venerdì 31 dicembre 2010

Il cibo, il sonno, l'amore, il trascendente, la rivolta: a ruota libera con Rezza e Mastrella


Antonio parla ininterrottamente tra sé e sé. Fa le vocine. Flavia sorride, ci è abituata. “Pensa ad avercelo per casa. Per fortuna che non viviamo più insieme”. Antonio butta giù la pasta e si mette a contare i minuti. Fuori dalla finestra, si vede un giardino che sembra uscito fuori da una favola. Una favola bella, di quelli che oggi ci illude e che ieri ci illuse. Non di quelle favole cattive che siamo abituati ad ascoltare da loro due, popolate di mostri e nuovi mostri che si dibattono fino all’auto-consunzione. Quando parla Flavia, Antonio sta zitto. Lui l’ha sempre detto: “Flavia è superiore a tutti”. Antonio e Flavia si conoscono dal 1987, ed è normale che alla fine usino lo stesso vocabolario. “Questo cellulare che suona è oppressivo, lo spengo” dice Antonio. Dopo qualche minuto, è Flavia a sbarazzarsi di un oggetto, un piatto con i salamini e una mela. Lo trova, guarda caso, “oppressivo”. Togliendo gli oggetti “oppressivi” di torno, resta solo il piacere del cibo e del vino. Nella casa di Monteverde che Antonio Rezza e Flavia Mastrella affittano ogni anno in concomitanza con il mese di spettacoli al teatro Vascello (fino al 2 gennaio, è in programma la loro antologia completa di spettacoli: dopo Pitecus, è ora il momento di Io, e poi di Fotofinish, Bahamuth, e 7/14/21/28), va in scena una conversazione morbida e affilata che si diverte e non lasciare nessun soggetto intentato: il cibo, il sonno, la solitudine, la cattiveria, l’amore, l’io e il non-io, il potere. Fra qualche ora Rezza andrà ad abitare i quadri viventi di Flavia Mastrella, i sipari antropomorfi che l’artista costruisce da anni per la loro scena tattile, visionaria, iperrealistica. Fra qualche ora si sfinirà in scena, condurrà la sua battaglia forsennata senza sangue ma di crudeltà artaudiana. Fra qualche ora. Intanto, scola la pasta e canticchia. Non siamo abituati ad associare Antonio Rezza al cibo. La sua magrezza nervosa sembra alimentarsi solo di se stessa.

Quindi mangiate anche voi, interessante...

FLAVIA MASTRELLA: A me piace aver cura di me, anche se a volte mi dimentico di mangiare semplicemente perché non ho tempo. Lavoro troppo.

ANTONIO REZZA: Io invece non ho alcun interesse per il cibo. Per me non significa niente . E’ una cosa che abbiamo tutti.

Troppo democratico, lo so. Una volta l’hai detto del sonno.

A.R.: Sì, anche il sonno è troppo democratico.

E’ un tema su cui insistete spesso...

A.R.: Abbiamo fatto anche il corto “L’orrore di vivere” su due persone che dormono tutta la vita. Io sono ossessionato dall’idea di perdere la vita dormendo. Non amo molto dormire.

F.M.: Al contrario, io riesco a dormire con gioia anche dieci ore. Però non mi piace sognare.

Perché non ti piace sognare?

F.M.: Perché in genere faccio sogni brutti, caotici. Forse qualche volta faccio anche bei sogni, ma quelli non li ricordo mai.

Secondo voi, esiste quello che Freud chiamava l’Es?

F.M.: Sì che esiste. E’ lì che si forma tutta la nostra creatività. Il rapporto tra me e Antonio è veramente strano. Siamo completamente diversi, eppure comunichiamo come se entrassimo in trance contemporaneamente.

Come vi siete conosciuti?

F.M.: Antonio aveva un’associazione culturale e ci aveva messo a disposizione una grande stanza per fare una mostra. Eravamo due pittrici e due fotografi. Tutti giovanissimi.

A.R.: Dopo pochissimo tempo, ci siamo messi a lavorare insieme. Siamo fortunati perché il Comune di Nettuno (dive viviamo entrambi) ci ha sempre messo a disposizione uno spazio per provare. Anche se le amministrazioni sono cambiate, questo ci ha permesso di lavorare con una certa serenità. Ne approfitto per ringraziarli. Quando noi diciamo che lo Stato deve dare gli spazi e non i soldi, sappiamo bene cosa stiamo dicendo.

Continuate quindi a rifiutare le sovvenzioni statali....

A.R.: Prima le rifiutavamo perché non capivamo a cosa servissero. Adesso che lo capiamo, le rifiutiamo lo stesso. Non mi fido completamente: se lo Stato ti dà dei soldi, vuol dire che dopo chiederà qualcosa in cambio. C’è un’età massima per “dare il culo”. Passata l’età, non se lo prende più nessuno.

