lunedì 2 maggio 2011

Storia di padri di fratelli. Storia d'Italia. Ecco cosa c'è dietro il cognome Donat-Cattin


Storia di padri e di figli. Storia di fratelli. E storia d’Italia. Donat-Cattin è un nome di quelli tosti. Non se ne sta buono buono in un angolo. Ha una forte personalità che raddoppia la personalità di chi lo porta. Nel bene e nel male, ti segna l’esistenza. Anche se scegli di fare il giornalista “di macchina”, e non il politico. Anche se non rilasci mai interviste. Anche se il tuo viso è scolpito nella sobrietà (salvo esplodere in un sorriso non annunciato quando si parla di certe cose belle del passato, certe cose del Novecento). “Io sono un uomo del secolo scorso”: Claudio Donat-Cattin, giornalista, autore tv e coordinatore di diversi programmi Rai (nel ‘92 ha inventato il fortunato “Borsavalori” con Frajese), ha tentato di sfuggire tutta la vita alla pressione esercitata dal suo cognome. Come figlio di Carlo Donat-Cattin, “Carlo il temerario” (come lo chiamava Pansa), personalità storica della Dc, il grande “ministro dei lavoratori”, “l’esponente più globale dell’anima sociale del cattolicesimo politico italiano” (sono parole di Cossiga), scomparso nel 1991. E come fratello di Marco Donat-Cattin, detto “Comandante Alberto”, una vita breve consumata dentro le fila del terrorismo (Prima Linea, omicidio Alessandrini) e finita nel 1988 sul selciato di un’autostrada, mentre cercava di evitare la morte ad altri automobilisti. Questo tipo di storie non sono scritte sulla lavagna con il gessetto. Non ci sono cancellini pronti a farle sparire o ad usarle a proprio vantaggio. Claudio Donat-Cattin ci riceve nel suo studio di Viale Mazzini, una stanza piccola, una delle tante che forano uno dei corridoi labirintici del palazzo. “Qui non si respira, mi dispiace...Prima avevo un ufficio molto più accogliente. Quando ero vicedirettore di Rai Uno, fino alla fine del 2009”. Ci sediamo. E parte il racconto di una vita. “Non sono abituato a rilasciare interviste, ma voglio fare un’eccezione per voi”.

Il suo nome è ora legato a doppio vincolo a “Porta a Porta”. Ci si trova a casa?

Sono stato co-fondatore del programma nel 1996 e ho partecipato alla costruzione del format con Vespa, Marco Zavattini, Marco Aleotti ed Antonella Martinelli (colei che ebbe l’idea musicale di “Via col vento”). Da sedici anni partecipo alla creazione quotidiana del programma, come coordinatore. Si comincia alle 8.30 e qualche volta si finisce alle 2 di notte. Si, è in qualche modo la mia casa.

Non le capita mai di astrarsi e di avvertire un leggero malessere nei confronti di quello che rappresenta in Italia “Porta a Porta”? Non è un giudizio sul programma. E’ semmai un discorso sulla simulazione, sulla grande “macchina dell’opinione” (come la chiama Giuseppe De Rita) che ha preso il posto del reale.

Quando è nato, “Porta a Porta” ha rotto un certo schema di informazione televisiva. Per la prima volta, arrivava in tv il “personale” dei personaggi politici: D’Alema in cucina, Prodi in bicicletta.... Con un certo scandalo, abbiamo introdotto prima degli altri il personaggio femminile d’intrattenimento che intervistava il politico (per esempio Milly Carlucci e Romano Prodi). Poi il modello è stato copiato. Ora ci troviamo in un mondo completamente nuovo, definito dall’offerta di Sky e del digitale terrestre. E’ come passare dal Medioevo alla Rivoluzione Industriale. E’ difficile adesso per noi fare qualcosa di originale. Uno dei punti su cui è impossibile non fare autocritica, è la cronaca nera, che in tv diventa subito sensazionalismo.

Lei ha cominciato proprio come cronista di nera....

Si, ho cominciato alla “Gazzetta del Popolo” di Torino, prima come cronista di nera e poi di bianca. Quando sono arrivato in Rai nel 1991 (prima non ci volevo mettere piede perché, finché era vivo mio padre, temevo che mi si potesse accusare di lottizzazione) avevo la tipica “puzza sotto il naso” che continuano ad avere molti giornalisti di carta stampata.

Il suo nome si porta dentro una storia di grandi imprese politiche ma è anche innervata di tragedia. E’ la memoria di questo paese, dal dopoguerra fino agli anni di piombo e oltre. In poche parole, il padre e il fratello.

