sabato 7 novembre 2009

Caro Saviano, la società dello spettacolo ti sta uccidendo


Lo dico subito: io amo profondamente Gomorra ed ho un rispetto incondizionato per il suo autore. Ripenso spesso a quel ragazzo di ventisei che di notte prende il treno, attraversa l’Italia e arriva a Casarsa. Sta cercando il “suo” posto nel mondo, e pensa di trovarlo nel cimitero in cui è sepolto l’uomo che ancora oggi resta il più vivo tra i tanti morenti (gli annoiati, gli indifferenti, i vigliacchi) che sono rimasti in vita: “Andai sulla tomba di Pasolini non per un omaggio, neanche per una celebrazione…Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse possibile ancora riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei reati e renderli elementi dell’architettura dell’autorità. Se era ancora possibile inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l’affermazione dei poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura”.
Roberto Saviano ha fatto quello che nessuno aveva fatto prima di lui in Italia: ha messo “tutta” la sua giovinezza - la passione, l’intelligenza, l’audacia, il talento, la ricerca - al servizio di un racconto epico, un reportage letterario dove tutto quello che si dice è drammaticamente vero, un’opera pulsante, architettonica, scritta superbamente, che ha cambiato il nostro immaginario, rivelando le alleanze mostruose tra crimine, politica e finanza, penetrando con nomi e cognomi nei meandri della psiche di un sistema mafioso.
Questo lo scrittore. Poi c’è l’uomo. Quest’uomo che ha appena compiuto trent’anni è stato privato della libertà: non può avere una vita privata, gli è vietato di fare una passeggiata, le uniche persone con cui gli è consentito mangiare sono le sue guardie del corpo.
Qualche mese fa, mentre tutti noi trascorrevamo in santa pace le vacanze estive, Saviano scriveva dal suo bunker un articolo che ancora conservo e ogni tanto rileggo. Era l’11 agosto e lo scrittore campano scelse il “Times” per dire la verità sulla sua condizione umana. “Se questo è un uomo”, si sarebbe potuto titolare quel pezzo, e invece i redattori del quotidiano inglese preferirono un titolo più spettacolare: “Roberto Saviano, on the run from Mafia”, “Roberto Saviano, in fuga dalla mafia”. Lo stesso fecero i giornali italiani, che scelsero di isolare i passi più cinematografici, e naturalmente più innocui, della confessione di Saviano: il tono della denuncia, il gesto di chi volta le spalle ad un libro che in Italia ha venduto più di due milioni di copie e dice: “Mi sono pentito come uomo, non come scrittore. Ma quando passo davanti a una libreria e vedo Gomorra in vetrina, mi volto da un’altra parte”.
Ci sono però altri dettagli di quella confessione che dovrebbero colpirci. E’ difficile, per esempio, non sentire il freddo, lo squallore delle case in cui è stato scaricato, la nostalgia con cui evoca la sua stanza di ragazzo con i poster alle pareti, o il cibo che gli preparava una donna sconosciuta nei giorni del suo esilio a Napoli, e poi, improvvisamente, solo due uova in un ambiente anonimo, ogni volta diverso, le guardie del corpo come unici esseri viventi con cui scambiare una parola, e poi…poi niente mare niente neve niente luce.
Con un atto d’orgoglio che solo noi meridionali possiamo riconoscere e comprendere in tutta la sua irriducibile asprezza, Saviano afferma in quello scritto di non aver paura della morte: “Ho avuto tante paure nella mia vita ma la paura della morte non mi ha mai riguardato. Mi capita di pensare al dolore del morire, ma i miei terrori sono altri…Il terrore più grande di tutti…è il pensiero che loro (la camorra) possano fare in modo di diffamarmi, di distruggere la mia credibilità, di oscurare il mio nome e tutto quello per cui io ho vissuto e di cui sto pagando il prezzo”.
L’onore è più forte del sopravvivere. Ma la vita, invece, cos’è la vita? Quale forma può prendere la vita per un ragazzo che ha passato gli ultimi tre in camere angoscianti, attorniato solo da calzini, boxer, magliette e pantaloni, una giacca, e due borse, una contenente medicine, uno spazzolino, il dentifricio, un carica-batterie per il cellulare, e l’altra con dentro il computer e pochi libri?
