mercoledì 13 gennaio 2010

DIO, I RIVOLUZIONARI, LE BESTIE, LE SACRE SCRITTURE, I QUADERNI A RIGHE: conversazione con Erri De Luca


Chissà perché in campagna sembra sempre che piova più forte. Sarà per le luci fioche, o per il silenzio. La casa è una ex stalla, piccola, umile, a pochi chilometri da Cesano, nella provincia romana. Una finestra, un tavolino, una sedia, un divano, dei libri, penne e quaderni, un letto nel soppalco. Un fornello. Una stufa. Pochi indizi di una vita parca. Ma in fondo cosa serve di più a un solitario che usa la penna? Al centro esatto del tavolo, il libro VII delle Sacre Scritture, poggiato sopra un leggio che sembra fatto su misura: “Lo sto traducendo. E’ il poema che si intitola I giudizi” dice Erri De Luca, corpo magro e voce ascetica in una parlata che ancora tradisce l’origine napoletana.
Quest’uomo apre interamente gli occhi solo ad un certo punto della conversazione. Prima forse ha bisogno di abituarsi alla voce dell’altro, di fargli spazio dentro di sé, dentro la casa. Lui non ha risposto “Ci penserò”, come ha riposto nel suo ultimo libro (Il peso della farfalla, Feltrinelli, euro 7.50) il cacciatore alla giornalista che voleva “cavargli una storia”, lui ha detto sì, ma forse si è pentito, forse avrebbe voluto rispondere col solo fiato dell’armonica, senza parole, per questo tiene gli occhi mezzi chiusi e aspetta il momento giusto per aprirli.
In questa casa, non ci sono computer. Solo una macchina da scrivere, poggiata sotto le scale. Ci sono invece decine di quaderni di nero lucente, quelli che non si trovano più, quelli dove c’è scritto con un carattere chiaro e bianco: “Quaderno”. Contengono, contenuti in una calligrafia che non conosce l’asprezza del taglio, la traduzione da sinistra a destra di un pensiero che va da destra a sinistra. Due tazze di the alla cannella per riscaldare le parole, che vengono da un posto nascosto. “Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada” scriveva Rilke. Deve essere bello nascere e morire lì dentro.

Da quanto tempo vive qui? E perché ha scelto di vivere “fuori”?

Non ho scelto io di vivere qui. Mi è capitato. Questa casa era una stalla. L’ho messa in piedi assieme ad altri due operai più di trent’anni fa. Poi, appena l’ho finita, me ne sono andato a fare diversi lavori operai. Ci sono tornato vent’anni fa, perché avevo trovato del lavoro a Roma, in una cooperativa edilizia. Semplicemente, questo posto era vuoto e così sono venuto a stare qua. Ne ho fatte poche di scelte. Non ho scelto io di essere coetaneo di una generazione di insorti, insubordinati, rivoluzionari, alla fine degli anni Sessanta. Me la sono trovata intorno e sono diventato quello: un rivoluzionario a tempo pieno. Per molti anni. Fino alla fine. Fino alla sua feccia, anzi, come dicono i macellai, “fino alla coda”, che è la parte più dura da scorticare. Non ho scelto io di andarmene come autista di convogli in Bosnia: era tornata la guerra in Europa e tanti di noi avevano cominciato ad andare da quelle parti perché non sopportavano di starsene senza far niente. Noi siamo figli del 1900, del secolo più micidiale della storia dell’umanità, quello che ha distrutto, ucciso, incarcerato più vite umane. E noi, nati nel dopoguerra, siamo stati la prima generazione in Europa che non è stata spedita a distruggersi contro un’altra generazione dichiarata nemica. Abbiamo saltato il turno. E così ci siamo impicciati delle guerre degli altri.

Non ha neanche scelto di vivere questa vita solitaria? Nell’ultimo libro, lei scrive che “i solitari sono degli sperimentatori”, ma appartengono a “quella quota sperimentale che va alla deriva”. E’ così che lei vede se stesso?

Credo che il solitario abbia dentro di sé un meccanismo di isolamento e di deriva. Ci nasce. Come uno nasce con un occhio verde e uno azzurro, c’è una quota di solitari che vanno spesso alla deriva. Dentro questa quota di solitari rientra certamente una quota fissa di suicidi. Quindi non è una scelta essere dei solitari, a meno che non si elevi questa scelta ad una dignità superiore, arrivando a concepire una scelta monacale, per via di fede. In caso contrario, è semplicemente una condizione inevitabile. I solitari sono dei vicoli ciechi della specie.


Rispetto a questa sua condizione di solitario refrattario alla mondanità e forse anche al successo, come vive il fatto che i suoi libri sono sempre in vetta alla classiche, Il peso della farfalla in particolare? Lo vive con spaesamento, con accettazione, con gioia?