Io ho avuto la fortuna di essere figlio di mio padre. Non nascondo che all’inizio mi ha aiutato ad entrare nel mondo del giornalismo. Dopo di che ho sempre pagato. Portare quel nome ha significato per me avere più svantaggi che vantaggi. Per esempio, quando in Rai sono arrivati i “professori”, io sono stato epurato perché mi chiamavo Donat-Cattin. Ma ho sempre votato per mio padre, ho condiviso le sue scelte politiche. Poi c’è stata la storia di mio fratello Marco. E’ un genere di storia che ha tragicamente colpito molte famiglie della politica italiana, anche se in molti casi non tutto è venuto a galla. La scelta di mio fratello ha fatto morire di crepacuore mio padre (è morto in seguito ad un’operazione cardiaca) e ha gambizzato me e gli altri membri della mia famiglia.

Quando è morto Marco, vi eravate conciliati?

Mia madre per sette anni era andata a trovarlo in carcere riuscendo a ristabilire un rapporto. Ad un certo punto sono andato anch’io a parlargli. Si, ci eravamo riconciliati. Ma il fatto è che di fronte a tragedie come quella del terrorismo, la vita cambia completamente, non solo per le vittime e i loro familiari. Gli occhiali con i quali si è guardata la vita fino a quel momento si appannano, le lenti diventano scure, tutto filtra in maniera diversa.

Chi era Carlo Donat-Cattin, suo padre?

Carlo Donat Cattin, figlio del Novecento, di quel secolo breve, è stato l’espressione di una cultura alta che sapeva mescolare le radici intrise dai maestri del cattolicesimo francese (Maritain, Bernanos) alla poesia italiana (il prediletto Montale). Carlo Donat-Cattin - e qui è il cronista e non il figlio che parla - aveva un profondo senso dello Stato e ha lottato per i diritti dei cittadini: dalla legislazione sul lavoro (lo Statuto dei lavoratori) al rilancio di una politica industriale, dalla riforma dello Stato sociale alla prima bozza di riforma sanitaria. Poi c’è il padre. Beh, è stato un padre severo, duro.

Anche lei è ora un padre severo e duro?

Non sono stato severo e duro, ma sono stato un padre distratto e lontano. Quando mia figlia andava a scuola, io dormivo. Quando lei tornava da scuola, io andavo a lavoro.

Si definisce conservatore?

Sono un conservatore illuminato.

E’ cattolico?

Non sono un uomo di fede così come lo era mio padre. Però sì, sono cattolico, con tutte le contraddizioni di un uomo di oggi. Tra i programmi che seguo come coordinamento qui in Rai, c’è anche “A sua immagine”, una trasmissione fatta d’intesa con la CEI. E sono stato tra gli organizzatori del funerale di Giovanni Paolo II.

Ha visto il film di Nanni Moretti, “Habemus Papam”?

Non ancora. Non ho molto tempo per andare al cinema.

La storia è molto bella, non trova? Il conflitto di un uomo che una volta eletto Papa si sente inadeguato per quel ruolo e cerca conforto nel dialogo con uno psicoanalista.

Si, questo tema dell’inadeguatezza è potente, molto contemporaneo.

Lei si sente mai inadeguato?

Mi sono sentito inadeguato all’inizio della mia carriera giornalistica. Uscivo dal liceo con 9 in italiano e pensavo di essere Hemingway. Entrato al giornale, non solo non sono stato trattato come se fossi stato Hemingway, ma mi hanno obbligato a riscrivere lo stesso pezzo sette otto volte. Poi ho capito che era uno stile, un metodo, e mi sono tranquillizzato.

E’ severo con le persone che lavorano con lei?

Sono sempre stato esigente nei rapporti di lavoro. Lo sono anche con me stesso. Ma non sono mai arrivato ad infierire contro qualcuno.


E’ un piccolo fatto senza importanza ma è accaduto. Non possiamo ignorarlo. Dunque, Pippo Baudo le ha sputato addosso in seguito ad una discussione scoppiata intorno al programma “Centocinquanta”, di cui lei si è occupato come autore. E’ un gesto forte.

Non voglio commentarlo ulteriormente perché è un episodio assurdo che si commenta da solo. Resta un comportamento allucinante, seguito peraltro ad una raffica di insulti senza motivazione. Pare che Baudo abbia detto a Vespa che è pronto a chiedermi scusa. Ma, sinceramente, le sue scuse non mi interessano.

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