In queste condizioni, è naturale scambiare la vita per “qualche apparizione pubblica”: “Le pubbliche apparizioni fuori dall’Italia costituiscono l’unica alternativa alle mie quattro mura….Si va direttamente dalla luce al buio. Niente nel mezzo”.
Il discorso si potrebbe chiudere qui. Ma c’è una sfumatura che luccica tra le maglie di questa tormentata confessione…come il movimento inconcluso di un pensiero che si ha fretta a chiudere (e umanissimo), una giustificazione che dietro l’apparenza di un’auto-giustificazione, lascia passare l’accettazione, e alla fine il consenso, al proprio stesso sacrificio umano.
Saviano parla della differenza tra luce ed ombra, e vede nelle apparizioni pubbliche fuori dall’Italia l’unico barlume di vita. In effetti c’è una bella differenza tra la prigione e la strada. Il fatto è che le apparizioni pubbliche di Saviano sono sempre meno fuori dall’Italia, sempre meno “per strada”, intendendo per strada la strada del mondo, e sempre più strette dentro le scatole dei media italiani. Recentemente, lo scrittore è stato addirittura l’unico attore protagonista di uno spettacolo di successo, La bellezza e l’inferno, regia di Serena Sinigaglia, al Piccolo Teatro di Milano. Questo gli scatena contro una specie di invidia collettiva, un fenomeno odioso che, giustamente, provoca in lui una reazione indignata e ancora una volta orgogliosa: “Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l’ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti”.
L’invidia sociale di cui è vittima Saviano si commenta e si estingue da sola. Che bruci nel suo veleno, come la calunnia, sua fedele compagna.
Dal canto suo, Saviano è sicuramente in buona fede quando afferma che bisogna parlare, far sapere, esserci. Si è mai rifiutato Pasolini di scrivere sul “Corriere della Sera” o di intervenire nei programmi di quella televisione pubblica di cui poi leggeva tutto il potenziale distruttivo, lesivo della civiltà e della lingua attraverso cui questa stessa civiltà si esprime?
L’epoca in cui operava e scriveva Pier Paolo Pasolini è molto diversa dalla nostra, e lo stesso stesso Pasolini ebbe intuizioni folgoranti sul futuro. Ma il suo modo di morire, quella morte violenta - come la vita dei ragazzi di borgata che tanto lo affascinava – lo àncora inestricabilmente agli anni di piombo, alle fotografie delle strade tappezzate di cadaveri.
Anche oggi scorre per strada del sangue vero, e Saviano riempie di sangue vero le sue pagine. Il sangue delle vittime della camorra. Lo scrittore campano infatti non si pente di aver scritto Gomorra. L’uomo invece sì. Perché? Perché la camorra l’ha minacciato di morte e costretto ad una vita blindata, infelice, una vita senza fame e senza sonno.
Se deve rappresentarsi una morte atroce, Saviano parla dell’attacco che i camorristi possono fare alla sua credibilità. Sempre nell’articolo scritto per il “Times”, cita Anna Politkovskaya: “Non dimenticherò mai le parole che l’ex marito disse all’indomani della sua morte: “Il fatto che l’abbiano uccisa è preferibile alla diffamazione. Anna non l’avrebbe mai potuto sopportare”.
Ma il modo in cui si manda a morire nella Russia di Putin è meno sofisticato del modo in cui si può mandare a morire in Italia o in altri paesi diciamo più occidentalizzati. In Italia oggi si muore di mille morti diverse, e nessuna di queste è una morte bella. Non esiste la morte bella, ma solo la morte-spettacolo.
La morte senza sangue non è, peraltro, meno atroce di quella violenta. Anche se è in atto un meccanismo mistificatorio così raffinato da farla passare addirittura per opera buona.
Alla base, l’unica legge che funziona è sempre quella del capitale. “Lo spettacolo – scriveva Debord – è il capitale ad un tale grado di accumulazione che diviene immagine”.
