giovedì 5 maggio 2011

L'occasione perduta d'Occidente: restare femmina


Figure opache, tenui, così tenui da chiederti se sono figure umane o qualcos’altro. Sembrano muoversi dentro una palude, all’alba di un giorno carico di presagi. Avanzano a coppie di donne. Una di loro è sola e non vede. La materia è lattiginosa, di una natura segreta, irrorata da flussi improvvisi di luce. L’effetto sul nostro corpo è immediato. E’ come fare un sogno preistorico. Un sogno di quelli che non ti appartengono, perché è un inconscio collettivo e antico quello che l’ha partorito. Nel creare l’ultimo folgorante spettacolo, Virgilio Sieni si è ispirato a “Tristi Tropici” di Levi-Strauss, ma conservando la tessitura microscopica, sottile, con cui aveva attraversato il “De Rerum Natura” di Lucrezio. L’incontro tra i due mondi (l’antropologico e il creaturale) produce una realtà terza, una dimensione possente che fa leva sull’elemento intra-mondano. Visitando le tribù del Mato Grosso negli anni Trenta, Levi-Strauss rifletteva sulla possibilità che l’Occidente aveva perduto di “restare femmina”. Ed è quella possibilità inesplorata che Sieni esplora, con le sue figure autentiche e fragili, anziane e giovani, che si poggiano l’una all’altra senza volontà, con assoluta tenerezza (le danzatrici Simona Bertozzi, Ramona Casa, Elisa De Fanti, Dorina Meta, Michela Minguzzi). E’ il sogno abbacinante degli inizi, un’immagine che si imprime nella retina ma che investe tutti i sensi contemporaneamente indicando un diverso modo di essere. Una terra di mezzo che oscilla tra l’animale e il non-ancora (o il non-più) umano, dove la bellezza del corpo si confonde con la terra e i suoi elementi. Un pavone e due altissimi uccelli silenziosi, appaiono tra le cose, nel modo in cui soltanto Sieni sa far apparire le cose. Senza far sentire il peso delle figure che irrompono in scena. Senza teatro. Come se le cose fossero lì da sempre e aspettassero il momento in cui noi spettatori dimostriamo di essere di nuovo capaci di sentire, per essere viste, e accolte. Nella loro interezza. Come parti del tutto. “L’uomo non ha fatto che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione – rifletteva Levi Strauss – Senza dubbio ha costruito delle città, e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre dell’inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevato della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso”. Come sarebbe andata, invece, se l’Occidente non avesse perso la possibilità di restare femmina? Non lo sappiamo. Ma basta osservare queste vulnerabili creature dei “Tristi Tropici” per sentire come una possibilità di capovolgere lo sguardo antropocentrico forse ancora esiste, da qualche parte.

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