giovedì 29 settembre 2011

Petere Stein al Valle occupato: "Bisogna trasformare la rivoluzione in tradizione"


Platea e palchetti pieni fino all’ultimo ordine. In un immaginario piano sequenza della serata, la macchina da presa inquadrerebbe le facce di signori e signore sconosciuti, il pubblico vero del teatro. Le generazioni sono tutte presenti all’appello con uno dei simboli del teatro europeo. Per tre ore di fila, i cittadini romani ascoltano senza battere ciglio la conferenza/spettacolo di Peter Stein. Gli occupanti del Valle avevano chiesto al maestro tedesco di raccontare la storia della Schaubühne, lo storico teatro di Berlino che fondò nel 1970 assieme ad altri artisti di un collettivo formato, tra gli altri, da Gruno Ganz, Edith Clever, Jutta Lampe. La Schaubühne è stata più volte citata, d’altro canto, in questi mesi d’occupazione, per vie delle numerose e appassionate lettere di sostegno che ha inviato Thomas Ostermeier, l’attuale direttore del teatro berlinese. Ma chi si ricorda l’origine, da dove nasce uno dei monumenti viventi del pensiero in azione? Camicia bianca e lingua italiana distesa in un fraseggio sapiente anche se ancora incerto nel lessico, Stein ripercorre con il suo inconfondibile piglio filologico le tappe di una avventura che in Europa ha fatto scuola: le prime assemblee, la politica, il mondo di fuori e il mondo di dentro. Ma fin dalle prime battute si capisce che qui il regista non farà l’elogio dell’occupazione, non dirà: continuate ad oltranza, autogestitevi e non parlate mai con le istituzioni (che era invece il senso dell’intervento estivo di Mario Martone). No, Peter Stein è venuto al Valle occupato per dire: “Bisogna trasformare questa rivoluzione in una tradizione. E’ importante aprire le porte per farsi influenzare dalla realtà sociale, ma se qui si vuole continuare a fare teatro, alla fine le porte si devono chiudere. Io sono un riformista e dico che bisogna arrivare ad un compromesso”. Una lezione di tradizione, che passa dalla difesa della drammaturgia delle origini e arriva fino all’elogio della disciplina come unico strumento per uscire dalla gestione assembleare: “E’ necessario intendersi sul significato delle parole e partecipare non significa far partecipare tutta la città, ma far partecipare coloro che condividono lo stesso ordine del discorso”. Pur considerando “la società teatrale una società abietta, formata da esseri schifosi (anche io sono uno stronzo)”, il regista insiste sul valore della comunità di professionisti: “In realtà non servirebbe neanche uno spazio, basta la strada per fare teatro: quello che ci vuole è un budget e un ensemble”. Sebbene questo messaggio arrivi da un artista che negli ultimi anni si è arroccato sulla difesa di una tradizione filologica-scolastica, le sue parole non vanno sottovalutate. Qui non si tratta di opporre il vecchio al nuovo e di buttare all’aria il vecchio. Questo gli occupanti del Valle, d’altro canto, lo sanno bene. Peter Stein al Valle l’hanno voluto loro. A passi simbolici, si passa dall’euforia dell’estate alla responsabilità piena dell’autunno. E non sarà indifferente vedere come, in questa storia, compieremo tutti i nostri piccoli riti per difendere e innaffiare un teatro che, come l’acqua, è “bene comune”.

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