giovedì 22 aprile 2010

Vinci, Matrix e la guerra


Dal carattere, e spesso anche dal nome, prende forma il destino. E’ un vecchio mito, particolarmente vero. Vinci è un nome da combattente. Il carattere di chi quel nome porta è sveglio e allenato al peggio: un uomo di nervi saldi e di mente razionale. Nel suo studio romano di viale Aventino, nella palazzina di Mediaset, Alessio Vinci, 42 anni, conduttore di Matrix, ha raccolto i cimeli del suo passato da inviato della Cnn. Valigie nere e pesanti, decine di accrediti stampa in tutte le parti del mondo: Giappone, Corea, Jugoslavia,ex Unione Societica, Berlino: “Queste sono tutte le storie che ho vissuto”.
Dalla sua scrivania, Alessio guarda ogni giorno un manichino con la tuta militare (creata appositamente contro le armi biologiche, chimiche e nucleari) dotata di giubbotto antiproiettile e maschera antigas. E’ quella che indossava ai tempi della sua missione in Iraq, quando lavorava come giornalista “embedded”: c’è scritto Vinci su una manica. Non bisogna essere Dostoevskij per vedere in quel manichino una specie di doppio, una figura che trattiene l’anima da esploratore di questo “ragazzo” di grandi qualità, un professionista molto invidiato e spesso criticato.
Nell’era del dopo Mentana, Vinci da più di un anno ogni entra nelle nostre case verso mezzanotte con una misura tutta sua, anglosassone e italiana insieme. La sua parola d’ordine è una sola, e se la detta da solo: “Calma”.



Vinci, cosa le ha dato e cosa le ha tolto “Matrix”? Com’era la sua vita prima?


Per dirla all’americana, prima ero un pesce piccolo in un grandissimo acquario, adesso sono un pesce più grande in un acquario più piccolo. Prima facevo l’inviato di guerra - ho seguito le storie più importanti di questi ultimi dieci anni - e avevo poco tempo libero per me stesso. Adesso seguo molto di più le storie italiane e continuo ad avere pochissimo tempo libero per me stesso. Quando facevo l’inviato, curavo un pezzo di tre quattro minuti, e la mia giornata finiva lì. Con Matrix mi sento costantemente coinvolto, sono sempre all’erta.


Come vive la notorietà?

Non posso negare che mi fa piacere se per strada mi fermano per farmi i complimenti. Per fortuna nessuno finora mi ha insultato!…Comunque, non sembra, ma io sono abbastanza timido.

Per la verità, un po’ sembra…

In tv, con i miei ospiti non sono timido. Cerco di essere rispettoso. Se inviti qualcuno, è perché lo vuoi fare parlare, perché vuoi saperne di più. Lo stesso chiede il pubblico a casa. Quello che pensa il conduttore è marginale.

Le sarà capitato di avere un’intuizione o un’opinione forte rispetto ad un suo ospite che è magari anche imputato in un processo. Come fa a controllarsi in questo modo, a non lasciar trapelare nulla?

Mi convinco che la star è l’intervistato, non l’intervistatore. E poi faccio un’altra cosa: mi immedesimo nella persona che sto per intervistare. Per esempio, nel caso di Alberto Stasi mi sono chiesto: come mi sentirei io se per due anni e mezzo fossi considerato dall’opinione pubblica l’assassino della mia ragazza? Come mi sentirei io se, appena assolto in primo grado, le persone continuano a pensare che sono l’assassino?

Quando, più di un anno fa, è arrivata la telefonata che le annunciava che avrebbe preso il posto di Mentana, quale è stata la sua prima reazione?

Un brivido lungo la schiena. Per due motivi fondamentali. Primo, la consapevolezza che si trattava di una offerta incredibile a cui era impossibile dire di no. Secondo: con Mentana avevo un rapporto non solo professionale ma anche di amicizia. E considerando che io ho pochissimi amici, per me era una faccenda delicata.

Perché ha pochissimi amici?

Per me “amico” è una parola importante che va usata con parsimonia. I veri amici sono delle persone con le quali discuti a livello profondo e vivi esperienze significative…Ci vogliono anni per creare un vero amico e per diventarlo.


Enrico Mentana era uno di questi suoi amici veri?

Diciamo che era un’amicizia legata alla professione. Io ero stato diverse volte e casa sua e lui era stato spesso ospite a casa mia, ma sempre di lavoro si parlava. E’ una persona che stimavo e che continuo a stimare molto.