F.M.: Perché si diventa vecchi.

A.R.: Perché si diventa inaffidabili. Proprio perché inaffidabili, siamo salvi.

Parlate spesso di solitudine. Cosa significa per voi sentirsi soli, essere soli?

F.M.: Vivo da sola da nove anni ed è una condizione importante. Fai quello che vuoi, puoi disporre del tuo tempo.

A.R.: Io non vivo da solo, ma sto spesso da solo. Anche se la solitudine può diventare una condizione patologica. Flavia, per esempio, non è mai sola. La sua casa è sempre affollata di gente.

F.M.: C’è sempre qualcuno che mi ci appiccica perché sono accogliente...persone che arrivano a stare da me anche un anno intero.

A.R.: Se stai da solo e stai bene non soffri, ma se stai male allora può essere terribile.

Come quando torni a casa a trovi tutto esattamente come l’hai lasciato e allora pensi: non è passata un’anima via, non si è mosso un alito di vento....

F.M.: O come quando sei appena tornato, vuoi mangiare ed è tutto freddo. Già, ci sono dei momenti brutti.

A.M.: Ma tu non sei mai sola.

F.M.: Che vuol dire? Vivo a sola. Spesso sono sola.

Nei vostri spettacoli, non c’è pietà neanche per l’infanzia, che viene tratta in senso antiretorico, con una discreta dose di cinismo. Ma da due anni Antonio è diventato padre. E’ cambiato qualcosa?

A.R.: E’ cambiato che adesso nella mia vita c’è Stefania e c’è un bambino. Il bambino si chiama Giordano. Mi sta simpatico. Anche perché non sta cambiando per niente la mia vita. Odio le persone che tentano di cambiare il carattere degli altri. La sua presenza diventa irresistibile proprio perché non è in grado di cambiarmi.


L’Io di Io (lo spettacolo) conosce il mondo disumano e inumano e si ritira, si rimpicciolisce. E’ un Io che “mangia la vita bevendo acqua rotta”. Questo l’Io di Io....Ma il vostro? Tutti i grandi poeti hanno sempre detto che c’è sempre almeno un Io di troppo, che alla fine è un puro ingombro, un fagotto di cui varrebbe la pena disfarsi al più presto....Voi come ci state, dentro il vostro Io?


F.M.: Quello che cerco di fare è di sfuggire all’Io, di frastagliarlo, di farlo diventare tanti Io diversi. Se è preso male, l’Io è pericoloso, diventa un dittatore. Penso all’Io di certi personaggi politici, fondato sull’idea del predominio. Si sbagliano di grosso. Non capiscono che l’Io è, semplicemente una persona.

A.R.: Io non sento il loro dominio perché penso che i politici sia degli individui più sfortunati di noi. Non vivono nello stesso mondo in cui vive chi fa un lavoro libero. Io, per esempio, interpretando i miei personaggi, posso sfuggire all’Io. Dopo che Flavia mi consegna lo spazio, vivo con quelle persone che non sono me. E’ come vivere una vita parallela. Tra i due Io, è meglio l’altro. E’ un Io virtuoso, un po’ fantasma, meno contingente, assurdo. Il fatto di poter vivere altrove annulla completamente le azioni della vita normale, che è spesso parassita.

Ma voi andate sempre d’accordo? Non litigate mai su un’idea?

F.M.: Avviene così: se Antonio non apprezza un oggetto oppure io non apprezzo una battuta, si eliminano sia l’oggetto che la battuta. Però, se uno dei due insiste veramente, allora vuol dire che ha ragione e si ridiscute tutto.

Che rapporto avete con il potere?

F.M.: Quando ci hanno offerto delle direzioni, abbiamo rifiutato, perché non è il nostro lavoro.

A.R.: Flavia è superiore a tutto, io invece mi arrabbio se non ci danno quello che abbiamo diritto ad avere. Non capisco, per esempio, la supponenza della cosiddetta avanguardia teatrale nei nostri confronti. Io in alcuni festival dell’avanguardia ci vorrei anche stare, ma loro fingono che non esistiamo.

Forse perché non esitate a fare dichiarazioni forti, per esempio l’attacco a tutto il teatro di narrazione.

A.R.: Io non attacco le persone o gli artisti, ma un genere di teatro.

Quando sono arrivata al Vascello per Pitecus, ho sentito dire ad un ragazzo: ma che belle facce che portano a teatro Antonio e Flavia! Mi sono guardata intorno e devo dire che ero vero: facce vive.

A.R.: Anche se nella finzione facciamo finta di attaccare il pubblico, noi il pubblico lo amiamo. Sai cosa penso? Che invece di selezionare gli spettacoli, bisognerebbe selezionare il pubblico.