Privato del corpo, Saviano è costretto a mandare nel mondo la propria immagine, anche quando ci si illude che sia il suo corpo vero quello che transita sul palcoscenico del Piccolo Teatro o negli studi televisivi di qualche trasmissione più pluralista e “democratica” delle altre.
Con le migliori intenzioni del mondo, Saviano accetta di leggere i suoi testi al Piccolo Teatro (il monologo verrà replicato dal 16 al 28 febbraio). Con le stesse migliori intenzioni, il Piccolo Teatro gli offre l’opportunità di farlo. Con le migliori intenzioni, direttori di giornali e di programmi d’attualità lo invitano a dire la sua. Il pubblico in sala è contento è applaude, a casa pure è contento e forse pensa che in fondo quel ragazzo non se la passa così male, se appare in tv.
Nel frattempo, sul volto di Saviano, sempre più scarnificato, sempre più incapace di sorriso, si poggia una sottile maschera di morte. Impossibile non vederla “al lavoro”, quella maschera. E’ come se qualcuno stesse uccidendo un vivo, il più vivo tra di noi. E questo qualcuno è un soggetto plurale, capace di offendere e attaccare da tutte le parti.
Quello che si sta commettendo davanti ai nostri occhi imbelli e imbambolati è
un crimine sociale dove la vittima è sempre e solo Saviano, offerto come digestivo all’esercito della cultura perché si redima e si assolga da solo dalla propria mostruosa inedia.
Uno di quei crimini senza criminali veri e senza sparatorie, orchestrati dalla stessa società dello spettacolo che dai tempi di Baudrillard e Debord si è sempre più evoluta e quindi perfezionata nella capacità di commettere omicidi bianchi.
Cosa dovrebbe fare allora Saviano? Rifiutarsi di andare in tv? Dire no al teatro? Non accettare le prime pagine dei giornali?
Non credo che lo sdegnoso rifiuto di apparire sia una soluzione ai mali di questo mondo, e ha ragione Saviano a dire che la verità deve raggiungere il maggior numero di persone. Il problema non è nel “cosa” ma nel “come” tutto ciò si manifesta, nella forma e nel ritmo che assorbe e divora la cosa.
Saviano non è un uomo libero. E non noi dobbiamo mai dimenticarlo. La sua non-libertà ci riguarda profondamente. Ma quello che per lui assume il valore di una pura sopravvivenza, a noi che a quello spettacolo tragico siamo costretti ad assistere con un certo terrore, appare come un sacrificio a cui la cricca dei benpensanti lo chiama ciclicamente, per poter esclamare di fronte ad un bicchiere di prosecco e ad una tartina al salmone (cibo che Saviano anche potendo - non è certo questione di soldi - non può permettersi, perché non ha più fame né voglia): “Ho sentito parlare Saviano, incredibile, ti rendi conto di quello che succede in Italia? Che brutte cose! Mamma mia!”, nel mezzo di una conversazione in cui di sicuro, ad un certo punto, ci finiscono dentro anche i nuovi schiavi: “Che dice la tua badante? Ah, queste ucraine, sono le peggio”. Buon appetito.
Nessuno chiederà agli spettatori di Saviano di agire, perché la loro buona azione quotidiana l’hanno già compiuta. Benedetti e assolti, potranno andare a letto tranquilli, tanto chi va a controllare se si comportano da padri-padroni dentro le loro case? Basta che leggano “Repubblica” tutti i giorni e che almeno una volta a settimana vedano spettacoli di impegno civile. Buonanotte e amen.
Ora, se non è un crimine sociale, un atto violentemente ipocrita questo, cos’è allora?
Di fronte a tutto ciò, Saviano ha il diritto e il potere di imporre le proprie condizioni, per trasformare un fatto di brutale consumo culturale in un “rito” culturale. Potrebbe, per esempio, presentarsi in tv con le sue guardie del corpo e fare scena muta tutti insieme, facendo parlare solo i loro corpi, le loro vite di ragazzi impauriti, soli. Oppure potrebbe chiedere al pubblico del teatro di non sciogliere l’emozione nell’esorcismo dell’applauso. Potrebbe chiedere e ottenere ad ogni sua apparizione pubblica un black out dell’ovvio, fare qualcosa che si ricordi, che metta in corto-circuito il meccanismo oliato e innocuo della messa in scena della denuncia. Impedire con un gesto risoluto, folle, che lo