Allora, ricordo di aver pensato: non vorrei essere al posto di chi eredita quel lavoro…. Diciassette anni di Mentana avevano comunque lasciato un segno forte, in un modo o nell’altro, nel nostro immaginario…

Quando sono arrivato, Mentana era già fuori. Se non avessero preso me, avrebbero preso un altro.

Cos ne è stato poi della vostra amicizia?

Si è intiepidita… era prevedibile che sarebbe accaduto. Matrix è stata la sua creatura e al di là di quello che Enrico possa pensare sul modo in cui io la sto portando avanti, questa sua creatura, posso capire che la senta ancora come sua.

Come è riuscito a conquistare la fiducia della redazione?

Facendo capire che questo nuovo Matrix non era il Matrix di Alessio ma di tutti quelli che ci lavoravano, del gruppo.

Lei ha spesso dichiarato di sentirsi un “marziano”. Un marziano però uno se lo immagina un po’ diverso, uno tipo E.T:, un essere che fa fatica a stare in questo mondo e per questo comunica solo con i bambini. Lei invece è stato sempre in prima linea, prima come inviato di guerra e oggi come conduttore di una delle più popolari trasmissioni d’informazione della tv italiana...Come misura il proprio grado di “marzianità”?

Quando dico che mi sento un marziano, mi riferisco soprattutto al mondo del giornalismo italiano, che devo ancora metabolizzare. Perché vengo da fuori, perché ci sono una serie di gerarchie da rispettare, perché sono una persona diversa rispetto al giro di giornalisti che “comandano” in Italia. Sono anche molto giovane. Per tutte queste ragioni mi sento marziano. E soprattutto ho ancora difficoltà a capire certi meccanismi. Mi diverto ancora molto a notare che sul Corriere della Sera, se io batto Vespa, si scrive che è il soggetto della mia puntata (e non io) ad aver battuto Vespa, mentre se accade il contrario è Vespa che ha battuto Vinci. Insomma, è come se Matrix fosse Matrix, mentre Vinci è una cosa a parte. Invece io le mie battaglie le faccio: a volte le vinco, a volte le perdo, ma fa parte del mestiere.

Come sceglie i suoi ospiti e come conquista la loro fiducia? Perché Stasi per esempio ha voluto parlare solo con lei?

Bisognerebbe chiederlo a Stasi…Quello che posso dire è che molti dei miei ospiti mi dicono più o meno tutti la stessa cosa, cioè che non si sentono mai inutilmente attaccati, che non si sentono trattati come merce di scambio, né coinvolti in un trucco….Un programma televisivo come Matrix per me è come un concerto: gli ospiti sono uno strumento, i giornalisti un altro diverso, e tu sei il conduttore. Non è obbligatorio che io suoni uno strumento. Io devo far suonare questi due elementi.


La sua frase ricorrente è “Calma, sennò da casa non capiscono niente”. Una “abitudine” abbastanza rivoltosa per la tv italiana…

E’ una frase che ripeto spesso perché la dico a me stesso. Se non capisco io, figuriamoci i telespettatori! Non bisogna mai dare nulla per scontato, bisogna ripetere tutto, dal nome dell’assassino al luogo dell’omicidio…Quando gli ospiti litigano e si beccano sulla macchia di sangue e sul dettaglio, la gente non ti segue più…In genere, tendo a dare spazio a tutti. Dopo di che, se c’è chi supera la soglia di decenza nei confronti di un altro ospite, sono costretto ad intervenire…

Ne deduco che in fondo lei non crede al fatto che in questo paese ci sia stata una trasformazione antropologica e genetica irreversibile, cioè che la Videocracy, la tv chiassosa, il pollaio come lo chiama lei, non abbiano rimodellato il volto e la mentalità di questo paese…che in fondo gli esseri umani sono fatti sempre allo stesso modo…

Questo paese è tante realtà diverse. E’ chiaro che quando fai una trasmissione come Matrix, parli a gente diversa per estrazione sociale e culturale. Poi c’è l’audience. Spesso se in tv si litiga lo share sale. Ma non sempre quando lo share sale significa che ci stai capendo qualcosa….L’importante è che all’interno della trasmissione ci sia un po’ di tutto, e non solo il litigio.. Tutti noi giornalisti abbiamo un compito preciso: quello di far capire quello che sta succedano attorno a noi.


