giovedì 16 dicembre 2010
Giancarlo De Cataldo: "Come scrittore, non ho nessuna etica"
Confesso subito una cosa: io non ho mai creduto che De Cataldo fosse uno solo. Per questo, entrando nella sua casa di Prati, fantasticavo di trovarci una dattilografa a cui “lo scrittore” dettava intere pagine di testo, un assistente che “il magistrato” spediva al tribunale con tonnellate di carta sulle spalle, e naturalmente una moglie accudente, intenta a far sì che “il marito” non perdesse nessun pezzo. E invece. Invece Giancarlo De Cataldo è un uomo di 54 anni placido e sorridente che dimostra di non avere nessuna fretta. Seduto su una poltrona, gioca col suo cane di nome Beckett e racconta: racconta indifferentemente di criminali romani, eroi risorgimentali e dèi dell’antica India. Non perde un pezzo perché ricorda tutto. Legge centinaia di pagine al giorno, segue casi di omicidio, scrive libri, sceneggiature, articoli, parla in tv, e nonostante questo giura di dormire otto ore a notte. Il suo ultimo libro è lungo 570 pagine (più o meno come il primo). E non c’è una pagina più lieve dell’altra. Ogni frase è passata dalle mani giuste. Le sue. Pare che sia lo stesso uomo anche quello che viaggia in tutte le parti del mondo. Anche lui dorme otto ore. La parola che spiega tutto questo in effetti c’è, ed è: concentrazione. Giancarlo De Cataldo ha una capacità anacronistica di concentrazione. Ed è affascinante capire come fa ad essere, grazie a questa sua virtù, uno e centomila.
Chiaramente è una debolezza, ma in genere i libri storici e i cosiddetti film in costume mi procurano uno stato di narcolessia. In questo caso, non solo non è accaduto, ma la lettura delle quasi 600 pagine de “I traditori” (Einaudi, 21 euro), mi ha tenuto sveglia sveglissima, come se si trattasse del suo secondo “Romanzo Criminale”. Eppure affrontava un capitolo, in un certo senso, monumentale della nostra storia: il Risorgimento. Come fa a trasformare quintali di materiali giuridici e storici in noir incandescenti?
Io ho una vecchia passione per i vecchi libri e le vecchie storie, perché sono convinto che lì ci sia la radice del nostro presente. Uno di questi vecchi libri è L’uomo delinquente di Lombroso. E’ lì che è stata inventata la scienza giuridica. Lombroso è stata ancora una fonte di ispirazione. Naturalmente, c’è stato poi il lavoro di ricostruzione delle fonti. Non mi ero mai confrontato con un materiale storico così antico. Il lavoro dello storico e quello del giurista sono simili: si tratta di ripercorrere una catena di indizi, di scartare quelli finti e di concentrarsi sulle piste ragionevoli. Lo scrittore ha invece la possibilità di tradire gli snodi della storia. In realtà, senza fare paragoni, non faccio niente di molto diverso da quello che faceva Alessandro Manzoni con I Promessi sposi. Sono tre le operazioni che faccio normalmente: la prima è di ricostruzione, la seconda di ri-creazione della storia, e la terza consiste nell’innestare su questo tessuto storico i personaggi che, conducendo l’azione, rendono il racconto una metafora, e non un reportage o un saggio.
Tutti i personaggi hanno un modello storico?
La gran parte dei personaggi ricalca il modello storico. Però alcuni me li sono inventati, La Striga, per esempio, l’ho sognata. L’idea originale era un’altra, e cioè che il protagonista, Lorenzo, proteggesse un ragazzino calabrese ignorante. Poi una notte mi è apparsa questa creatura dei boschi dai capelli rossi, e da lì è nata la saldatura impossibile tra un combattente aristocratico del Nord, e una ragazza che tutti credono una scema e che invece è una fine intellettuale del Sud. Dante Gabriel Rossetti è apparso anche lui dalla Striga. Quello che ho detto prima corrispondeva alla razionalità di uno scrittore. Poi subentra sempre una parte irrazionale, ed è quella che ti porta sulla strada giusta. Studiando la figura di Giuseppe Mazzini, mi sono reso conto che aveva vissuto metà della sua vita in esilio a Londra. Per questo alla fine mi sono imbattuto nella Londra gotica.
Le due protagoniste femminili - la Striga in un versante visionario-profetico, Lady Violet in una zona più razionalista - portano avanti la linea luminosa del romanzo. Incarnano, ciascuno a suo modo, l’unica possibilità di avanzamento della civiltà.
Sono sempre più convinto che toccherebbe alle donne buttarci a mare e prendere il controllo della situazione. E quando vedo che hanno fortuna sociale delle donne che tendono a riprodurre modelli maschili, un po’ m’incazzo. Siamo in un periodo di integralismi dove la violenza si esercita soprattutto contro le donne. Da una parte quindi le donne sono i soggetti più a rischio, e dall’altra sono i soggetti innovatori.
