domenica 19 dicembre 2010
Sulla scia di "Vieni via con me": la guerra dei segni. Monologo e dialogo in tv e in teatro
Roberto Saviano fa un monologo in tv e si scatena la guerra dei segni. Chi lo giudica inammissibile e chiede il contraddittorio (Maroni), chi invece non sente il bisogno di nessun dibattito e festeggia il definitivo assestarsi di un racconto televisivo strutturato in modo tale da espellere interferenze dialogiche. Sulle pagine de “Il Fatto”, per esempio, Luigi Galella legge in “Vieni viva con me”, e nel successo della trasmissione, un salutare passaggio dal vecchio talk show al “ format che detronizza il dialogo a favore del monologo”, giudicando “inaccettabile” la pretesa di Maroni di chiedere il contraddittorio. Il ragionamento è il seguente: in un regime estetico di “pura rappresentazione”, in cui il modello formale è quello definitivo dal monologo-narrazione, scade automaticamente la funzione “dichiarativa” del discorso, per cui l’ingresso in scena di Maroni risulta fuori luogo, sbagliato. Facendosi attore, il ministro manda all’aria lo spettacolo scritto e interpretato secondo determinati canoni (stabiliti, lo ricordiamo, dalla casa di produzione Endemol in accordo con Rai3).
Che quella “scena” suonasse artificiale e posticcia è indiscutibile. Ma il discorso di Galella diventa più ermetico, se non pericoloso, nel momento in cui scrive: “La narrazione è più monocratica del dibattito, di cui certifica il deterioramento e l’improduttività, ma guadagna in suggestione e in potere espressivo”.
I termini “monocratico”, “suggestione” e “potere” uniti a “produttività” non sono sinonimi di un pensiero democratico né di una pratica democratica del discorso, al contrario evocano anni bui della nostra storia e un uso dogmatico, propagandistico (e, diciamolo, intimidatorio?) della parola. Fra l’altro, non siamo neanche convinti che Saviano potrebbe dormire sonni tranquilli se qualcuno gli dicesse: lo sai che il tuo discorso è monocratico e produttivo?
Se Saviano (ma non solo Saviano) deve fare un ragionamento, ha bisogno di tante parole, di preposizioni principali e secondarie, di parentesi quadri e parentesi tonde, finache di pause e di silenzi. L’articolazione di un pensiero che possa dirsi tale porta con sé la richiesta di un tempo che non può essere contratto, affastellato, violentato in continuazione, come accade in effetti sempre di più nei talk show televisivi.
Anche “Vieni via con me” però è un format televisivo e per quanto Saviano sia l’autore di alcuni ragionamenti espressi in tv, non è completamente l’autore del discorso che si sta facendo. Perché è, a sua volta, “parlato” dalla macchina che lo ospita, dal sistema di “produzione” e di potere che fabbrica il suo monologo, un monologo che, a quanto pare, dovrebbe risultare il più possibile “produttivo, seducente e monocratico”. Un discorso da cui viene depurata, tagliata fuori, qualsiasi tentazione di “spreco”. Ma è proprio nello spreco (così come lo intendeva Bataille), nella parola che non obbedisce ad un copione ferreo e se ne va in direzioni impreviste, che si può cogliere una possibilità reale di bellezza - e quindi di rivolta - non completamente assoggettata alla moderna macchina di produzione delle idee.
Nessuno sarebbe, peraltro, così ingenuo da pensare che dietro quel monologo non ci sia una precisa strategia comunicativa, un chiaro obiettivo culturale e politico. E questo obiettivo non solo è stato raggiunto, ma è stato premiato ampiamente dal pubblico.
Tutto questo si svolge in piena trasparenza. Il problema nasce quando si prospetta un futuro di puri monologhi monocratici, obbedienti ad una logica imbattibile di produzione e consumo culturale, in grado di abolire definitivamente la desueta forma dialogica. Insomma, l’”ora parlo io e basta”.
Se l’esperimento rappresentato da “Vieni via con me” non si esaurisse nelle quattro sacrosante puntate (non è un caso che Endemol ne abbia previste quattro e non di più) ma dovesse diventare un modello da riprodurre all’infinito, diventerebbe, nel migliore dei casi, una formula autoritaria e populista.
Tutti noi detestiamo i talk show, dove si consumano da decenni metodiche carneficine umane. E nessuno di noi pensa che nel salotto di Vespa domini la forma dialogica, se non nella sua degenerazione chiassosa, inconsistente e rissosa.
Non si tratta, a bene vedere, neanche di monologhi travestiti da dialogo, perché nessuno degli ospiti fa mai in tempo ad articolare il proprio monologante discorso, che un altro gli mangia letteralmente la faccia e la voce (in diretta o in differita, poco importa).