Quando ha capito che avrebbe fatto il giornalista?

Da sempre. Il desiderio di viaggiare e di raccontare storie credo sia nato con me.


Giovanissimo, lei ha realizzato il sogno americano di molti giornalisti, entrare alla Cnn. Come è successo?

Molto semplicemente. Sono nato a Lussemburgo da genitori italiani, ma ho studiato a Milano. Dopo due anni d’Università, ho fatto uno stage alla Cnn ad Atlanta e ci sono rimasto a lavorare. Avevo ventidue anni. All’iniizo i miei genitori non l’hanno presa tanto bene…. andavo veramente molto lontano! . Non era ancora scoppiata la guerra del Gofo, e la Cnn non aveva la fama che ha oggi. Loro mi hanno messo nelle condizioni di andare, ma non capivano bene cosa facessi, anche perché all’inizio non apparivo in video e era difficile spiegare il lavoro dietro le quinte.


Quante lingue conosce?

Inglese, tedesco, francese e russo. Sono tutte lingue che hanno avuto un’importanza fondamentale nelle mie scelte. Per esempio arrivai a seguire la guerra nei Balani, perché già lavoravo nell’ufficio di corrispondenza di Berlino della Cnn (che copriva anche i Balani), e a Berlino non sarei mai arrivato se non avessi parlato il tedesco. Così come il russo, che ho imparato negli anni di corrispondente a Mosca, mi è servito poi per seguire la guerra in Cecenia…

In che circostanze le è accaduto di avere paura?

E’ accaduto spesso, ma me ne sono accorto sempre dopo. Sul momento mai.

Il momento più tragico?

Il 23 marzo 2003 a Nassirya. Quando siamo entrati, l’intelligence americana ci aveva detto che Nassiriya, essendo sciita, stava dalla parte nostra. Eravamo convinti che ci avrebbero accolti bene, invece hanno decimato i marines che io seguivo. E lì abbiamo visto di tutto: sparatorie, razzi, granate. Sono morti diciannove marines in tre ore. Ma neanche in quel caso ho avuto paura subito. In quei momenti è più forte l’adrenalina e la voglia di raccontare.

E’ sposato?

Ho una compagna con cui convivo e da cui ho avuto una bambina, che ora ha tre anni.

Quante ore dorme a notte?

Bella domanda. Ho sempre pensato che dormendo si perda tempo. In genere, non riesco a dormire se non ho finito tutto quello che devo fare. Per me una buona dormita c’è soltanto alla fine di un’operazione…Quando finiamo di registrare la puntata, torno a casa ma non riesco a prendere sonno.

Come vive le critiche?

Le adoro. Veramente.

Non si è mai sentito ferito dalle parole degli altri?

Mi infastidiscono le critiche senza cognizione di causa. Spesso chi critica lo fa un po’ per invidia un po’ per pigrizia. Per esempio, all’inizio sono stato accusato di fare puntate leggere, ed è una cosa che ancora dicono su di me benché di puntate leggere a Matrix non se ne vedono più da tempo.

Letture preferite?

La lettura approfondita dei giornali non mi lascia tanto tempo per il resto. Anche perché la sera quando non lavoro preferisco stare con mia figlia.

(Pubblicato su "Gli Altri", 23 aprile 2010)