Quale è stato il suo contributo al film di Martone (“Noi credevamo”, nelle sale il 12 novembre?), anch’esso sul Risorgimento?
L’abbiamo scritto insieme, e abbiamo usato dei materiali diversi rispetto a quelli che ho usato per il libro. Sono fermamente convinto che un film sia di chi crea le immagini. Martone è un vero genio. L’opera è sua.
Lei chiude il romanzo con una lettera di Mazzini a Lady Violet Cosgrave: “Non chiedere alla vita felicità: peccheresti, e senza pro, di egoismo. Non disperare della vita: la disperazione è l’ateismo dell’anima. La vita è un dovere. Spesso, per chi lo compie, rassegnatamente sereno”. E’ una lezione da imparare?
E’ una lezione impossibile, come molte lezioni di Giuseppe Mazzini. Le idee sociali di Mazzini erano senza dubbio più avanzate rispetto alle sue idee economiche. Non è ipotizzabile, per esempio, che un padrone gioiosamente accetti di cedere ad un operaio una parte del suo potere.
Quale è il suo giudizio sulla politica padronale di Marchionne?
Io francamente non lo capisco. Da liberale quale sono, non riesco proprio ad accettare l’idea che si debba chiedere il permesso per far pipì. E mi stupisco che non si riesca a trovare una via di mezzo tra l’esercizio dispotico del potere fine a se stesso, e il boicottaggio della produzione.
Anche in questa caso, come già era avvenuto con “Romanzo criminale”, lei ha azionato la grande macchina dostoevskijana del bene e del male...
Lei si assume la responsabilità di quello che dice?
Sì, me l’assumo.
Bene. Non sono io che ho nominato Dostoevskij...Anche perché è uno scrittore che adoro. Mario Martone ed io abbiamo ci siamo ispirati molto a I Demoni per scrivere il film.
Vede che Dostoevskij c’entra sempre?
Non faccio che rileggerlo.
Dopo questa immersione nei bassifondi della nostra storia (recente e antica), quale idea ha adesso del male e del bene?
Credo che l’idea del bene e del male cambi nel corso del tempo per ogni essere umano. Sono affascinato dalla teoria del movimento. In questo c’entra molto un viaggio in India che ho fatto due anni fa e dal quale ho imparato molto. Ho imparato, per esempio, che Brahma, il creatore, è un dio che dorme. Vishnu è il reggitore, colui che ripristina l’ordine. Poi c’è Shiva, il distruttore. E nella distruzione c’è sempre un principio di rinnovamento. Anche perché l’alternativa è la stasi. Questo per dire che il bene e il male sono concetti essenzialmente dinamici, per cui soggetti negativi possono essere utilizzati come agenti del bene, mentre soggetti animati dalle migliori intenzioni possono produrre catastrofi. Ciò non toglie che noi siamo ineluttabilmente affascinanti dagli angeli caduti. E’ meglio accettare di convivere con la parte oscura, tenerla sotto controllo, e di tanto in tanto cercare di darle quello spazio necessario perché le cose del mondo si rimescolino e dal rimescolamento nasca alla fine il progresso.
Hannah Arendt sosteneva che il bene è “radicale”, mentre il male può al massimo essere “estremo” perché, a differenza del bene, non ha profondità né complessità. Sono riflessioni sovversive ed enigmatiche rispetto alla comune idea che tuttora si ha del bene e del male.
Non ho la forza per misurarmi con Hannah Arendt. Quello che posso dire è che Mazzini è stato un uomo di grandissima tolleranza religiosa, governò Roma per alcuni mesi vietando che si torcesse un capello ai preti (i quali, dal canto loro, se avessero potuto avrebbero eliminato tutti i patrioti italiani); nello stesso tempo, coltivava progetti di sterminio di massa. Io sono abituato a lavorare sul terreno dell’ambiguità. Le domande che continuiamo a farci sul bene e sul male sono le domande che tutte le grandi religioni continuano a farsi dagli albori dell’umanità e che non sono mai state risolte. E probabilmente il segreto della nostra sopravvivenza sta proprio nel continuare a farci domande che non trovano risposte.
Come intellettuale, come vive questo nuovo Medioevo che ci ha riportato alle guerre di religione?
I massacri che sono stati compiuti in nome delle religioni del libro sono inaudite e inenarrabili, per cui l’oscuro pericolo della deriva genocida è sempre presente e sempre costante. Al tempo stesso, nell’operosità dell’ebraismo, nella valorizzazione del capitale di intelligenza umana contenuta nel Talmud (quale altra religione ti consente il “sediamoci e parliamo con Dio”?), nella forza della comunità presente nell’Islam, e nella forza sociale della figura di Cristo, vedo cose straordinarie. In tutt’e tre i casi, c’è una dialettica che gli uomini di buona volontà dovrebbero indirizzare verso la pace e non verso lo sterminio.
