giovedì 28 aprile 2011
Come cambia il capitalismo, la piazza di Milano, la sfida del 6 maggio: ecco il Bertinotti-pensiero
Quello che si vede ad occhio nudo è la caduta di un uomo. Cos’è invece ciò che non si vede? Molto di più, e molto di meno di una caduta. E’ una storia italiana. Ma non è sempre la stessa. E’ una storia ancora tutta da leggere, perché in gran parte è ancora da scrivere. Dietro le dimissioni di Cesare Geronzi alla presidenza delle Generali e la sua sostituzione con Galateri, c’è un disegno che smargina dal generico balletto del potere personale. In questi giorni, le testate nazionali hanno oscillato tra la versione quasi burocratica della notizia e una sua trattazione in chiave di tragedia shakespeariana. “Geronzi sperava, Tremonti sapeva” intitolava “La Repubblica”, accompagnando con enfasi l’editoriale domenicale di Scalfari, che ricorreva al libretto di Da Ponte per tratteggiare la figura di un “convitato di pietra” o “gran commendatore”, vero orchestratore dei passaggi di scettro nello storico palazzo di Trieste. Diverso è l’atteggiamento “illuminista” di Fausto Bertinotti. Non c’è dietrologia nelle sue parole, ma una cauta analisi della situazione italiana, nelle sue anomalie e nelle sue spinte - meno anomale - verso la globalizzazione. Chi si aspetta di leggere qui le biografie di certi grandi vecchi (o grandi giovani) che tra scenari medievali ordisconono complotti e schiacciano la vita degli uomini, rimarrà deluso da questa pacata conversazione che parte da questioni specificamente “Generali”, passa per Berlusconi, si attarda sulla piazza politica di Milano, e finisce con l’evocare la ricchezza diversamente uguale dei Movimenti e dei soggetti che confluiranno verso lo sciopero generale del 6 maggio.
Bertinotti, che cosa ci racconta questa vicenda delle Generali? Qual è il suo significato politico?
Io starei attento a dare una lettura dei conflitti di potere interni alla borghesia usando il linguaggio delle relazioni politico-partitiche. Credo piuttosto che in questo caso si tratta di saper leggere la natura di certi particolari fenomeni che esplodono dentro le cattedrali del capitalismo.
Cosa riusciamo a intravedere dentro queste cattedrali?
Dobbiamo sapere che sono luoghi opachi.
Quindi non possiamo vederci attraverso.
Si, possiamo. Ma dobbiamo capire come. Facendo attenzione soprattutto a ciò che non viene detto. Non ho sentito nessuno dei protagonisti di questa vicenda dire, per esempio, quale è la missione delle Generali. Come si fa a parlare di democrazia se i grandi santuari del potere economico sono messi al riparo dalla conoscibilità delle questioni strategiche?
E quali sono queste questioni strategiche?
Le Generali hanno avuto un’evoluzione molto significativa. Il loro cambiamento è in sintonia con l’aria del tempo. Siamo globalizzati. Rispetto al passato, la scoperta dei mercati dell’Est europeo e più in generale dell’Est è stato il tratto dominante della politica espansiva delle Generali. Questa dimensione ha dato un risalto particolare alla struttura di comando materiale, alla direzione effettiva del gruppo, che ad un certo punto ha sentito come impaccio il fatto di essere sovra-ordinato sulla base di una serie di relazioni politiche di dimensioni nazionali di cui Geronzi è stato il massimo rappresentante. Il contrasto che si è venuto a creare tra un quadro internazionale e un governo nazionale, ha creato l’esplosione. C’è poi un secondo elemento, rappresentato da Mediobanca, che è sempre stato il salotto buono della borghesia italiana, il luogo da cui sono passate tutte le relazioni e tutte le combinazioni del capitalismo familiare italiano. Un certo assetto è crollato con la fine della Prima Repubblica. La Seconda Repubblica ha intrecciato rapporti paralleli tra la nuova classe politica e la nuova classe economica. Le grandi famiglie sono uscite di scena e sono stati sostituite da potentati economici, alcuni dei quali avevano rapporti con il mercato internazionale, e altri con il potere politico centrale. In assenza di altri riferimenti politici-partitici, il governo diventava una specie di cattedrale nel deserto. Questo spiega anche l’ascesa di Geronzi, che con il governo ha avuto un rapporto privilegiato.
