mercoledì 4 maggio 2011
L'ultima volta che vidi mio padre
Somiglia ad una seduta psicoanalitica, ma non lo è, perché usa una forma pre-verbale. Può evocare un fenomeno di ipnotismo, ma non c’è nessun ipnotizzatore in scena. Ricorda qualcosa, ma cosa? Non è un ricordo chiaro, quindi può far riferimento solo alla prima infanzia. L’ultima volta che vidi mio padre, di Chiara Guidi e Scott Gibbons, è una seduta misterica, un appuntamento con la parte più antica della nostra memoria, quella che il neurofisiologo e psicoanalista Mauro Mancia chiamava la “memoria implicita”,”una memoria sotterranea, non passibile di ricordo e non verbalizzabile”. Cosa si vede in scena, cosa si sente? Sarebbe più corretto chiedersi cosa si intra-vede e cosa si intra-sente. Al livello di immagini animate, l’opera mette in campo scene di abbandono e di morte. C’è un bambino che, come dice il titolo, vede l’ultima volta suo padre e si mette a cercarlo. Nel suo viaggio, incontra animali, vecchie, cunicoli, e un’immensa solitudine. Sul palcoscenico, una nidiata di “fanciulle in fiore” (le allieve di Guidi e le voci bianche dell’Accademia di Santa Cecilia) compiono movimenti leggeri, domestici, sussurrando frasi evocative ma inintellegibili, sotto la guida della stessa Guidi, figura del silenzio, orchestratrice dell’anima in subbuglio. Queste piccole donne aprono e chiudono porte. Appaiono nel bianco e dal bianco vengono risucchiate. Come le aristocratiche collegiali di Picnic ad Hanging Rock, il film di Peter Weir del 1975 che ci aveva fatto conoscere, quando eravamo piccoli, il terrore metafisico, le fanciulle dello spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio ci fanno rivivere la paura, la tragedia del perdere qualcuno e il mistero del perdersi. Anche L’ultima volta che vidi mio padre potrebbe essere ambientato nell’anno 1900. Perché questo “dramma musicale animato” chiama in causa gli albori del cinema, il suo dispositivo onirico. Alcuni spettatori non si sono subito sintonizzati con la materia dello spettacolo, riconoscendogli una perfezione formale a fronte di una lacunosità narrativa. Il suo materiale però non è la fiaba, cioè la storia, ma il fiabesco, ovvero il “modo” della fiaba, la sua luminescenza rapinosa, fatale. Non essendo una biografia (la storia di un bambino che...), non parla alle nostre autobiografie. Quello che percepiamo sulla scena ci attiva, piuttosto, un oscuro ricordo di quell’epoca della vita in cui conoscevamo il mondo attraverso fruscii di tessuti, scricchiolii di porte, cantilene e rumori soffocati, la musicalità delle parole, ancora incomprensibili. Quando lo spazio fuori di noi era indistinguibile dallo spazio dentro di noi. E le prime volte che perdevamo qualcuno – o qualcosa - era anche la prima volta che ci accorgevamo di amarlo.
(Pubblicato su "Hystrio")
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