

Elogio della caduta: da Camus a Philip Roth


Se non ci fossero i falliti, non esisterebbe la letteratura. E se è vero che, come sosteneva Borges, certe cose le può dire solo la letteratura, allora è anche vero che queste “certe cose” sono difficili da dire, perché raccontano quello che non vorremmo mai che accadesse a noi e che invece regolarmente accadrà, almeno una volta nella vita. Queste “certe cose” hanno a che fare con la verità, con ciò che per sua natura è, appunto, indicibile. Ma chi ha il coraggio di andare così vicino alla zona che ci procurerà così tanto dolore? Chi, nella posizione del regnante o del vassallo del regnante, e alla fine anche di un uomo qualunque a cui piace l’idea di “riuscire nella vita”, ha desiderio di scoprire di che pasta siamo fatti veramente? Bisogna per forza che accada un fatto tragico, per cercare un isolamento e arrivare a capirci qualcosa. Senza l’”occasione” di un fallimento o di una sconfitta, nessuno di noi si mette a trafficare spontaneamente con concetti come “responsabilità” e “dolore”. E per fare esperienza del fallimento o della sconfitta, è indispensabile accettare che si può, semplicemente, cadere. Ora, cadere può significare, come accadeva da bambini, sbucciarsi solo le ginocchia, ma può anche voler dire non rialzarsi più. Dipende dal fragore o dal peso del corpo che cade, ma dipende anche dalla prontezza della reazione, dal lampo di consapevolezza che il film della nostra vita, scorrendo ora all’incontrario, ci darà in consegna. Normalmente, si ha orrore della caduta, la si evita con tutti i mezzi di cartone e plastica che, alla men peggio, ci siamo procurati correndo. Si legge e si dimentica. Come si vive e si dimentica. Oppure, si legge, si comprende anche ma si fa finta di credere che quella faccenda riguardi qualcun altro, un personaggio fittizio a cui è capitato di finire in disgrazia. I protagonisti dei grandi romanzi sono necessariamente degli uomini caduti, individui persi, ammalati, figure che hanno cambiato il corso della loro vita in seguito all’irruzione di un fatto imprevisto. Noi continuiamo ad appassionarci alle loro storie, ma come se non ci riguardassero. Non dovrebbero, invece, certi libri di Philip Roth e Don De Lillo (solo per fare due esempi di letteratura contemporanea fondativa della crisi) scuoterci nelle fondamenta? Non dovrebbe la vicenda di Seymour “lo svedese”, il padre biondo e sportivo di Pastorale americana (di Philip Roth) travolto dall’incontro con la rabbiosa fragilità di una figlia illeggibile e indicibile, procurarci un moto irreversibile di comprensione del valore del fallimento? Un essere umano può, come il protagonista di Homo Faber di Max Frisch, passare una vita intera nel mito della fabbricazione del futuro, venerando solo la ragione e cercando di mettere una distanza continentale tra sé e il proprio passato, ma poi accadrà, come nelle tragedie greche, che si innamorerà di una donna senza sapere che questa giovane donna è la propria figlia. A quel punto fallirà nella costruzione dell’”homo faber”, lasciando a noi che leggiamo la possibilità di accettarci come “homo sapiens” soggetto per sua natura a caduta.
Nelle pagine di questo numero di “Queer” si parla del valore semantico del fallimento. Albert Camus le ha dedicato molti capitoli della sua opera e un testo in particolare. La caduta è stato scritto nel lontano 1956, e da allora è stato stampato e ristampato mille volte, esistono varie traduzioni italiane tra cui un tascabile Bompiani del costo di soli 7 euro. Ora, basterebbe investire questa manciata di euro per capire quale occasione si offre ad un uomo in caduta. Il protagonista del romanzo-monologo di Camus è un ex avvocato parigino che abbandona la sua professione per aprire a Mexico City, nel quartiere dei marinai, un irreale ufficio di “giudice-penitente“. Costretto a confessare in pubblico la propria abiezione umana, l’ex professionista vorrebbe ottenere dai suoi avventori analoghe confessioni che consentano, una volta che l’anima è purificata, di nuovamente giudicare e nuovamente ferire.
Al di là della morale finale, che pare essere senza scampo (l’istinto istrionico dell’uomo lo porterà ad escogitare sempre nuovi modi per auto-assolversi), sono contenuti nell’opera dei passi di crudelissima e non sviabile verità che la nostra classe dirigente - e anche la classe opponente - , ma alla fine tutti, dovrebbero andarsi a rileggere. Potrebbero, gli uscenti e gli entranti, prendere per esempio qualche appunto su quello che significa credersi superiori agli altri esseri umani. “Avevo avuto natali onesti ma oscuri, e tuttavia certe mattine mi sentivo figlio di re o roveto ardente...A furia d’essere vittorioso, io mi sentivo, esito a confessarlo, prescelto”.
Avendo perso il potere, si avrebbe finalmente l’occasione di sottolineare e imparare a memoria questa verità sul potere: “Ogni uomo intelligente sogna di essere un gangster e di regnare sulla società con la sola violenza. Siccome non è facile come si potrebbe pensare leggendo i romanzi specializzati, ci si affida alla politica e si ricorre al partito più crudele”.
Avendo finalmente il tempo a disposizione per riflettere un poco, si concorderà con il nostro avvocato di Parigi che la maggior parte dei nobili sentimenti esibiti non sono altro che paccottiglia ad uso auto-propagandistico: “Guerra, suicidio, amore, miseria: costretto dalle circostanze, vi prestavo attenzione, ma in maniera superficiale. A volte facevo finta di appassionarmi ad una causa non quotidiana. Ma partecipavo solo quando la mia libertà veniva contrastava. Tutto in me scivolava”.
E’ chiaro che questi ragionamenti possono più facilmente affiorare nel momento del crepuscolo. Sarebbe bello, però, non dover per forza arrivare alla terrifica “caduta degli dèi” per comprendere come questi dèi sempre vittoriosi non esistono, e che esistono solo gli esseri umani in caduta libera.

(pubblicato su "Gli Altri", all'interno del Queer dedicato al fallimento, che continee un bellissimo articolo di Massimo Recalcati)

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