domenica 1 novembre 2009
Ionesco oggi, l'assurdo senza stupore
Dici Ionesco e dici “teatro dell’assurdo”. Anche Beckett e Pinter (che pure era molto più giovane) rientravano nella categoria. Li aveva accostati il critico Martin Esslin, che pubblicò nel 1961 il celebre saggio “The Theatre of the Absurd” e pochi anni dopo “The Absurd Drama” (1965), in cui legiferava: “Il teatro dell’assurdo attacca le consolatorie certezze dell’ortodossia religiosa e politica. Il suo scopo è quello di scioccare il pubblico, costringendolo a guardare in faccia la durezza della condizione umana…E’ una sfida accettare la condizione umana così com’è, in tutto il suo mistero e in tutta la sua assurdità, sopportarla con dignità, nobiltà e responsabilità: perché non c’è nessuna soluzione facile ai misteri dell’esistenza…Alla fine ogni uomo si trova solo in un mondo senza significato…Rispetto a tutto ciò, il teatro dell’assurdo non provoca lacrime di disperazione ma una risata liberatoria”.
Un po’ esistenzialista un po’ boulevardienne, il teatro dell’assurdo entrava nella scena degli anni Cinquanta e Sessanta con la potenza di un uragano, senza usare le buone maniere, scatenando ad ogni sua nuova performance un delirio di “favorevoli” e “contrari” che per giorni e mesi non si davano pace. Essenzialmente, era una drammaturgia capace di intercettare gli smottamenti della società e del linguaggio: i suoi autori rischiavano ogni volta la reputazione e la perdita totale del consenso.
Nel centenario della nascita di Ionesco, ci chiediamo cosa sopravvive oggi di quel teatro. Beckett e Pinter continuano ad essere universalmente rappresentati, anche se è mia personale convinzione che Pinter non reggerà al corso del tempo mentre Beckett sì. Per una semplice ragione. Le opere del drammaturgo inglese, premio Nobel per la letteratura (scomparso nel marzo scorso) sono in una qualche forma consustanziali ai mondi che denuncia, fino a confondere talvolta il linguaggio con l’oggetto di critica politica. Difficile trovare una bella messa in scena delle opere pinteriane, perché se non c’è una regia sofisticata al lavoro, quei testi risultano, senza volerlo, drammaticamente borghesi, e alla fine innocui. Con un’unica eccezione, ma non è teatrale: la sceneggiatura de Il servo di Losey, fantastica, potente, misteriosa.
Beckett invece sopravviverà all’umanità estinta. Perché le sue opere non sono fatte neanche di parole ma di pietre, di rocce, di elementi non corruttibili, correlativi oggettivi della poesia. Anche una cattiva messa in scena di Beckett, non potrà mai rovinare la potenza di fuoco, aria, acqua e terra contenuta nei suoi versi. L’umano vi transita quasi per sbaglio.
Ionesco, infine. Le sue opere non vengono quasi più rappresentate, né in Italia né all’estero. Eppure il teatro dell’assurdo coincide con Ionesco, e non con Beckett, né con Pinter, che poi hanno trovato strade più autonome.
Quindi è morto del teatro dell’assurdo. Come ci spiega Renato Nicolini in queste pagine, è morto perché si è spostato dal palcoscenico alla politica.
Ma è morto anche perché i registi si sono ostinati a “rappresentarlo”, senza comprendere che il teatro dell’assurdo è, in fondo, una modalità, una forma attraverso cui leggere il mondo e disossarlo.
A differenza di Pinter, autore dichiaratamente politico, Ionesco paga inoltre la mancanza di un’ideologia. Alcuni critici gli furono ostili fino alla morte proprio perché vedevano in lui un reazionario, un mistificatore, un giocoliere. E soprattutto un anti-brechtiano.
In effetti, al contrario di Pinter, che credeva nella trasformazione e nel progresso, Ionesco era fondamentalmente un nichilista: “Sono sempre stato ossessionato dalla morte. Dall’età di quattro anni, quando ho saputo che si deve morire, l’angoscia non mi ha più lasciato. E’ come se avessi capito improvvisamente che non c’era nulla da fare per sfuggirla e che non c’era nulla da fare nella vita”. Non sembrano queste le parole di un giocoliere.
Quando Ionesco scriveva La cantatrice calva, Le sedie o Il rinoceronte, non voleva “rappresentare” alcunché, ma indagare quella che chiamava “la tragedia del linguaggio”. Ed è affascinante ripercorrere il metodo di lavoro del drammaturgo francese. Ionesco non si metteva a sedere di fronte al foglio bianco sentendosi superiore ai personaggi che andava rappresentando, al contrario raccontava l’assurdo perché ne era ammaliato: “La stranezza è ovunque: nel linguaggio, nel fatto di prendere un bicchiere, di berlo con un sorso solo, in breve è nel fatto d’esistere, d’essere”.
La cantatrice calva, la sua opera indubbiamente più bella, nacque dalla lettura di un manuale d’inglese. Ionesco aveva appena cominciato a studiare la lingua e si era imbattuto in uno di quei libri surreali dove figurine improbabili fanno dichiarazioni così sballate da lasciare di stucco. Per memorizzare quelle frasi, lo scrittore aveva preso l’abitudine di copiarle su un quaderno. Imparò che Mr Smith e Mrs Smith avevano due amici, Mr e Mrs Martin: quando si incontravano tutt’e quattro all’ora del the dicevano cose come :”La campagna è più grande della grande città”, “Sì, ma nella città la popolazione è più densa”. E’ così che Ionesco ebbe una folgorazione e decise di costruire la sua pièce facendo parlare i coniugi Smith come i personaggi di un manuale di conversazione. La commedia (anzi l’anti-commedia, come la chiamava l’autore), inizia in questo modo: “Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese. I ragazzi hanno bevuto acqua inglese. Abbiamo mangiato bene questa sera. La ragione è che abitiamo nei dintorni di Londra e che il nostro nome è Smith”.
Era il 1950. Nasceva un testo che sarebbe entrato nella storia del teatro. Nel metterlo in scena, il regista Nicolas Bataille (che allora aveva solo 23 anni), ebbe un’idea geniale: occultando il fatto che si trattava di un’opera surreale, chiese allo scenografo Jacques Noel di disegnare le scene per una versione di Hedda Gabler. Allo stesso modo, diede agli attori l’indicazione di recitare i personaggi come se si trattasse di Ibsen. Lo spettacolo debuttò al Théatre des Noctambules di Parigi l’11 maggio del 1950 ed ebbe un’accoglienza spenta; bisognerà aspettare l’edizione del ’57 perché Ionesco e la sua opera ricevessero la giusta consacrazione.
Il fatto che oggi La cantarice calva, piuttosto che Le sedie, siano considerate materia morta non dovrebbe inquietare nessuno. Se un testo non risuona più nel contemporaneo, c’è sempre una ragione profonda. Quello che dovrebbe preoccuparci, piuttosto, è la mancanza generale di fantasia da parte dei nostri autori, registi e critici.
Ionesco era uno sperimentatore ossessionato dalle incongruenze e dai lapsus della lingua. Sapeva frequentare l’assurdo perché guardava alla fine della vita amando profondamente le bizzarrie di questa vita: “Ciò che dicevano i personaggi della Cantatrice calva non mi sembrava banale, ma straordinario e strabiliante al più alto grado” dichiarerà molti anni dopo.
Proprio perché capace di stupore, riusciva a sorprendere i suoi contemporanei. Ma oggi chi è in grado di rimanere incantato di fronte alle pagine di un manuale di conversazione?
Pubblicato su "L'Altro" il 1 novembre
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