sabato 17 aprile 2010

Fassbinder e Zoffoli, il mondo visto da un'aliena


In controluce, c’è Fassbinder, la sua pietosa radiografia del cannibalismo dei rapporti umani (Un anno con 13 lune). In primo piano, un’attrice di spessore (Annalisa Zoffoli), che si affanna a rovistare dentro le cose dell’anima con una dolcezza allucinata e familiare al tempo stesso. Dietro le quinte, un burattinaio pieno di dubbi (Gaetano Ventriglia), uno che alla frase rotonda e al messaggio non ci crede. Il risultato è un kammerspiel di materia trans-lucida, che dispiega su un pavimento grande come stanza e misterioso come un universo, tante piccole epifanie cosali. In E’ fuggita l’estate recitano, nell’ordine: una papera-matrioska, una stellina di natale, un foglio di carta, un cappello, una pistola, una ruota. Insieme a loro, una giovane donna che è insieme il macellaio, la moglie del soldato morto, la modella, il poliziotto e l’amante. Questa giovane donna è stata inviata da un mondo siderale a studiare la vita sulla terra. Siccome apprende i comportamenti umani in tempo reale, proprio sotto i nostri occhi, si comporta come un piccolo Kaspar Hauser che non ha mai visto la luce del sole e che non sa cosa sia violenza ma è solo capace di giocarla, di agirla. Ed è in questo preciso interstizio di luce nerissima che l’emozione si deposita, al confine tra inumano e umano, nella sfera degli elementi “macchinici”, in quella che Remo Bodei chiama “la vita delle cose”: “Il significato di “cosa” è più ampio di quello di “oggetto”, perché comprende anche persone o ideali, e più in generale ciò che interessa e sta a cuore…Il privilegiare la cosa rispetto al soggetto umano serve peraltro a mostrare il soggetto stesso nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto e meno frequentato”.
E’ fuggita l’estate è stato presentato al Teatro Argot di Roma in forma di studio, non per questo ha mortificato lo spettatore con quel tipico andamento punitivo e autoreferenziale che in genere caratterizza i “lavori in corso”. Al contrario, è passato come un piccolo fatto attorno al cui segreto vale la pena indugiare. In un battito accecante, ci ha mostrato il sangue, il dolore, l’abbandono, la morte, la violenza, e l’amore. Nessuna spiegazione psicologica, nessuna catarsi, ma una felice, fulminea immersione nell’orrore. Aliena la ragazza, alieno il mondo, alieni noi stessi: in istantanee kantoriane, abbiamo spiato il tenebroso fascino dell’uomo-animale, la fabbrica del mondo e la sua apocalisse.

lunedì 12 aprile 2010

Un guscio d'esultanza: la differenza tra narrazione e teatro-teatro


Nella forma, c’è la vita delle cose, la traccia performata e quindi più autentica del desiderio. Il contenuto non basta, anzi può essere persino d’intralcio. Prendiamo il monologo di Antonio Iannello, La vera storia di un guscio d’esultanza. Se dovessimo limitarci a “dire” la storia, potrebbe risultare simile a molte altre: la difficile educazione sentimentale di un ragazzo di provincia stretto tra il clericalismo pornografico (perché automatico) del paesello, e l’aspirazione ad una vita più libera che trova espressione in un campionato di calcetto. Teoricamente, potrebbe andare ad ingrossare gli “Album” di Paolini o di qualche suo minore emulo. Invece, l’opera, scritta diretta e interpretata dallo stesso Iannello, in scena con due musicisti di teatralità istintiva (Pino Pecorelli – contrabbasso e chitarrella – e Raul Scebba – tamburi e sonagli -) si situa in una zona sottile, pulviscolare, di spettacolazione. Volontariamente imbruttito per andare incontro al personaggio, il performer recinta se stesso dentro un cerchio di lampadine, sedioline colorate, nanetti da giardino ed oggetti che richiamano il mistero, e la tragedia dell’infanzia. Ogni elemento di scena, compreso l’abito, è volto a creare un effetto da music-hall metafisico, tanto più potente quanto più in grado di lavorare per contrasto rispetto alla dimessa, punitiva atmosfera della vita di paese.
E’ come se di questa storia ordinaria si rivelasse la vita segreta che contrariamente a quanto si posa pensare, non abita una zona nera ma una terra luminescente, stralunata. Ecco la vera ragione del paradosso evocato nel titolo: un guscio, un involucro, che però esulta, emette elettricità. Alla fine di questo viaggio violento e comico (in certi momenti Iannello si deforma fino a toccare la figuratività di un Jerry Lewis) nell’intimità, si compie una specie di miracolo. Il desiderio esplode dentro i confini di questo giovane corpo che, invece di inginocchiarsi, piegarsi e svanire sotto il peso delle prediche di cattivi maestri, si raddrizza e tira un calcio alla palla, ruotando il volto verso il cielo : “Mi dispiace per voi, ma io sono vivo, il più vivo possibile, vivissimo”. Un guscio d’esultanza, appunto. (visto al Teatro Cometa Off di Roma, per la tournèe http://gusciodesultanza.blogspot.com/)