Intanto, uno che scrive storie, per quanto sia solitario, è anche uno spudorato. Per me, per esempio, salire sul “ballatoio” di un teatro, è semplicemente prolungare il racconto a voce di una storia che ho scritto. In quel momento sono semplicemente un libro che è uscito dallo scaffale e che invece di farsi leggere si fa ascoltare.

Che significato dà all’esperienza del palcoscenico?

Sto in teatro abusivamente. Non sono un attore. Non so recitare. So solo dire le mie storie. Ho fatto diverse esperienze teatrali, a cominciare dagli spettacoli con Gianmaria Testa e Marco Paolini. Recentemente, abbiamo fatto una tournèe con Fili, dove si collegano diversi miei racconti: ero in scena a suonare anche la chitarra. E a febbraio ripartiamo da Genova con Il nome della madre. Questo spettacolo nasce da un mio racconto sui nove mesi di gravidanza di Miriam Maria (il nome ebraico di Maria), dal momento del concepimento fino alla sua liberazione, dentro una capanna dalle parti di Betlemme. Ho sempre pensato che il Natale fosse la festa della madre e non del bambino, la festa in cui quella ragazza madre porta a termine il compito gigantesco e illegale che le è stato consegnato e che lei ha accettato di accogliere. Credo che tutti i nostri compleanni siano principalmente feste della madre che si è liberata di noi. Quello che mi ha portato a scriverne è stata l’immagine di Miriam sola nella stalla: non c’era nessuno che l’aiutava, nessuna mano di levatrice che le è stata accanto…Se l’è cavata da sola.

Il peso della farfalla mi ha riportato alla scrittura criminale e poetica di Durrennmat, a quel modo di scolpire le parole e i movimenti delle creature. Se non altro perché gli uomini di Durrenmatt ( non mi riferisco solo al Minotauro, ma anche al Figlio, per esempio), sono più animali che uomini. Come è arrivato a descrivere con questa nettezza il combattimento tra un uomo e un animale?

Intanto sono un praticante di alpinismo, scalo le Dolomiti, che è un posto abbastanza frequentato da animali di montagna. Andando da quelle parti, raccolgo esperienze personali e esperienze di altri: storie di caprioli, cervi, stambecchi, aquile, camosci… Il camoscio è la bestia più perfetta: è un acrobata, un funambolo, è robusto e agilissimo… Questa storia è ambientata a novembre, che è il mese dei loro raduni, per la stagione dell’amore. I camosci sono solitari come animali. I maschi non frequentano le femmine se non in quel momento. Invece le femmine vivono in comunità matriarcali, allevando i piccoli…

Lei dice, cioè il cacciatore dice, che “si prendono lezioni dalle bestie”…

E’ così. Diciamo che si prendono lezioni da tutti. C’è una frase del trattato del Talmud intitolato “Il rotolo dei padri” che dice: “Il saggio è colui che impara da qualunque uomo”… Il saggio non è qualcuno che insegna, è sempre qualcuno che impara…Io imparo da qualunque persona, e anche dalle bestie. Le bestie hanno un rapporto con il presente più lucido, tempestivo e attento del nostro. Le bestie sanno sempre che ora è, che momento è per fare una cosa o per non farla. Noi meno, perché siamo distratti. Ci siamo occupati molto del passato (siamo la specie che ci mette tanto tempo a svezzarsi, a diventare adulta) e progettiamo continuamente il futuro. A forza di progettare il futuro, inciampiamo continuamente nel presente. Anche nel momento del morire, le bestie sanno sempre come devono affrontare la morte, mentre l’uomo pensa sempre di avere qualche prolunga. Anche nel caso più disperato, non ammette che è quello il momento. La bestia invece non si fa distrarre dalla nostra visione “panoramica” del tempo trascorso e di quello futuro.


Ha confessato di aver prestato un suo infarto alla figura del cacciatore….

Io scrivo solo di quello che conosco, di cui ho fatto esperienza. Ho avuto un infarto due anni fa e l’ho raccontato nel libro. Invece di inventare un’altra sintomatologia, ho preso a prestito la mia.


Ha paura della morte?

No, ho paura delle malattie. Vorrei arrivare all’ultimo momento in piena salute.

Come arriva a scegliere il punto di vista, la voce che accompagnerà il suo racconto?

La devo sentire. La mia è una scrittura a voce. Le mie frasi non sono più lunghe del fiato che ci vuole a pronunciarle. Prima le devo ricevere nell’orecchio, poi le scrivo.

Ogni tanto, quando leggo i suoi racconti, mi capita di provare un leggero malessere. E’ come entrare in una stanza in cui non si dovrebbe entrare. Così fragile, esposta e nuda è quella vita che lei descrive. E allora, subito dopo, mi chiedo: se io provo questo sentimento di colpa, non proverà magari Erri De Luca una specie di vergogna nell’aprire quella stanza al mondo?

Io sono spudorato, non ho nessuna reticenza nel raccontare quelle storie. L’effetto che lei denuncia dipende, credo, dall’io narrante. L’io narrante è qualcuno che c’entra dentro la storia, è coinvolto direttamente. E’ molto più personale della terza persona con cui generalmente gli scrittori governano una storia. Nel mio caso, è evidente la coincidenza tra personaggio e scrittura.

