domenica 24 aprile 2011

Vero e falso, tempo e discorso: il nuovo studio dell' Accademia degli Artefatti su testo di Dennis Kelly


Quanto tempo ci vuole per articolare a teatro un discorso sul vero e sul falso? E quale è il dispositivo spaziale che meglio può tradurre la moltiplicazione dei punti di vista, la trama fitta delle testimonianze? Dopo aver interrogato, con invenzioni sulfuree e potenti, Martin Crimp, Mark Ravenhill e Tim Crouch, l’Accademia degli Artefatti continua a perlustrare il terreno di filosofia estrema della nuova drammaturgia inglese, scegliendo stavolta come interlocutore Dennis Kelly, londinese, classe 1970. Presentato in forma di lettura scenica all’interno della rassegna “Trend” al Teatro Belli di Roma, “Taking care of the baby” (regia di Fabrizio Arcuri, traduzione di Pieraldo Girotto) ci mostra lo scheletro di una macchina che ha ancora bisogno di trovare la sua forma nel tempo. Apparentemente, la mise en espace, per quanto ipnotica e intelligente, sembra eccedere in lunghezza. Eppure dura solo un’ora e quaranta. “E pensare che ho tagliato un’ora!” dice Arcuri. Superficialmente, verrebbe da commentare: “non è abbastanza, taglia ancora!”. E la cosa finirebbe lì, con un match indolore tra uno spettatore che vuole essere “accontentato” e un regista. Però poi accade che si leggono le 50 pagine del testo di Kelly, e si capisce che qui non si tratta di tagliare ancora ma a contrario di ripristinare, forse, quell’ora perduta. L’opera di Kelly, che a sua volta è stata tacciata dalla critica britannica di eccedenza nella giustapposizione di materiali afferenti alla realtà (le dichiarazioni sono state estrapolate da articoli di giornale e materiale processuale), trova proprio nella sua dis-misura la sua natura più corrosiva. “Taking care of the baby” è una specie di processo senza giunture con porte che si aprono e si chiudono sul “disagio della verità”. Al centro della vicenda, Donna McAuliffe, accusata di infanticidio. Il suo bambino più piccolo è stato trovato morto. Due anni prima era morta anche l’altra sua figlia. Allora nessuno aveva accusato la genitrice. Ma due bambini soffocati nella stessa casa sono troppo. La madre della ragazza difende Donna fino a farne una ragione politica, e identitaria. Il marito di Donna “sa” che è stata lei. In primo grado, il giudice la condanna. In secondo grado, la assolve. Non ha le prove per confermarle l’ergastolo, ma è convinto che la giovane donna sia colpevole. Un giornalista a cui non è stata data l’anima al momento della “fabbricazione”, fa il solito intrattenimento sul dolore che nausea solo il marito di Donna e trova tutti gli altri perfettamente consenzienti. Un medico che vuole fare carriera si inventa l’esistenza della cosiddetta sindrome di Leeman-Keatley, che troverebbe in una ipersensibilità nei confronti del mondo la causa originaria della violenza contro i propri figli. Per rafforzare la polisemia di ogni segno discorsivo, Arcuri crea un dialogo dis-locato nel tempo (alcune scene sono registrate, altri riprese live nel corso dello spettacolo) tra gli attori, messi qui “drammaticamente” in campo, ognuno con la sua, volontariamente, “dubbia” credibilità e con il suo patrimonio di passioni variamente “artefatte”: Isabella Ragonese, Francesca Mazza, Pieraldo Girotto, Matteo Angius, Francesco Bonomo e Fiammetta Olivieri. La singolarità dell’opera sta nel fatto che non sceglie una sintesi drammatica, che non capovolge né ribalta né interpreta, ma semplicemente mostra, quasi senza montaggio, frammenti di un discorso cantilenante e violento in cui siamo tutti implicati. Nella ipotesi che tutti sanno quella verità che non si può dire. E’ per questo che ogni trascrizione scenica necessita di un tempo estremo, lungo. Perché è nella sua natura “estenuante” e riproduttiva (e non in una sintesi accattivante) che l’opera di Kelly-Arcuri può trovare il suo vero punto di sutura, offrendo a chi guarda la possibilità di interrompere il vizio della soddisfazione spettacolare, per “processare” in diretta, senza rito abbreviato, i meccanismi di verità e menzogna che innervano i flussi sanguigni del contemporaneo.

(Pubblicato su "Gli Altri", rubrica "La tetimone")

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