mercoledì 7 aprile 2010

Guzzanti: io e i miei figli non sorridiamo mai


Se gli chiedi un’intervista, ti ringrazia. Ti ringrazia per l’attenzione, perché hai scelto lui e non un altro. Anche se è famosissimo, non è uno di quelli che va in giro dicendo “Lei non sa chi sono io”. Paolo Guzzanti ha un’affabulazione piena di parentesi quadre e di parentesi tonde. Fluviale. Innamorata della vita. Ha settant’anni ed è padre di sei-figli-sei, tre fanno i comici e gli altri tre sono ancora troppo piccoli per dirlo. Nel frattempo parlano inglese (hanno una mamma newyorkese) e frequentano la scuola francese. Ha avuto uno sbandamento grande, un amore politico di troppo - che ha creato il gelo tra lui e i suoi figli grandi oppositori di regime - . Al momento del divorzio, gli ha lanciato contro 500 pagine di un librone serio e compunto, “Guzzanti vs Berlusconi”. Sorride solo da dentro. E’ gentile. Come se fosse una cosa normale, ti dice che quando l’interlocutore parla, in pochi minuti gli fa la radiografia, perché sente il rumore che fanno i pensieri. Posizione scomoda, perturbante, pirandelliana, per chi gli sta di fronte credendo di fargli un’intervista, avvertito però del fatto che sta per essere placidamente e amichevolmente vivisezionato.


Guzzanti, quando al telefono ho sentito le voci di bambini ho pensato ai nipoti, invece sono i suoi figli…Una famiglia estesa abbastanza fuori epoca…

Siccome i miei figli grandi non mi hanno fatto la grazia di diventare genitori, mi sono dovuto “nonnificare” da solo. Liv Liberty ha nove anni, Lars Lincoln sette e Liam Lexington quattro. Il primo dei nomi di ciascuno è svedese-irlandese in omaggio alla nonna, il secondo nome è americano, e il cognome naturalmente italiano. Con la mia seconda moglie, Jill Falcigno, di origine italiana, ci siamo conosciuti a New York tredici anni fa (io allora lavoravo per “La Stampa”) e ci siamo sposati nel ’99 a Long Island. Andiamo spesso in America, e soprattutto in Florida. Ma il mio grande amore americano resta New York.

Cosa rappresenta New York per lei?

Amo ed ho amato New York come si può amare una donna. Quando vado a New York, aspetto il momento in cui sono sicuro che nessuno mi guardi e mi chino per baciare il suolo.

Certo è difficile non essere visti a New York. Non siamo proprio in aperta campagna….

C’è sempre un momento in cui si è sicuri di esseri soli.

Cosa la attira così follemente?

Mi piacciono gli odori fetidi e gli odori forti di New York. L’odore dei supermercati, ma anche quello delle librerie, a New York è un altro….


Detto questo, non se ne è mai andato da Roma…

A Roma sono nato, e a parte tre anni in Calabria (negli anni Settanta feci lì un giornale socialista) e due anni passati avanti e indietro tra Roma e New York, ho sempre vissuto qui. Non mi sento legato a questa città. Tutto sommato non dico che la detesto, ma è una città in cui vorrei venire da turista.

In un certo senso, Roma è “una palude definitiva”.

Roma mi ha stancato. Di Roma detesto la cafonaggine. Il tassista romano è un aggressore. L’oste romano è un aggressore. I primi tempi, mia moglie tornava a casa piangendo per la rudezza della gente. La gente qui non è cortese.

Leggo nel suo blog che quando frequentava la scuola elementare, era “uno scolaro completamente pazzo, indisciplinato e ingestibile... La mia indisciplina consisteva nel fare il verso a tutto e a tutti, riprodurre suoni e facce, prendere in giro tutto ciò che mi sembrava falso”. Quindi l’istinto a leggere il lato buffo della vita poi sviluppato in pieno da Corrado Sabina e Caterina in qualche modo viene da quel bambino lì….

Avevo una maestra, Agnese Marcucci, che ho condiviso con Alberto Ronchey. Era una maestra nazista e papalina in una maniera raggiante. Un personaggio carducciano. Era irresistibile ed era impossibile non imitarla. Fin da bambino io ho avuto questa dannazione: quella di saper imitare, per una specie di sesto senso, in nome di un’acutezza innata e crudele…Io sono abituato a fare la radiografia delle persone, vedo subito non solo i vezzi fonetici ma il funzionamento interno…Disosso l’orologio svizzero che c’è dentro gli altri e lo ricompongo a mio modo. In questo risultato vedo i miei figli i quali sono timidissimi e serissimi. Corrado direi che nella vita è quasi plumbeo, coltissimo raffinato e serissimo. Sabina e Caterina, personalità diversissime tra di loro, sono altrettanto serie. Non siamo tanto degli imitatori, perché l’imitatore è quello che sa rifare esattamente la voce di qualcuno, quanto degli svuotatori della zucca altrui. Poi ti metti dentro la zucca e la rifai in un altro modo ma in una forma riconoscibile. E’ come il paguro che ha preso possesso della conchiglia.

