lunedì 7 febbraio 2011

Artaud il mendicante: gli Esercizi di rianimazione di Andrea Cosentino


C’è un mendicante davanti alla porta del teatro. Porta un cappotto liso. Ha la faccia di cera. Un’espressione assorta, lontana. Sembra avere duemila anni. Ma se lo guardi bene è un ragazzo. Il mendicante è una marionetta, l’ha costruita Andrea Cosentino ispirandosi alle fattezze di Antonin Artaud. E’ da un po’ che se lo porta dietro, facendogli fare qualche rara apparizione dentro i suoi spettacoli. Stavolta ha deciso di sbatterlo direttamente per strada, che però, in questo caso, significa elevarlo a protagonista della storia. La marionetta di Artaud viene mossa da Francesco Picciotti, che con la mano libera accende e spegne un registratore. E’ da lì che arriva una voce, la voce di Cosentino che interpreta i pensieri del suo mendicante. Intermittente, addolorato, provocatorio. Questo barbone dice cose che non vorremmo sentire. Perché sta qui davanti alla porta del teatro? Noi siamo venuti a vedere Esercizi di rianimazione di Andrea Cosentino e Francesco Picciotti. Perché lo spettacolo non inizia? Che vuole questo “straccione”? “Mi dai del soldi? Per piacere per piacere mi aiuti. Tu mi aiuti? Mi dai dei soldi?”.
Ecco, vuole dei soldi, ti pareva. Verrebbe di girarsi da un’altra parte, ma è impossibile sfuggire la voce ipnotica e straniata del mendicante, anche la sua faccia ci attira: “Non lo vedi come sono ridotto? Le mie mutilazioni le vedi? Ti fanno pena? Mi dai dei soldi? Lo sai che dietro ogni cicatrice c’è una storia? Vedi il mio braccio, vedi la mia gamba? Lo sai che le mine antiuomo le fabbricano in Italia? Ora ti riguarda ? Ti senti in colpa? Ora mi dai dei soldi?”.
Questo Artaud di stoffa è veramente una canaglia. E’ un uomo ferito che vuole ferire. E pensare che tutta questa gente voleva, in fondo, “solo” andare a teatro. E già, il teatro. Il mendicante Antonin Artaud se ne intende di teatro e allora, attraverso le parole di Cosentino che Artaud lo legge ogni sera, pretende di parlarci proprio di teatro e di arte: “L’arte è accattonaggio? L’accattonaggio è una forma d’arte? L’arte deve essere popolare? Ma che cosa ne è dell’arte? Non pensi che se togliessero tutte le sovvenzioni l’arte tornerebbe sulle strade? Che si potrebbe reinventare l’arte e ricrearsi un popolo? Questa performance non è stata finanziata da nessuno. Vuoi finanziarla tu?”.
Poco più distante, c’è un altro mendicante, uno che probabilmente Artaud non l’ha mai letto e non ha mai visto che faccia ha. E’ un po’ seccato che questo qui si prenda tutta la scena. Però, se ascoltasse bene quello che dice, capirebbe che in fondo sta lavorando anche per lui. Il performer, quell’Andrea Cosentino che si è fabbricato da solo la marionetta di Artaud, si sta preparando in camerino. Intanto, per strada, sta accadendo qualcosa di epifanico, una di quelle scene edi vita incorniciata da un frame, che sarebbero tante piaciute ad Artaud, Artaud il pazzo il folle il poeta, Artaud che è stato internato mille volte ed è morto solo, Artaud che ha rivoluzionato il teatro, Artaud che esaltava “la bellezza di una retata di polizia”.
Il mendicante finto è uno che parla bene, sa come muovere le nostre corde. Il mendicante vero gli somiglia. Lo spettatore gli somiglia. L’Italia gli somiglia. La classe media che è precipitata nella povertà, gli somiglia. Le madri che si impegnano i pochi oggetti di valori rimasti a casa, i nonni che si vendono anche i denti d’oro, i padri che hanno perso tutto e vanno a mangiare alla Caritas, i figli che hanno smesso di andare a scuola perché i loro genitori non hanno i soldi per pagargli i libri.
E ti accorgi che è tutta una questione di “visione”, di direzione dello sguardo. Se tutti guardano da una parte, la parte che decanta le magnifiche sorti e progressive, la verità farà sempre fatica ad emergere. Ma se, improvvisamente, quasi per sbaglio, la luce si accende sulla linea d’ombra, sera dopo sera, strada dopo strada, teatro dopo teatro (nelle intenzioni di Cosentino c’è di fare girare il mendicante Artaud in vari teatri d’Italia, prima dell’inizio anche degli spettacoli degli altri), magari si comincia a seminare il dubbio. Fisicamente. Drammaticamente. A che serve altrimenti il teatro, forse a farci passare una bella serata, a riempire quel po’ di tempo libero tra lavoro/palestra/televisione/cena macrobiotica/conversazione da sala da the/poppate ai bambini/cinema/pianificazione dei weekend e delle vacanze?
Questo mendicante con la faccia di Antonin Artaud ormai si è conficcato nella nostra carne, perché è da lì che è venuto fuori. Sembra di vederlo, un attimo dopo la sua performance e un attimo prima della performance del suo demiurgo, seduto accanto a noi (idealmente, ogni spettatore ha una sedia libera accanto a sé, dove fa accomodare il suo doppio) al Teatro Argot di Roma.
Con noi, segue l’affannoso e lieve tentativo di Andrea Cosentino di richiamare in vita alcuni oggetti. Perché i suoi, il titolo lo annunciava, sono “Esercizi di rianimazione”.
Quegli stessi oggetti (le Barbie, le orecchie da asino) che negli spettacoli precedeenti erano usati come chiave di demistificazione di un sistema occluso, infetto, di un circuito massmediatico senza pori attraverso cui si era costretti a respirare, adesso giacciono inerti e ammucchiati sul palcoscenico. Nel frattempo, se ne sono aggiunti di nuovi, una spugnetta, un omino di legno. Cosentino li prende uno ad uno, cercando di restituirgli la vita che hanno perso, ma ogni volta la storia inventata si spegne sul nascere, e l’oggetto ritorna nel suo cimitero, accanto agli altri. Il pupazzo è, naturalmente, il correlativo oggetto della persona.
Siamo noi quelli difficili da rianimare. La marionetta di Antonin Artaud ce l’aveva fatto intuire, che la cosa si sarebbe messa male proprio per noi, e non tanto per lui, che a questa miseria era avvezzo.
Perché è questa la scena primaria che ogni spettacolo dovrebbe, alla fine, mostrarci: la rivelazione di qualcosa che ci riguarda, il risvegliarsi di un ricordo, un’agnizione tagliente che ci racconta il nostro vero stato (stato morale, materiale, psicologico): il teatro, insomma, della nostra vita. Ma perché ciò accada bisogna avere un’idea, fare azioni luminose e crudeli come quella di Cosentino e Picciotti. “La cosa più urgente non mi sembra difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e avere fame - scriveva Artaud - ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura , delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame”.
(Pubblicato su "Gli Altri"

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