Il confronto non è quindi con il talk show di Vespa ma, per esempio, con la forma intervista che in molte trasmissioni di attualità ancora sopravvive dignitosamente (per esempio da Gad Lerner, o da Fazio stesso quando ci dice “Che tempo che fa”). Dobbiamo immaginare un futuro senza interviste, senza dibattiti e senza interlocuzione? No, non lo vogliamo immaginare.
Fazio e Saviano hanno lavorato sulla forma racconto (almeno per quello che riguarda i monologhi dell’autore di “Gomorra”). E il racconto porta con sé una certa predisposizione all’ascolto da parte del pubblico. Da casa, noi disponiamo ad ascoltare una storia (il cui autore, lo ripetiamo, nel caso del format televisivo, è quanto meno plurale). E’ una forma, né bella né brutta. Un modo del discorso. Può piacere o non piacere, ma non si può sacralizzare. Specialmente considerando il fatto che questo tipo di monologo è imbalsamato, registrato, telecomandato.
L’invenzione di un deuteragonista accanto ad un protagonista, quindi il dialogo, è alla base del teatro. Senza conflitto drammatico, non si dà teatro. Anche i monologhi – lo insegnano tutti i grandi pedagoghi (basta leggere Josè Sanchis Sinisterra) – al loro interno devono possedere un conflitto, così come devono essere dotati di qualità precise di linguaggio, ovvero ambiguità, complessità, e soprattutto permeabilità: un personaggio monologante non può non avvertire quello che accade nello spazio intorno a lui (se qualcuno tossisce, per esempio, contamina immediatamente la parola, ne altera il corso).
Abbiamo bisogno di grandi narrazioni che smontino anni di costruzione di un immaginario videocratico. Vendola lo ripete da anni. Ma questo non vuol dire che abbiamo bisogno di una tv in cui domini, incontrastato, un certo tipo di format che azzeri il contraddittorio. E’ vero che Paolini (il cui monologo teatrale non equivale assolutamente al monologo di Saviano) in tv fa cifre da record, ma le fa proprio perché continua a mantenere una sua forma vitale. Se fosse addomesticato e reiterato all’infinito, quel modello diventerebbe un sistema occlusivo, assolutamente impermeabile all’accesso dell’altro, del diverso. Un discorso vuoto, autoreferenziale, e muto.
Questo è vero non soltanto per il teatro in televisione, ma anche per il teatro in teatro. Immaginare che i palcoscenici italiani siano totalmente monopolizzati da Paolini, Baliani, Celestini e Davide Enia, è delirante. Non solo perché, a lungo andare, la forma di teatro-narrazione svela i suoi punti di caduta e di collasso comunicativo-espressivo, ma soprattutto perché diventerebbe un sistema autoritario, il trionfo dell’ego.
Come non vogliamo immaginare una televisione fatta solo di monologhi, non vogliamo neanche lontanamente sognare un teatro fatto solo di narratori. Sarebbe una violazione della libertà dello spettatore. Non è un caso che registi come Gabriele Vacis hanno sempre alternato le due forme espressive: il monologo di Laura Curino su Olivetti assieme allo “Zio Vanja” di Cechov, la narrazione di Allegri su “Novecento” di Baricco e insieme la messa in scena delle “Affinità elettive” di Goethe”, l’”Amleto” di Shakespeare accanto a “Synagocyty” (storia narrata in prima persona di un immigrato di seconda generazione).
Qualcuno si è mai sognato di dichiarare che il conflitto tra Antigone e Creonte (nell’”Antigone” di Sofocle) contenga minori spunti di riflessione rispetto al monologo di Paolini sul Vajont? Per nostra fortuna, le tragedie greche e le opere di Shakespeare continuano a rappresentare dei focolai di pensiero e rivolta permanente, proprio perché ci mostrano, senza commento, l’accadere della tragedia, il farsi delle cose, attraverso la forma dialogo. Nelle grandi scene di conflitto drammatico, l’autore è nascosto, ed è lo spettatore (il lettore) l’unico assoluto giudice.
Diversi autori contemporanei anche a noi vicini (da Steven Berkoff a Giuseppe Manfridi) ci invitano a riflettere sul fatto che certe conversazioni non sono altro che monologhi camuffati. Sul tema, sono state scritte opere geniali che svelano lo scollamento tra ciò che si pensa e ciò che si dice.
Però, una cosa è una conversazione da sala da tè (esiste, non a caso, a teatro, un genere autonomo definito “dramma-conversazione”, orientato a svelare il vuoto della chiacchiera), altra il dialogo. Senza dialogo, non c’è dialettica e non c’è democrazia. Senza dialogo non si produce civiltà. La narrazione stessa, di cui abbiamo estremo bisogno, alla fine è ben poca cosa se non è in grado di produrre dibattiti e contraddittori (preventivi e successivi), quindi dubbi e persino ripensamenti. Perché, se poeticamente, “l’io è un altro” (Rimbaud), politicamente l’io non può esistere senza l’altro.
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