Però, a differenza dei suoi figli, l’immagine di Paolo Guzzanti non si abbina esattamente alla comicità. Lei è molto serio, compunto, anche nelle sue oscillazioni d’umore. A volte è rabbioso e spesso icastico. Non ricordo un suo sorriso in tv. Se la prende sempre molto a cuore.

Non amo scherzare. Prendo tutto molto sul serio, è vero. Quando per quattordici anni a “Repubblica” ho partecipato alla messa solenne di Eugenio Scalfari – che pure era una cosa grandiosa, bellissima, formativa - il gioco delle parti, il gioco delle reticenze, delle adulazioni, delle false ribellioni, la comedie humaine, insomma, era così banale e così esplicita che mi vergognavo per loro e allora non mi restava altro che rifare il verso ai colleghi che non la prendevano bene. Capivano che non stavo scherzando, per questo si incazzavano.

Se non avesse fatto il giornalista, cosa avrebbe voluto fare?

All’Università, ho studiato tre anni di medicina perché volevo fare lo psichiatra. Sarebbe stato un altro modo per mettere a frutto questa particolare “percezione degli altri”.

E cosa vide nell’uomo Berlusconi quando lo incontrò la prima volta?

Andai ad intervistare Berlusconi ad Arcore,per conto di Paolo Mieli. Mi tenne ad Arcore un’intera giornata, e fu paradossale, divertente, sciocco, vanitoso, imprevedibile, arrogante, dolcissimo (perché lui è tutte queste cose messe insieme)…insomma lo trovai un caso straordinario. Allora era solo l’imprenditore Berlusconi, non era ancora un politico….

Quali sono stati i motivi veri e profondi i del vostro “divorzio” politico consumato platealmente un anno fa?

Quello che accaduto in Russia con il caso Litvinenko, e la questione delle donne. Io ho vissuto ideologicamente ed ho molto introiettato da uomo, il femminismo degli anni Settanta. Ero sicuro che certe cose, per quanto primitive ed elementari, fossero state conquistate per sempre, E invece quest’uomo ha polverizzato tutto quello che era stato costruito, riducendo le donne a delle puttane.


Lei ha scritto più di cinquecento pagine su Berlusconi. Più di 500 pagine contro. Ma anche 500 pagine su, intorno, per. In una qualche misura anche il suo libro (Guzzanti vs Berlusconi) accresce il potere simbolico del capo…Non facciamo che parlare ossessivamente di Berlusconi. Non crede che a questo punto l’unica vera ferita che si possa provocare al corpo-monstre (come lei stesso lo chiama) del Presidente del Consiglio, alla sua immagine di Giulio Cesare priapo onnivoro, passi attraverso il silenzio, la protesta muta, l’oblio?

Io ho trattato il tema del berlusconismo e dell’antiberlusconismo come le due anime entrambe perverse di questo paese. L’antiberlusconismo è perverso per il modo si cui si esplica, un modo politicamente perdente. Più gli vanno addosso in maniera grezza e rozza, più Berlusconi becca anticorpi con cui cresce e si rafforza. Ha annunciato la riforma sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica e al prossimo giro andrà al Quirinale. Ci andrà con pieni poteri e avremo un gallismo berlusconiano di un Berlusconi ottantenne, e avremo a Palazzo Chigi la Gelmini o Alfano. E questo mi fa incazzare.

Come ha reagito Berlusconi?

Non ha dato notizia di sé.

Curioso. Non palesarsi, non reagire, non sembra far parte della natura di Berlusconi.

Io ho rotto con lui e lui ha rotto con me in una maniera drammatica, drastica e irrimediabile. Lui mi telefonò a giugno e mi chiese: Posso sapere che cosa ti ho fatto? Perché mi odi tanto? Io gli risposi che la simpatia umana non era cambiata ma che ero convinto che lui fosse diventato un pericolo per la democrazia… Mi offrì di andarlo a trovare ed io rifiutai.