Scrive tutti i giorni?

No, scrivo solo quando mi viene. Se ho una storia per le mani, allora sì, la scrivo tutti i giorni. Ma non sono un impiegato di me stesso. Poi non scrivo mai al tavolino. Scrivo sulle ginocchia, sul divano. Quello è il mio posto di assestamento.

Ci sono delle precise ore del giorno deputate alla scrittura?

Sì, quelle prima del giorno. Mi alzo molto presto, verso le quattro. Però vado anche a dormire molto presto anche in maniera ridicola, verso le otto e mezzo. Mi piace scrivere dopo le letture del mattino.

Per quante ore?

Non scrivo mai più di quaranta minuti al giorno.

E vero che lei non usa mai il verbo “lavorare”?

Non posso usare il verbo lavorare rispetto alla scrittura. Per me il lavoro è il lavoro operaio, che ho fatto per una ventina d’anni. E’ vero che adesso vivo di scrittura, ma non è il lavoro. In questo momento sto traducendo dei pezzetti del Libro VII della Scrittura Sacra. Avevo già tradotto l’episodio che riguarda la vita di Sansone, che era uno dei giudici di Israele.


Perché usa solo quaderni a righe?

Solo quaderni a righe perché senza le righe vado storto. Con i quadretti mi sembra di scrivere sopra le sbarre, sopra un reticolato.

Mi sta dicendo che chi, come me, usa solo quaderni a quadretti, è sedotto dalle sbarre?

Forse a lei non danno questa sensazione.

No, anzi i quadretti mi sembrano più liberi delle righe.

Strano. A me invece procurano l’effetto prigione. Il nostro è stato il secolo più carcerario della storia dell’umanità: i quaderni a quadretti andavano bene per i numeri, non per le lettere.


Lei si occupa molto di Dio ma dice di non credere in Dio…

Mi occupo della divinità in terza persona, non posso dargli del tu. Questa è la differenza tra chi è credente e chi no. Chi può dare del tu alla divinità è credente e non ha bisogno di nessuna scrittura di appoggio. D’altra parte, se si avesse bisogno di conoscere le Sacre Scritture, sarebbero fregati gli analfabeti. La fede è un’altra cosa. Però la mia frequentazione di Scritture Sacre, fatta in maniera letterale – parola e sottoparola dall’ebraico – interessa, incuriosisce, dà delle notizie su quel formato originale della rivelazione monoteista.


Quante lingue parla?

Frequento il francese, l’inglese, lo yiddish, il russo, l’ebraico antico, poco quello moderno, poco il tedesco…Conoscevo bene una lingua africana che si chiama kiswahili. E’ la lingua ufficiale della Tanzania, ma viene parlata in un’area più larga. L’ho imparata perché ero stato in Africa a fare un lavoro di volontariato venticinque anni fa.


In tutti i suoi libri c’è almeno un riferimento a quegli anni di rivoluzione e furore di cui lei è stato protagonista come esponente di Lotta Continua. Anche nel Peso della farfalla, libro sulla lotta tra un cacciatore e un camoscio, ad un certo punto, come fosse un lapsus, una svista, un’ossessione, si legge: “Mai più si è visto un altro accanimento rovesciare il piatto, in una gioventù…”. Perché torna sempre sul luogo del delitto?


Torno nel luogo della mia comunità, della mia appartenenza. Io ho avuto parte e diritto in quella generazione rivoluzionaria che è stata l’ultima del Novecento. Ci torno con intento narrativo, ma anche per ostinazione, per ribadire che sono rimasto leale nei confronti delle ragioni e delle azioni di quella gioventù. Non è questione di coerenza. E’ che non mi sono cambiati i sentimenti. Si, è una faccenda sentimentale. Sono affezionato a tutti i rivoluzionari, anche gli italiani, quelli che continuano a purgare pene per il nostro 1900. Sono legato a quegli uomini. Letteralmente legato. Mi aspetto di potermi sciogliere solo quando usciranno tutti. Siccome in questo paese uno scioglimento per le conseguenze di quell’urto civile non c’è stato, allora la faccenda per me è insolubile. Credo che se ci fosse stata un’amnistia alla fine di quel percorso, non ci sarei più tornato su. Ma sono ancora legato. E’ un vincolo di appartenenza che prosegue, nei confronti di quelli che sono in Italia, ma anche di coloro che sono all’estero e hanno vissuto vite faticate di esilio e di fuga.

Che sentimenti prova nei confronti della Sinistra italiana?

Mi è impossibile nominare il sostantivo. Non c’è nessuna sinistra italiana. Ci sono delle singole persone, anche numerose, ma che non hanno nessuna rappresentanza politica.

Pubblicato sul settimanale "Gli Altri" l'8 gennaio 2010

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