trattino, codardamente, da eroe. Cosa ce ne facciamo di un eroe in più? (non lo diceva già Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”?). Chiedere e ottenere quello che Pasolini auspicava quarant’anni fa nel suo Manifesto per un nuovo teatro: “Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali "prime" di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente consigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro. O, se con la sua simbolica, patetica, pelliccia di visone, si presenterà, troverà all'ingresso un cartello su cui c'è scritto che le signore con la pelliccia di visone sono tenute a pagare il biglietto trenta volte più del suo costo normale (che sarà bassissimo). In tale cartello, al contrario, ci sarà scritto che i fascisti (purché inferiori ai venticinque anni) avranno l'ingresso gratuito. E, inoltre, vi si leggerà una preghiera: di non applaudire: i fischi e le disapprovazioni saranno naturalmente ammessi, ma, al posto degli eventuali applausi sarà richiesta da parte dello spettatore quella fiducia quasi mistica nella democrazia che consente un dialogo, totalmente disinteressato e idealistico, sui problemi posti o dibattuti (a canone sospeso!) dal testo”.
Saviano non va applaudito. Saviano va salvato. E ancora oggi invece si discute se è il caso di togliergli o no la scorta! Tutti noi dovremmo salire sul palco accanto a lui e alle guardie del corpo, e urlare: “Sparate!”.
Perché la sua singola vita vale molto di più del medicamento che ogni sua apparizione pubblica offre alla nostra anima infetta. E quella vita va protetta, non consumata e digerita.
Non mi piace assistere allo scempio del suo corpo, a quel suo volto giovane che si ammala e si allontana ogni giorno di più. Perché c’è una bella differenza tra il vivere e il morire. E’ lui che me l’ha insegnato. Me l’ha insegnato quel giorno che fece il suo discorso più bello, all’indomani del suo ritorno a Casal di Principe, quando dovette sfidare la rabbia e lo sprezzo dei mafiosi e degli amici dei mafiosi: “Quand’ero ragazzo, prima di fare a pugni, prima di sentire le nocche sulle gengive e prima che ci si rotolasse per terra…ci si sfidava a parole. Ecco, mi ricordo che prima di fronteggiarti, le frasi di rito erano degne di uno scontro tra cavalieri.Le ricordo ancora: “Io vengo da dove si imparano due cose, a sputare in faccia alla morte e alla paura. Sappi che per me vita e morte sono la stessa cosa”. E sento solo oggi quello che avrei voluto dire, viso a viso, a molti di quei ragazzi: che io ho imparato a risparmiare la saliva, che vita e morte non sono la stessa cosa e che fino al termine di questa notte proseguirò questo viaggio. Non datevi pace”.
Anche noi desideriamo fortemente, ossessivamente, che Roberto Saviano prosegua il viaggio che ha appena iniziato e arrivi alla fine, non solo di questa, ma di molte altre notti a venire.

Pubblicato su "L'Altro" (il quotidiano di Piero Sansonetti) il 7 novembre

2 commenti:

Unknown ha detto...

grazie katia.....michele villari

laura ghirlandetti ha detto...

ogni tua singola parola riempita di lucidità e intelligenza, l'ho sentita con la mia fibra più profonda come verità. Ma è difficile, difficilissimo uscire da questo meccanismo... sono convinta che solo se ci saranno molte più coscienze coraggiose, risvegliate anche dalla scelta di Roberto Saviano, si potrà essergli attivamente vicini, solidali e realmente grati... il popolo che non ha bisogno di eroi è un popolo adulto, dove ognuno cerca di essere degno della propria responsabilità interiore e civile... la strada è molto lunga; credo che Saviano dovrà trovare nella letteratura alta (la sola vera)la radice verde della sua scelta per continuare tenacemente ogni giorno a ribadirla ed essere un campione di moralità, come lo fu anticamente un Alighieri, in attesa di tempi in cui la democrazia sia l'alta libertà, integralmente vissuta da ognuno con tutti, come dovrebbe essere... ed è anche grazie a lui che quel tempo è già più vicino...
(Grazie dell'articolo.)
Laura Ghirlandetti