Ha annunciato un secondo libro biografico, in uscita a maggio…

Sto scrivendo la biografia di De Benedetti. All’inizio, De Benedetti non voleva darmi l’intervista sostenendo di essere troppo giovane per dettare le due memorie. Dopo aver letto il libro su Berlusconi, che ha trovato “onesto”, ha cambiato idea. Ancora la volta storia d’Italia raccontata attraverso l’infanzia, l’educazione sentimentale, la storia familiare.


Dal suo punto d’osservazione, quali sono i totem e i tabù di questa società?

Il conformismo. E’ una società che si adatta facilmente su alcune parole d’ordine. Da quattro anni ho spento la televisione per sempre. Trovo inaccettabile tutto quello che accade in tv. Mi vergogno ma io non guardo cinema italiano. Mi fa impressione. In genere, quando vedo un film italiano, vengo infastidito da tutto quel meta-linguaggio finto.


Cosa rivela, amplifica o toglie di Corrado Sabina e Caterina l’immagine televisiva? E lei si riguarda mai?

No, mai. E i miei figli non li vedo in tv ma su You Tube. In questo, la nostra è una famiglia maledetta. Non c’è nulla di divertente, né per loro né per me. Certo, ci sono state le questioni della separazione e i motivi politici, ma l’immagine pubblica ha complicato i nostri rapporti. Loro sono famosissimi e negli anni io sono stato massacrato da milioni di lettere, di email, di insulti di gente che, in nome dei miei figli , ha attaccato “il porco berlusconiano”….Mi sento spesso dire: “Figuriamoci che divertimento quando la sera siete tutti a cena a tavola”. Ma noi non siamo a cena insieme a tavola da vent’anni! Ci frequentiamo molto per telefono o per sms. Con Corrado ci scriviamo sms in inglese. Sabina si è molto tranquillizzata perché sono uscito dall’ottica berlusconiana che, comprensibilmente, le dava disagio. Caterina sta emergendo grandiosamente e siccome è la più piccola ne sono strafelice. Ma non credo che loro leggano i miei libri o vadano a curiosare nel mio blog.


Guzzanti, lei ha lasciato il Pdl per entrare nel Pl. Ma cosa fa il Partito Liberale? Quanti siete?

In effetti siamo un po’ pochini. In questi giorni Stefano De Luca, che è il segretario del partito, mi ha chiesto di fare il commissario per il Lazio e la Campania, io ho accettato, ma non ho nessuna idea di dove andarli a trovare, questi liberali…Però, con mia grande sorpresa, si stanno avvicinando al partito parecchi giovani.

Esiste una sede del Partito Liberale?

Ma no, figuriamoci,. Ci riuniamo clandestinamente nei caffè, o nei ristoranti. Siamo poverissimi.

Lei intitola il suo blog “Rivoluzione italiana”. Quale idea di rivoluzione ha in mente?

La nuova rivoluzione liberale, appunto.

Chi sono i suoi amici? Gente della politica e del giornalismo?

Figuriamoci. Amo molto il mio paese. Lo amo però con disperazione. Gli italiani si dividono in arci-italiani e in anti-italiani. Esprimo il mio amore per l’Italia con un atteggiamento ostile, e mi comporto in tutto e per tutto come se fossi in esilio. Mi diverte questo piccolo partito perché non esiste. Per questo faccio comizi a niente e nessuno. Non so se si ricorda, ma io sono stato il primo conduttore di “Chi l’ha visto?”. Ci piombò addosso un successo mostruoso ed io alla terza puntata scappai. Mi dimisi subito perché mi sentivo fuori luogo. Sentivo l’artificiosità del tutto. Non mi piaceva raggiungere il successo in un modo che non era il mio. Naturalmente la mia è arroganza narcisistica, mica modestia.

Ci sono autori italiani che ama?

No.

Non mi dica che legge solo Philip Roth.

Si leggo solo Philip Roth. Roth è l’umiliazione di tutti gli altri.

Non a caso l’ultimo libro si intitola proprio “Umiliazione”.

Però il titolo originale è più bello, “The Hambling”. Letteralmente indica “l’addestramento attraverso l’umiltà”.

(pubblicato sul settimanale "Gli altri" il 26 marzo)