Quindi la caduta di Geronzi è anche una sconfitta di Berlusconi.
Fondamentalmente, è una ridefinizione degli assetti interni del capitalismo italiano. La crisi economica europea e la globalizzazione capitalistica, hanno creato le condizioni per una sfida continua in direzione di una feroce competitività, e quindi un’aggressività crescente: contro i lavoratori (vedi Marchionne), e contro certe forme di potere considerate desuete. Per poter avere dei comandi omogenei, si è attaccata anche la conduzione “distratta” delle Generali. La crisi della Seconda Repubblica ha portato poi alla frammentazione del sistema di potere costruito attorno a Berlusconi. Geronzi è l’espressione di questa fuoriuscita. Ma non bisogna cadere nell’errore di vedere un grande vecchio che muove le fila di tutto, perché le tessere del mosaico sono tante.
L’entrata in campo di Montezemolo sembra essere stata sincronizzata sull’uscita di scena di Geronzi.
Gli interventi di Montezemolo e Marcegaglia portano un elemento di forte crisi dentro il blocco economico-sociale sul quale Berlusconi aveva costruito la sua fortuna. Non so se si può definire terzo polo, ma un certo sistema si sta sfaldando. E’ chiaro che non stiamo parlando di un’uscita da sinistra dal berlusconismo. Parliamo di una ristrutturazione della borghesia italiana, ma sempre all’interno di un impianto neo-liberista.
L’isolamento di Berlusconi non rischia di enfatizzare certe componenti eroiche-libertarie del personaggio?
Tutti i regimi, nel momento in cui crollano, rischiano di apparire eroici. Ma Berlusconi non è certo rappresentativo di istanze progressiste. Non mi pare che nessun operaio in sciopero simpatizzi per Berlusconi. Gli studenti che hanno protestato contro la Gelmini non sono attirati da Berlusconi. Tutti coloro che si ostinano a considerare l’acqua un bene pubblico non vedono in Berlusconi un alleato. Berlusconi sembrava molto più forte quando era effettivamente forte.
Con la candidatura di Pisapia a sindaco di Milano si sta giocando una partita che, come è accaduto più volte nella storia, può riconfigurare il destino politico della nazione....
Pisapia rappresenta l’eredità migliore del carattere democratico della Milano borghese, operaia, intellettuale. E’ figlio di quella storia, che può arrivare lontano, fino a Cattaneo e al Risorgimento. Ed è sempre stata vicino alle esigenze innovatrici dei giovani. La città di Milano sta cercando una nuova interpretazione di se stessa. La componente leghista (che non significa soltanto il voto alla Lega, ma un complesso di realtà vischiose) può essere messa in crisi da una figura come Pisapia. La partita è aperta, molto interessante.
A proposito di atteggiamenti “vischiosi”, una buona parte degli italiani continua a vivere così: allegramente incurante, magnificamente egoista, spudoratamente razzista...Non per questo, va trattata con sufficienza intellettuale. Come uscire dal vizio politico per cui ognuno parla all’Italia che teoricamente gli assomiglia di più?
Malgrado il centociquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, diffido da chi ostina a leggere un carattere unitario del paese. Ci sono mille Italie, molto diverse l’una dall’altra, sia per gerarchie sociali che per componenti geografiche che per soggettività scese in campo. Per non parlare, guardando a sinistra, della crisi delle grandi agenzie formative che un tempo davano struttura all’idea del popolo. Di quale Italia parliamo quando parliamo dello sciopero generale? Immagino che ci sarà una grande partecipazione di movimenti e di persone coinvolte non in quanto lavoratori ma in quanto persone interessate al rifiuto dell’ordine esistente. Basterebbe fare un censimento su come le tante soggettività del paese parteciperanno allo sciopero generale del 6 maggio, per capire chi siamo, e cosa ci aspetta. Nel bene e nel male. Nel male come diagnosi delle tante solitudini, nel bene come necessità di articolazione e scelta di un proprio destino.
Da questo punto di vista, quale è il lavoro più urgente che ci aspetta a sinistra?
La politicizzazione dei Movimenti, cioè la creazione della possibilità che entrino in rapporto l’uno con l’altro. La presunzione unitaria è stato uno dei grandi problemi della sinistra. Oggi mi sembra che sia molto più chiara la percezione del proprio limite. Ed è questa percezione che può far scattare la scintilla della relazione tra diverse culture ed esperienze critiche.
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