Voi dichiarate che la vostra antologia è “completa, irrequieta, disarmata e autoreferenziale”. Perché continuate ad insistere sull’elemento dell’autoreferenzialità? Se foste autoreferenziali, a teatro non accadrebbe quello che accade, il pubblico con farebbe quello che fa.

A.R.: E’ vero, ma non possiamo essere noi a dirlo. Questa nostra megalomania esibita piace al pubblico, che vuole vedere in scena figure trascendenti.

E quale è invece il vostro rapporto con la trascendenza, che viene sfiorata in spettacoli come Bahamuth?

F.M.: Per me il trascendente è Antonio.

A.R.: No, non poi dì che so’ io il trascendente, dai.

F.M.: Per me è così.

A.R.: A Napoli, ho trovato l’appellativo giusto, Gli spettatori ci hanno urlato: Siete clamorosi!

Però io intendevo stavolta il trascendente fuori di voi, oltre voi due...

A.R.: Ah, ecco.

F.M.: Io ho un rapporto di trascendenza con gli oggetti che creo. Sono animista.

A.R.: Se vuoi sapere se ho un rapporto con Dio, con qualcosa fuori da questo mondo, no, non ce l’ho. Non ci credo. Credo però alle idee, che hanno in sé qualcosa di soprannaturale.

F.M.: Per noi il soprannaturale è l’essere al servizio della bellezza. La bellezza e il ritmo naturale delle cose sono le nostre divinità.

Nel suo saggio sul Riso (Le rire), Bergson insisteva sul carattere unicamente umano del comico (“Il comico non esite al di fuori di ciò che è propriamente umano”), unito ad una certa insensibilità necessaria alla manifestazione del riso. Non si può ridere se non si ha una sospensione di partecipazione affettiva nei confronti di ciò di cui si ride. In effetti voi siete straordinariamente umani e insensibili insieme.

F.M.: C’è un aspetto disumano nel nostro teatro.

Però Bergson diceva “umano e insensibile”, che è diverso da dire solo “disumano”...

A.R.: Penso che nel nostro caso abbia ragione.

In genere, lo spettatore si sente superiore nei confronti dell’oggetto di cui ride. Con la differenza che in questo caso lo spettatore è proprio l’oggetto di cui si ride....

A.R.: In realtà noi ridiamo di noi stessi.

Da cosa prendete ispirazione?

F.M.: Prendiamo ispirazione dai nostri difetti.

A.R.: E dalla vita che cambia. Se facciamo spettacoli ogni due anni, non possiamo non riferirci alla vita che abbiamo vissuto, a quello che è cambiato in noi. La nostra prima fonte d’ispirazione è il trascorrere della vita, del tempo.


Per ricordare il titolo del vostro ultimo spettacolo, 7/14/21/28, bisogna come minimo saper fare le tabelline. Cosa rappresenta per voi l’universo dei numeri?

F.M.: Io sono sempre stata una frana in aritmetica.

7/14/21/28 incede come un mistero orfico. Probabilmente sarà uno spettacolo-soglia. Io non mi stupirei se fra due anni faceste un lavoro ispirato ad Ibsen.

A.R.: Lo sai che non sei la prima che mi parla di Ibsen? Mannaggia, mi tocca leggerlo.

I giornali, li leggete?

F.M.: Io si, ma non tutte le mattine.

A.R.: Io leggo solo le pagine dello spettacolo (ma solo se ci siamo noi), e quelle dello sport. Lo sport lo leggo sempre perché funziona come una prova. Se c’è scritto che il risultato è zero a zero, allora è la conferma che la partita è veramente andata così.

E a votare ci andate?

A.R.: Io ho smesso da tempo.

F.M.: Io voto solo per i referendum. Sono anarchica d’animo.

A.R.: Io di corpo.

Voi siete state sempre molto vicini ai ragazzi anche delle periferie e dei centri sociali. Come interpretate questi sintomi di rivolta studentesca?

A.R.Chi sta crescendo è per sua natura il nemico di ogni potere costituito. Siamo stati a Napoli e abbiamo trovato dei ragazzi molto svegli.

F.M.: Abbiamo paura però che vengano strumentalizzati.

E voi sui tetti ci andreste, per protestare contro qualcosa?

A.R.: Si, ma di notte, quando non ci vede nessuno.

E che protesta è, se non vi vede nessuno?

F.M.: Noi stiamo già lottando, perché portiamo avanti un’estetica che non è quella dominante. Fare gli spettacoli che facciamo è come andare sui tetti.

(Pubblicato su "Gli Altri")

1 commento:

Maldenti ha detto...

Una divertente seduta con Rezza e Mastrella, trasmessa con elegante avveduto distacco, non senza alcune leggere stoccate. Abili malizie in forma di domanda. Un bel regalo ai tuoi lettori di fine anno. Al miglior 2011! Michele Montanari