Lei è cristiano?
Non so che cosa sono. Sono affascinato dalla religiosità e sono convinto che abbiamo bisogno del trascendente. Nello stesso tempo le chiese, in quanto istituzioni, stimolano i miei istinti di fuga.
Non c’è nichilismo estetico, però il coltello dello scrittore non teme l’affondo, specialmente nelle parti ambientate a Londra e in Sicilia. La violenza, lei la racconta con nettezza.
Non credo che ne I Traditori ci sia mai compiacimento, ma certe descrizioni non possono essere edulcorate. Anche la violenza è un agente di Shiva. Noi tendiamo a dire “diversamente abile” perché è scorretto dire “handicappato”, dopo di che se per strada l’handicappato ti sfregia la macchina, lo carichi di mazzate. Noi abbiamo importato dagli anglosassoni il “picchettaggio” degli spazi, per allontanare il momento del regolamento dei conti e quindi dello scontro, e questo è propedeutico ad una generazione di serial killer. Quindi violenza sì, ma non compiaciuta.
Naturalmente, il magistrato De Cataldo ha una posizione etica differente dallo scrittore...
Come scrittore, io non riconosco nessun valore all’etica. Come magistrato, soggiaccio al rispetto delle regole. E a volte le regole ti impongono di assolvere una persona che sai essere colpevole ma non hai le prove per dimostrarlo. Questa operazione di soffocamento della propria etica individuale viene compiuta in nome di un’etica di maggior respiro che è funzionale alla sopravvivenza della società nel suo complesso. L’opposto di questo è un atteggiamento giusnaturalista: il mio sangue urla per vedere condannato quest’uomo che è evidentemente un assassino, anche se io non ho le prove... Io invece devo avere la forza per assolverlo. In letteratura, vige il principio opposto: lo scrittore è un signore (nel senso che esercita la signoria sul suo materiale letterario) intoccabile e indiscutibile.
Il suo lavoro come magistrato è molto cambiato?
Sono diventato più anziano e faccio il magistrato d’appello, il che vuol dire che non seguo più direttamente la formazione della prova, ma controllo la prova che altri più giovani hanno formato. Sempre nel mio settore, che è il penale. Sempre occupandomi di omicidi, che sono la mia materia specifica.
Quando è insorta in lei questa doppia vita, come ha reagito il mondo intorno a lei? Scetticismo? Sospetto? Curiosità?
I colleghi sono migliori di come li si dipinge. Come categoria, noi godiamo di pessima stampa. Forse siamo goffi quando comunichiamo, ma tra noi abbondano le ottime persone. C’è stata sempre una forte curiosità: come mai un magistrato scrive? si chiedevano tutti. Diciamo che dopo tanti anni, adesso non sono più un magistrato-scrittore. Si comincia a capire che non scrivo romanzi perché non posso condannare Berlusconi.
E’ vero che legge un libro al giorno?
Queste sono leggende. Mi piace tantissimo leggere. Anche adesso che gli occhi un po’ indeboliti da anni di computer. Sono onnivoro.
Ci sono specifiche ore del giorno dedicate alla lettura?
Siccome lavoro tanto, posso leggere solo la sera. La lettura è un’alternativa eccezionale alla televisione. Oppure leggo in viaggio. Io amo moltissimo viaggiare e preferisco il treno all’aereo. E in treno mi concentro benissimo.
Per immergersi nelle sue letture serali, ha bisogno di isolarsi dalla famiglia?
No, perché in casa leggiamo tutti. Legge mia moglie, legge nostro figlio Gabriele che ha diciotto anni. Passiamo molte serate così, tutt’e tre seduti l’uno vicino all’altro e ciascuno sprofondato nel proprio libro.
Che cosa ci dobbiamo aspettare dalla seconda serie televisiva di “Romanzo criminale”?
Fuochi d’artificio.
E’ la storia delle origini?
C’è l’origine e c’è la fine. E’ la parabola narrativa dei “nostri” ragazzi con qualche spiegazione di come sono diventati poi i ragazzi della Banda della Magliana.
Quante ore dorme la notte?
Quelle che servono.
Non ci credo. Come fa a fare tutto quello che fa?
Stanotte, per esempio, ho dormito otto ore...Penso che sia un fatto di velocità, e di concentrazione. Quando mi metto a fare una cosa, non perdo tempo.
Scrive tutti i giorni?
No. La cosa che mi fa più fatica è scrivere gli articoli.
Pensa che oggi ci siano dei fermenti e delle tensioni che in qualche modo possano ricordare i fermenti e le tensioni che hanno preceduto l’Unità d’Italia?
Magari!
(Pubblicato su "Gli Altri")
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