venerdì 6 novembre 2009

Quanto è banale dire che il potere è sadomaso

Jan Fabre porta in Italia (al Romaeuropa Festival) il suo ultimo spettacolo, Orgy of Tolerance, ed è un successo annunciato. Pubblico in delirio, applausi a scena aperta, molte risate. Ma nessun brivido: nessun brivido di conoscenza, nessun brivido di terrore. Eppure la materia che il regista belga sta trattando è gigantesca. Teoricamente, è l’unica possibile materia su cui gli artisti contemporanei dovrebbero incollare visioni e corpi: dal mattino fino alla sera, e poi di nuovo il giorno dopo, perché non c’è tempo da perdere. Aderente al suo tempo, Fabre fabbrica un musical seducente che intitola L’orgia della tolleranza: col fine di dire ovviamente il contrario, ovvero il caos dell’intolleranza che diventa violenza e abuso. Lo spettacolo inizia con una scena di masturbazione collettiva dove le vittime sono costrette ad un orgasmo reiterato da carnefici/cacciatori che piantano dei fucili contro le loro teste. E’ un quadro che non si conclude mai veramente, e che torna in diversi punti dello show, in maniera ossessiva. Un’altra scena simbolica vede tre donne incinte issate su carrelli della spesa: alla fine di una lunga sequenza in cui mimano realisticamente e con grandi urla il parto, fanno nascere dalle loro pance lattine di birra, confezioni di biscotti, un salamino e la pasta De Cecco. Dopo di che una coppia di wasp fa un viaggio in Italia e in un crescendo di intolleranza verso l’italiano-marocchino-nero che ritarda a servirli, si dipingono di vernice bianca e indossano l’abito del Ku Klux Klan. Oggi che un facebook gira un nuovo appello del KKK alla razza ariana, dovremmo fare un salto sulla sedia. Invece nessuna di queste immagini riesce a colpirci nel profondo. Non è certo una questione di stile. La bravura dei ballerini /performer, la loro energia stratosferica, sono fatti indiscutibili. La musica è perfetta, il contenuto più contemporaneo che non si può. Sul finale, c’è anche un monologo ormai consolidato del fuck off dove si manda a ‘fanculo tutti, compreso Jan Fabre, a dimostrazione che l’ironia e l’intelligenza sono il pane quotidiano della compagnia belga. Le citazioni si rincorrono in un montaggio vorticoso, da Kubrik al Portiere di notte di Liliana Cavani fino al La 25a ora di Spike Lee. Eppure nessuna emozione, ma solo un coatto divertimento, un piacere estetico di cui alla fine ci si vergogna anche un po’. Perché? Una delle ragioni sta sicuramente nel fatto che lo spettacolo è troppo uniforme e chiassoso, non si distende mai, non lascia nessuna zona scoperta (e quindi aperta), e nella sua sovra-esposizione di corpi, lingue e peni di plastica, rischia di creare un effetto auto-combustivo, inerte. Ad un certo punto della conversazione nel salotto dei vincenti, si nomina l’estetizzazione del mondo operata dal nazismo e dai regimi totalitari, ma lo si fa in modo estetizzante, isomorfo quindi ai mondi che il regista belga assalta e che non può che criticare. Ma è una denuncia tutta di testa, dichiarata, che si liquefà in uno zoo antropomorfo che invece di terrorizzarci per i temi affrontati ci mette di buonumore, ci tranquillizza e ci esalta.
C’è poi una questione di fondo, più sottile. La rappresentazione sado-masochista del potere ha fatto la sua storia. Non ne possiamo veramente più. Il potere non si esprime così, non urla, non ghigna, e spesso non si fa neanche sentire. L’immaginario che c’è al lavoro dietro questo spettacolo è, alla fine, povero, remissivo, e senza volerlo, complice. Viene in mente, per contrasto, l’ultimo film di Pasolini ,Salò e le 120 giornate di Sodoma: non esiste fino ad ora rappresentazione più terrorizzante del potere. Per la luce, per i suoni, i silenzi, per la ferocia interiore delle pratiche di umiliazione e sevizia, per il rigore di una visione creatrice capace di farsi archetipo, fondendo gli scritti del marchese De Sade con la morte dell’umano. Non si è mai più vista una cosa del genere.
Senza dover necessariamente arrivare a quella sintesi feroce, stordente, una visione che ammala e irretisce, gli artisti avrebbero comunque il compito di non fermarsi alle rappresentazioni esteriori, di non prendere per buona “la prima”. Nominare la paura e il delitto, descrivere un salottino in cui degli uomini cattivi conversano sulle loro collezioni di uomini buoni - arabi, ebrei e africani -, è ben poca cosa rispetto all’orrore della realtà che mentre perdiamo il nostro tempo, ci divora e ci mastica con i suoi simulacri e le sue tentazioni luttuose. E fare della morale in forma di musical è molto diverso dal fare un’arte morale.
Visto al Teatro Olimpico, Orgy of Tolerance arriva l’8 novembre a Torino (Fonderie Limone, Moncalieri), per iniziare una tournèe europea che toccherà Siviglia, Mosca, Amsterdam, Monaco e Bruxelles.

Pubblicato su "L'Altro" il 6 novembre

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